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ANDREA OPPO
DOSTOEVSKIJ: LA BELLEZZA, IL MALE, LA LIBERTÀ.
Un percorso filosofico in tre tappe
"Dostoevskij:
la Bellezza, il Male, la Libertà" è un
percorso filosofico-teoretico diviso in tre parti all'interno
del pensiero di F. M. Dostoevskij, seguendo altrettante
tematiche-chiave del grande scrittore russo: la Bellezza,
il Male e la Libertà. Attraverso la lettura dei tre
grandi romanzi della maturità (L'Idiota, I Demoni
e I Fratelli Karamazov) e le analisi che i suoi più
grandi interpreti, specialmente in Russia, hanno dato di
lui, questo percorso si propone di rintracciare, dentro
alcune idee e analogie ricorrenti, le più autentiche
sorgenti filosofiche di un autore al quale, secondo Nikolaj
Berdjaev, "forse la filosofia ha insegnato poco, ma
la filosofia ha molto da imparare da lui".
1. Quale
Bellezza salverà il mondo? L'Idiota di Dostoevskij
e un difficile enigma
2. L'idea di male assoluto nei "Demoni" di
Dostoevskij
3. La vera anima del genio crudele. Scavando al fondo dei Karamazov
2. L'idea di male assoluto
nei "Demoni" di Dostoevskij
"Voi pensate, forse, che io dubiti ancora
che il personaggio che mi appare nell'allucinazione sia
io stesso e non sia davvero il diavolo"
"E... lo vedete realmente? Vedete realmente una figura
ben definita?"
"Sì lo vedo, lo vedo così, come vedo
ora voi... e talvolta lo vedo e non sono persuaso di vederlo,
benché lo veda... talvolta non so chi dei due realmente
esista: io o lui..."
F. M. Dostoevski, I Demòni,
'Confessione di Stavrogin'
Uno
dei tanti paradossi di Dostoevskij è che alcuni fra
i suoi grandi romanzi, i romanzi della maturità,
furono concepiti in condizioni di estremo disagio e grande
fretta durante un soggiorno all'estero - a Baden-Baden,
a Wiesbaden, a Firenze, a Dresda - dove lo scrittore si
era rifugiato nel 1867 insieme con la seconda moglie ventenne,
Anna Grigor'evna, in una lunga e inutile fuga dai creditori
che lo minacciavano e dalla famiglia di lui, che non aveva
tollerato il matrimonio e voleva per sé il ricavato
delle sue opere. Furono quelli probabilmente i peggiori
anni della vita dello scrittore russo, ridotto in miseria
sotto il pungolo di umilianti difficoltà finanziarie
e dei debiti che lo costringevano a lavorare a ritmi intollerabili,
e vittima più che mai dei suoi attacchi epilettici
quanto della sua seconda malattia, il gioco d'azzardo. Di
tutto questo periodo tormentato e febbrile, durato infine
quattro anni, vi è testimonianza in due documenti
principali: tre grossi quaderni-diario scritti dalla moglie
con minuti caratteri da stenografa e le lettere spedite
da Dostoevskij stesso ad alcuni suoi amici in Russia.
Proprio in una di queste lettere, scritta al poeta Apollòn
Màjkov l'11 dicembre 1868, quando ancora non aveva
consegnato all'editore l'ultima parte dell'"Idiota",
Dostoevskij parla del progetto di un nuovo romanzo intitolato
"Ateismo": un'opera enorme, composta da quattro
o cinque parti, di cui una doveva chiamarsi "I Demòni".
In una successiva lettera allo stesso Màjkov, Dostoevskij,
accennando al libro a cui stava lavorando, scrive: "Quel
che scrivo è una cosa tendenziosa, voglio esprimermi
nel modo più veemente. (I nichilisti e gli occidentalisti
si metteranno a strillare e a dire che sono un retrogrado!).
Ma che il diavolo se li porti, esprimerò tutto me
stesso, fino all'ultima parola" [1].
Il progetto fu evidentemente ridimensionato ai soli "Demòni"
(per la prima volta pubblicati, a puntate, sui fascicoli
del "Messaggero Russo"), i quali, opera "tendenziosa"
lo sono senza ombra di dubbio.
In una lettera del 9 ottobre 1870 a Màjkov, Dostoevskij
spiega il senso del titolo del nuovo romanzo e dell'epigrafe
tratta dal Vangelo di Luca da lui posta all'inizio: "L'evangelista
Luca ci racconta che i demòni si erano insediati
in un uomo, il suo nome era Legione, ed essi Lo [Cristo]
pregarono: permettici di entrare nei maiali, ed Egli lo
permise. I demòni allora entrarono nei maiali e tutto
il branco si precipitò da un'altura in mare ed annegò.
[...] Esattamente la stessa cosa si è verificata
anche da noi. I demòni sono usciti dall'uomo russo
e sono entrati nel branco dei porci, e cioè nei Necàev,
nei Serno-Solov'ëvic e così via. Quelli sono
affogati, o affogheranno senza dubbio, e l'uomo ormai guarito,
da cui sono usciti i demòni, siede ai piedi di Gesù" [2].
Si profila così, per bocca dello stesso autore, la
prima solida linea interpretativa dell'opera, vale a dire
quella di un romanzo tipicamente politico, nel quale lo
scrittore prende netta posizione contro il movimento rivoluzionario
russo degli anni sessanta e settanta, il cosiddetto nichilismo
terroristico, denigrandone i militanti con i più
svariati toni satirici. Da cui seguiranno successive interpretazioni
di tipo storico-profetico, fino ai nostri giorni, che vedranno
nei "Demòni" un "romanzo premonitore"
della rivoluzione del 1917 e di tutte le lotte che avrebbero
insanguinato il mondo nel XX secolo [3].
In realtà, come bene osserva Gianlorenzo Pacini,
"l'affaire Necàev costituì l'occasione
e lo spunto - ma non più che lo spunto - per Dostoevskij
di scrivere il suo romanzo, giacché c'è ben
poco di comune tra i veri terroristi degli anni settanta
e i suoi demòni" [4].
Dello stesso avviso è D. P. Mirskij quando dice che
"I Demòni, sebbene siano un romanzo di cospirazione
terroristica, riguardano qualcosa che non ha nulla a che
vedere con il reale movimento terroristico. [...] L'opera
è rapportata alla realtà e in qualche modo
la simboleggia, ma appartiene a un altro ordine di esistenza" [5].
Un sospetto, in realtà, già confermato dall'autore
in persona, nella lettera del 20 ottobre del 1870 a Katkòv,
nella quale si dichiarò deluso da Necàev,
quando ebbe modo di conoscerlo direttamente durante il processo:
"La creazione della mia fantasia può notevolmente
discostarsi dalla realtà effettuale, e il mio Pëtr
Verchovenskij può non assomigliare affatto a Necàev
[...] Da solo quel personaggio non mi avrebbe sedotto. Secondo
me quei miserabili aborti non sono degni di entrare nella
letteratura.." [6].
Se non sono una copia dei terroristi del suo tempo, chi
sono dunque i "Demòni" di Dostoevskij?
A
breve tempo di distanza dalla conclusione dell'"Idiota",
lo scrittore russo sembra riprendere il discorso esattamente
là dove lo aveva lasciato: da un tentativo di redenzione
fallito; dal principe-Cristo Mikin - lo juròdivyj,
il folle di Dio, il pacificatore - che viene risucchiato
dalle stesse lacerazioni che cercava di risanare; ed infine
da un'idea di bellezza che risulta tanto affascinante quanto
ambigua, poiché in essa - come dirà Mitja
nei "Karamazov" - "le due rive si uniscono
e tutte le contraddizioni coesistono [...] È qui
che Satana lotta con Dio, e il loro campo di battaglia è
il cuore degli uomini" [7].
Così l'ambiguità di un'unica bellezza che
congiunge gli opposti e l'impossibilità di una salvezza
reale sotto il segno dell'armonia ricaccia Mikin da
dove era venuto e, inevitabilmente, fa inclinare l'asse
della ricerca dostoevskiana dall'esplorazione fallita del
Bene assoluto, di cui il principe era l'incarnazione, al
suo diretto opposto.
Come in un ponte dialettico che collega la Svizzera alla
Russia, tutte le idee e i simboli di questa storia sembrano
alternarsi, scambiarsi i ruoli, nascere e morire tra questi
due poli. E il celebre quadro del "Cristo nella tomba"
di Hans Holbein il giovane, che Dostoevskij visitò
nel museo di Basilea e a proposito del quale fece dire a
Mikin "più di uno guardando questo quadro
può perdere la fede", sembra essere a questo
punto la cartina tornasole di tutto. Il viso di Cristo,
a quanto si legge proprio nell'"Idiota", sarebbe
atrocemente sfigurato in quel dipinto, con tremendi lividi
per i colpi subiti, occhi dilatati e pupille storte: un'immagine
gravemente realistica, insomma, di un Cristo irreparabilmente
morto [8]. Si sa che Dostoevskij
ne rimase profondamente turbato, quasi come in preda a uno
dei suoi attacchi epilettici, e nei giorni successivi, a
Ginevra, stette molto male e temette di diventare pazzo
tanto acuta era la sua malattia.
Scrive Pietro Citati:
In
quel momento Dostoevskij conobbe una tentazione: la più
grande e angosciosa della sua vita, che ritorna più
volte nei libri di quegli anni. Forse Cristo non risorse
dal sepolcro. San Paolo aveva detto: "Se Cristo non
è risuscitato, allora è vana anche la nostra
predicazione, e vana pure la nostra fede". Se Cristo
era soltanto quel cadavere livido [...] la storia del mondo,
e la sua stessa vita e i suoi libri, erano un fallimento.
C'era solo la natura. Ma se Cristo non risorse, la natura
era una grande bestia: un enorme scorpione, oppure un grande
ragno, o una tarantola ripugnante [9].
La
stessa idea ritroviamo sviluppata in un passaggio chiave
del testo dostoevskiano, in bocca a Kirillov, l'"ateo
puro", il vero grande teorico del romanzo, mentre esprime
la sua professione di fede:
Ascolta
una grande idea: ci fu sulla terra un giorno, in cui in
mezzo alla terra stavano tre croci. Uno dei tre sulla croce
credeva, al punto che disse all'altro: "Tu sarai oggi
con me in paradiso". Il giorno finì, tutti e
due morirono, andarono e non trovarono né il paradiso,
né la risurrezione. Non si avverò ciò
ch'era stato detto. Ascolta: quest'uomo era il più
alto su tutta la terra, costituiva ciò per cui essa
doveva vivere. Tutto il pianeta, con tutto ciò ch'è
sopra di esso, senza quest'uomo, non è che una pazzia
[...] E se così è, se le leggi della natura
non hanno risparmiato nemmeno questo [...] vuol dire che
tutto il pianeta è menzogna e si regge sulla menzogna
e su una stolta irrisione. Vuol dire che le stesse leggi
del pianeta sono menzogna e una farsa del diavolo. Perché,
dunque, vivere, rispondi se sei un uomo? [10]
E
mentre emerge qui con prepotenza, nella sua versione più
limpida, l'uomo del sottosuolo dostoevskiano, quello che
denuncia l'inganno, svela la menzogna , squarcia di colpo
il velo fallace di un mondo che ci ha sempre ingannati,
si profila anche il nuovo territorio sul quale l'autore
intende avventurarsi.
All'opposto del Bene (tentativo fallito, eterno anelito
che si manifesta pure sotto le spoglie di un'ambigua bellezza
o, peggio, di un'ingannevole idea) si trova la nuda naturalità
dell'uomo. Dostoevskij si accinge a raccontare in questo
romanzo il volto puro del Male, il cui primo carattere è
l'assenza di una speranza/purezza e di una redenzione eterne:
se nulla sanerà le ferite, quella che segue è
una storia di fratture, abissi e opposizioni senza fine.
Ma esisterà - si chiederà qualcuno - pure
in un mondo senza Dio, una speranza di mezzo, un freno inibitore
ma conveniente, alla bruta legge naturale? Perché,
insomma, l'"estremo" ad ogni costo?
La risposta data da Dostoevskij, nei "Demòni",
all'esistenza di quella "via di mezzo" mostra
una prospettiva infinitamente peggiore del baratro assoluto,
sopra accennato, di un mondo ateo.
Ma tutto questo lo si vedrà bene solo alla fine del
romanzo. Il cui inizio è tanto più leggero
e lieve, addirittura casuale, di quanto i terribili sviluppi
non farebbero mai immaginare.
Quando
Dostoevskij decise di cambiare il progetto del romanzo,
e da "Ateismo" convertirlo nei "Demòni",
scrive Citati, "comprese che, per rappresentare l'immensa
vastità del Male, avrebbe dovuto cominciare da molto
lontano, e avvicinarsi con un passo lieve, frivolo e quasi
lieto" [11]. Protagonista
di questa prima parte dei "Demòni" è
Stepan Trofimovic Verchovenskij, uno scrittore liberale
degli anni '40, padre di Pëtr Stepanovic (a indicare
lo stretto legame esistente, secondo l'autore, tra i liberali
degli anni quaranta e i rivoluzionari degli anni sessanta):
un uomo ridicolo, egoista, infantile quanto ingenuo. Definito
da Bachtin l'epigono del pensiero aforistico, "egli
abbonda di singole 'verità', ma appunto perché
egli non ha 'un'idea dominante' [...] non ha una sua verità,
ma soltanto singole verità impersonali, che per ciò
stesso cessano di essere vere" [12].
E parlando di verità, non è un caso che sarà
proprio lui, in punto di morte, a riconoscere il suo tragico
destino: "Amica mia, io ho mentito tutta la mia vita.
Perfino quando dicevo la verità. Non ho mai parlato
per amore della verità, ma soltanto per me [13].
Stepan Trofimovic non è l'incarnazione del male,
del demonio; è piuttosto uno dei porci dentro i quali
i demòni del racconto evangelico vanno ad infilarsi
prima di gettarsi dal precipizio, come egli stesso ammetterà
al termine della propria vita [14].
Da lui e dal suo rapporto con Varvara Petrovna, madre di
Nikolaj Vsevolodovic Stavrogin, si sviluppa una storia dalla
trama tanto complessa quanto allusiva, ricca di mistero,
sospetti, maldicenze, lettere anonime, segreti origliati
e una misteriosa trama che si dipana come la ragnatela di
un enorme ragno. Dopo una lunga attesa, quando questo "vaudeville
del diavolo" mostra sempre più i suoi contorni
drammatici, entrano in scena i veri protagonisti della storia,
i demòni, i diavoli cospiratori: Pëtr Verchovenskij,
Kirillov e Stavrogin. Tre personaggi sopra tutti e una serie
di simboli che s'intrecciano e ritornano lungo tutto il
romanzo: a cominciare dal numero "tre" (le croci
sul Golgota; i tre brani delle scritture che Stepan Trofimovic
e Stavrogin citano nello stesso ordine; le tentazioni del
diavolo; la Trinità del Male incarnata nei protagonisti
con cui Dostoevskij fa da specchio all'"Apocalisse"),
per passare al colore rosso - come bene ha osservato Citati [15]-, all'immagine del
ragno, e infine all'espressione in bocca a tutti, e proferita
di continuo: "Diavolo".
La natura, per un attimo in Dostoevskij, sembra dominare
e inghiottire ogni cosa. Non c'è pietà per
nessuno e tutti mentono su tutto, tanto che al lettore sembra
di perdere ogni punto di riferimento possibile quando perfino
la paura della morte, il timore per la propria e altrui
vita, scompare dall'animo dei personaggi di questo mondo.
Com'è lontana la pietà e la compassione di
molti altri animi creati da Dostoevskij: nell'universo attuale
sembra esserci posto soltanto per figure come il gelido
Kirillov, seguace di un'unica idea di onnipotenza, l'abietto
Pëtr Stepanovic Verchovenskij o il sanguinario Stavrogin.
Dostoevskij - mai come in questo caso il "crudele Dostoevskij"
di Michajlovskij o, se preferiamo, il "criminale",
come disse Thomas Mann accostandolo per affinità
psicologica a Nietzsche [16]-
conosceva bene i meccanismi di questa macchina disumana
che si prepara adesso a divorare il mondo, dopo che la speranza
(fallace o meno) di una salvezza è stata esiliata.
Egli conosceva, dice ancora Citati, "quell'animale
spaventoso; e l'avrebbe rappresentato nella ragnatela dei
"Demòni", e nel ragno che è Stavrogin" [17].
Ma com'è fatto e quali precise sembianze possiede
il demonio? Che cos'è il male assoluto in Dostoevskij?
È anzitutto incarnato nei suoi personaggi, nei tre
protagonisti: tutti "uomini-idea" per dirla con
Bachtin, diversi tra loro e a fatica riconducibili ad una
sola matrice. Ma in uno solo di questi, Stavrogin, il male
mostra il suo volto più puro e terrificante.
Un
elemento caratteristico dei romanzi di Dostoevskij, fa osservare
ancora Bachtin, è la presenza di quelli che lui chiama
i "sosia parodianti". Ossia, quasi tutti i personaggi
principali dei suoi romanzi hanno alcuni sosia che lo parodiano
variamente. In questa categoria il critico letterario russo
colloca anche Kirillov e Pëtr Stepanovic Verchovenskij,
i quali, solo in apparenza potrebbero ambire al ruolo di
protagonista; il cui trono indiscusso è ovviamente
di Nikolaj Stavrogin.
Pëtr Verchovenskij in particolare potrebbe sembrare
a tutti gli effetti egli stesso il peggior demonio presente
in questa storia; il cospiratore malvagio, colui che "fa"
il male attivamente e nel modo più ripugnante: insidia,
maligna, mente, calunnia, ostenta, imbroglia. Non crede
in nulla, nemmeno nella rivoluzione; usa tutti per i suoi
biechi scopi e deride ogni idea, ogni religione, ogni fede.
Dando ragione a Bachtin, la sua è l'incarnazione
perfetta dello spirito demoniaco della parodia. E come dice
Kirillov, la storia diventa tra le sue mani un "vaudeville
del diavolo". E tuttavia, in quell'epoca ormai di disfacimento
solo un demone meschino (per dirla col titolo della
celebre opera di Sologùb) poteva diventare il genio
della distruzione e del degrado della società. Egli
è la causa di tutti i disastri reali che avverranno
nella piccola città di provincia dove è ambientato
il romanzo: degli incendi, delle morti, dei soprusi. Eppure
egli stesso davanti a Nikolaj Vsevolodovic ha il coraggio
di dichiarare la verità: "Voi siete appunto
l'uomo che ci vuole. A me, a me occorre proprio un uomo
come voi. All'infuori di voi, non conosco nessuno. Voi siete
il capo, siete il sole, ed io sono il vostro verme...[...]
Quest'uomo sono io. Perché mi guardate? Voi, voi
mi siete necessario; senza di voi io sono zero. Senza di
voi sono una mosca, un'idea in una fiala, Colombo senza
l'America" [18].
Il male viene prima dell'atto del male. E la ragnatela,
con tutte le sue trame, ha pur sempre bisogno di un ragno
che la produca.
Ben diverso è il caso di Kirillov, anch'egli sosia
parodiante, ma nel senso che da Stavrogin 'estrapola' un'idea,
immobile ed eterna, ponendosi perciò un gradino al
di sopra del male assoluto, non al di sotto come Pëtr Verchovenskij che il male mette in opera.
Si tratta dell'idea dell'eterna armonia, perfettamente raggiunta.
Qualcosa che in natura esiste "ma per non più
di cinque secondi"; qualcosa che rassomiglia da vicino
al "mal caduco" di cui forse dovrebbe soffrire
lo stesso Kirillov. È l'istante di estasi infinita
già descritto da Dostoevskij a proposito delle proprie
crisi: cinque secondi è il tempo di sopportazione
massima di questa eterna armonia, "per sopportare questa
sensazione per dieci secondi, bisognerebbe trasformarsi
fisicamente", dice Kirillov. Ma lui un'idea in proposito,
e da molti anni, ce l'ha.
In tre differenti dialoghi che scandiscono la vicenda, Kirillov
spiega la sua decisione di suicidarsi per divenire egli
stesso dio, sostenendo la libertà assoluta, sostituendo
al Dio-uomo cristiano, l'uomo-dio ateo.
"Se Dio c'è - spiega Kirillov a Pëtr Verchovenskij
- tutta la volontà è sua, e io non posso sottrarmi
alla sua volontà. Se non c'è, tutta la volontà
è mia, e son costretto a proclamar il mio libero
arbitrio" [19]. Alla
replica dell'interlocutore sul perché di quella costrizione,
egli risponde: "Perché tutta la volontà
è diventata mia. Possibile che non ci sia nessuno
su tutto il pianeta, che dopo averla fatta finita con Dio
ed aver posto fede nel proprio arbitrio, osi proclamar il
libero arbitrio nel senso più assoluto?" [20].
E conclude: "Io sono obbligato a uccidermi, perché
il culmine del mio libero arbitrio è uccidere me
stesso" [21].
Per quanto questo discorso abbia certamente in sé
accenti di morbosa visionarietà, quando non di lucida
paranoia, contiene una provocazione non soltanto linguistica.
Come mette bene in rilievo Sergio Givone, l'intento di Kirillov
di suicidarsi e la sua giustificazione "dà luogo
a un corto circuito filosofico di straordinaria intensità:
tanto che è inevitabile riconoscere in esso un geniale
e fulmineo rovesciamento del pessimismo metafisico alla
Schopenhauer nella più lampante prefigurazione dell'Übermensch nietzschiano" [22].
L'argomentazione fondamentale di Kirillov, osserva ancora
Givone, si gioca più sul piano estetico che su quello
etico: "L'uomo è infelice perché non
sa di essere felice. È tutto qui, tutto!", ripete
Kirillov, "tutto è bello, tutto è bene".
È un bene la miseria, la madre disperata, che magari
muore di fame; se poi qualcuno offende e disonora la bambina,
anche questo è bene, come è bene se all'offensore
sfracelleranno la testa a causa della bambina. "Se
l'uomo è libero - conclude Givone -, se libertà
significa perfetta risoluzione dell'universale rigurgito
di morte nella volontà di vita come volontà
in grado di controllare e dominare la morte al punto di
volerla [...] allora ogni istante apparirà sempre
perfettamente adeguato a se stesso e tale da non poter essere
che quello che è" [23].
L'idea di Kirillov si configura quindi come un rapporto
tra l'istante eterno e la morte: un rapporto nel segno dell'identità,
dell'annullamento superiore di ogni opposizione. "Per
cui la stessa menzogna è indifferentemente convertibile nella verità, come la morte lo è
nella vita e il tempo nel suo intemporale arresto eterno" [24].
Se
il male assoluto non è un'idea - Kirillov: l'"indifferenza
assoluta", la perdita di ogni distinzione, che fa trasformare
l'uomo in dio stesso - né la sua applicazione - rappresentata
da Pëtr Verchovenskij (di cui ci viene fornita nel
romanzo un'agghiacciante disamina nel suo dialogo con Nikolaj
Vsevolodovic [25]) - non rimane che
una terza possibilità, rappresentata da Stavrogin.
Il male è un dato, apparentemente gratuito e privo
di scopi. Il male esiste anzitutto, come esiste il demonio,
e non di necessità questo avviene per una qualche
causa.
L'ingresso sulla scena di Nikolaj Vsevolodovic Stavrogin
si manifesta sotto il segno dell'insolenza totalmente gratuita.
Come il suo volto - descritto alla stregua di una maschera
di cera, bella, affabile e perfetta, ma fatua e artificiale
- così pure la sua anima è fredda, priva di
rancore o di vendetta, e tantomeno della voglia di emergere
o sopraffare o dimostrare qualcosa. In due azioni circostanziate
Stavrogin presenta se stesso. Nella prima, durante una riunione,
come afferrato da un raptus improvviso, prende letteralmente
per il naso uno dei membri più rispettabili e anziani,
il quale parlando in pubblico aveva sempre l'abitudine di
intercalare le sue frasi con un "nossignori, a me non
mi si mena per il naso!". Un'umiliazione inferta a
quella povera persona "senza il minimo pentimento",
anzi con un "sorriso maligno e allegro" e una
giustificazione che ha dell'inverosimile: "Naturalmente,
voi mi scuserete... Non so, davvero, come mi sia venuta
d'improvviso la voglia di..." [26].
Tempo dopo, quando la voce relativa a questo episodio si
era sparsa per tutta la città, e Stavrogin, da persona
perbene e rispettata che era fin lì, aveva ormai
la fama di "attaccabrighe e duellista della capitale",
il governatore in persona decise di chiedere conto a lui
in persona dei suoi misfatti: "Dite, che cosa vi spinge
a simili atti sfrenati, fuori di tutte le regole e le misure
ammesse? Che cosa possono significare simili uscite che
paiono d'un uomo in delirio?" [27].
La risposta, anticipata da uno sguardo ironico a malizioso
- riferisce il narratore anonimo della storia - fu un "ve
lo dirò, magari, che cosa mi spinge". E avvicinatosi
all'orecchio del governatore, invece di sussurrargli qualche
interessante segreto, glielo addentò violentemente
fino quasi a staccarglielo.
In città si profila subito una spiegazione rassicurante
agli avvenimenti accaduti, e cioè che Nikolaj Vsevolodovic
sia pazzo; affetto da una forma grave di "delirium
tremens". Ma nessuno di quelli che lo conoscono, a
cominciare dalla madre Varvara Petrovna, è convinto
di ciò. Si tratta in realtà, e presto apparirà
chiaro, di una diagnosi che possa mascherare un'ipotesi
ben peggiore.
Il male non ha a che fare con la pazzia - questo è
chiaro a tutti nel romanzo. Stavrogin è affascinante,
attrae le donne, nessuna sa resistergli. È aristocratico,
autorevole: quando è lui sulla scena tutto si blocca
per ruotargli intorno. Tutti lo temono, lo ammirano, hanno
bisogno di lui. E, apparentemente, lui non ha bisogno di
nessuno.
Gli unici sentimenti che lo contraddistinguono sono quelli
di ribrezzo, quasi sempre associato a delizia. Ciò
che lo disgusta lo attrae. Sposa in segreto la sciancata
Marija Timofeievna, solo per il gusto dello scandalo che
un atto così poco conveniente poteva suscitare nella
società d'allora.
La sua freddezza raggiunge vette impensabili di fronte al
sentimento della paura. Nei suoi anni di esilio dalla città,
successivi agli episodi precedentemente citati, pare che
Nikolaj Vsevolodovic abbia vissuto nei monti a stretto contatto
con i peggiori criminali, abbia visto la morte in faccia
più volte, nella forma di una pistola rivoltagli
contro, e si fosse rafforzato nel sentimento dell'indifferenza
assoluta. Ora, né il dolore, né la sofferenza,
né il piacere o la gioia, né la morte stessa
gli provocano alcun movimento dell'animo. Questo è
Nikolaj Stavrogin.
Eppure, al rientro in città anni dopo il suo esilio,
qualcosa è cambiato: è accaduto qualcosa di
cui il lettore saprà solo alla fine, in un'appendice
apparentemente superflua al racconto.
Adesso Stavrogin subisce uno schiaffo in pubblico dal compagno
atov senza reagire, quando prima "lo avrebbe
fatto volare dalla finestra senza pensarci su una volta
sola". Sfidato a duello dal figlio di quel Gaganov
che egli aveva oltraggiato davanti a tutti, mira volutamente
fuori bersaglio e solo per l'incapacità a sparare
dell'avversario non muore in quell'occasione, mostrando
una completa indifferenza alla morte stessa.
Sembra che qualcosa lo blocchi dall'essere ciò che
era prima (e lo insulta per questo, con un "non ti
riconosco più", una delle sue donne); o forse
ancora pare che egli non abbia più alcun motivo per
essere alcunché. Se da un lato esprime l'incarnazione
perfetta di ciò che vorrebbero diventare i suoi due
sosia parodianti Kirillov e Pëtr Stepanovic, di questi
ultimi a lui manca l'elemento del desiderio, la volontà:
tanto perfetta è in lui l'irrisione della vita e
l'assenza di sentimento.
Così racconta se stesso nella lettera testamento,
lasciata a Darija Pavlovna, prima di partire via per sempre:
"Ho provato da per tutto la mia forza. Me lo consigliavate
'per conoscere me stesso'. Alle prove, tanto in quelle fatte
per me quanto in quelle che ho ostentate, come anche prima
in tutta la mia vita, essa è risultata sconfinata.
Sotto i vostri occhi ho sopportato lo schiaffo da vostro
fratello; ho confessato il mio matrimonio pubblicamente.
Ma a che cosa applicare questa forza, ecco che cosa non
ho mai visto, non vedo nemmeno ora" [28].
E
spiega meglio il senso delle sue parole:
"Posso ancora, come potevo sempre prima, desiderar
di fare un'azione buona e ne sento piacere; insieme ne desidero
anche una cattiva e ne sento ugualmente piacere. Ma tanto
l'uno che l'altro sentimento, come prima, sono sempre troppo
meschini e non sono mai robusti. I miei desideri hanno troppa
poca forza; non possono guidarmi [...] Di tutto si può
discutere all'infinito, ma da me non è uscita che
la negazione, senza alcuna magnanimità e senza alcuna
forza. Non è uscita anzi nemmeno la negazione" [29].
In
quest'ottica Stavrogin dichiara di non potersi uccidere
mai, come ha fatto Kirillov il quale seguiva un'idea fino
alle estreme conseguenze: "Io non potrò mai
perdere la ragione e non potrò mai credere a un'idea
fino al punto al quale arrivava lui [...] So che dovrei
uccidermi, spazzar via dalla terra me stesso, come un vile
insetto; ma temo il suicidio, perché temo di mostrare
magnanimità. So che sarebbe un altro inganno [...]
Non ci potrà mai essere in me né indignazione,
né vergogna; per conseguenza nemmeno disperazione" [30].
Ma qualcosa indicava che le cose stavano in diversa maniera.
Arrivate al cantone di Uri, Darija Pavlovna e Varvara Petrovna,
non trovarono Nikolaj Vsevolodovic in nessun luogo; dopo
qualche ricerca, nella soffitta, videro il suo corpo impiccato
a una corda. Tutto attestava un suicidio premeditato e lucido
fino all'ultimo istante: e l'autopsia - riferisce il narratore
- escluse in modo assoluto l'alienazione mentale.
L'anello
mancante si trova nell'appendice al romanzo, che narra di
un incontro svoltosi qualche tempo prima, proprio durante
le devastazioni, causate dai "demòni",
che infuriavano in città. Si tratta dell'incontro
tra Stavrogin e il vescovo Tichon, al quale Nikolaj Vsevolodovic
decide di fornire una confessione dettagliata della sua
vita, e in particolare di quegli anni trascorsi fuori della
sua città.
Su questo brano, paragonandolo ad altri dell'intera opera
di Dostoevskij, si è soffermato Luigi Pareyson [31],
fornendo una dettagliata analisi dei crimini di Stavrogin
come altrettanti simboli dell'esperienza del male secondo
Dostoevskij. Così, oltre al fondamentale "amoralismo"
che caratterizza in lui l'incarnazione del male (a differenza
di Raskol'nikov, il cui delitto, per Pareyson, va
piuttosto inserito in un'ottica di "titanismo"
malvagio [32]), vi è
la "distruzione" propria del male, non per nulla
Stavrogin brilla per la sua "straordinaria attitudine
al delitto" e viene definito dalla gente "il sanguinario";
poi l'abiezione, ovvero il godimento che si prova dalla
trasgressione della norma; lo sdoppiamento della personalità,
che in Stavrogin si manifesta nel suo essere depravato ed
elegante al contempo, e nella maniera con cui inganna la
sventurata donna sposata per dileggio; ma vi è soprattutto
la perversione, intesa come profanazione, crudeltà
e violazione dell'innocenza.
In quest'ultimo senso - la perversione più terribile,
la crudeltà che riguarda i bambini, un attentato
e una sfida diretta all'esistenza di Dio [33]-
si colloca l'episodio cruciale "confessato" a
Tichon: quello in cui Stavrogin prima seduce e violenta
la piccola Matrësa, poi con la sola persecuzione del
suo sguardo riesce a provocarne i suicidio che egli osserva
impassibile e con una lucidità (conta i secondi,
osserva un piccolo ragno e tutti i suoi movimenti) che ha
del disumano. Si assiste così alla più spietata
e demoniaca perversità di chi profana quanto di più
sacro esista nel nostro mondo, l'innocenza dei bambini.
La piccola Matrësa, dal canto suo, dopo aver visto
la propria innocenza così crudelmente profanata,
ha la netta sensazione che qualcosa di sacro sia stato violato,
proprio come Nastas'ja Filipovna (violata a sua volta da
bambina) attribuisce a se stessa la colpa, e crede d'essere
stata lei a "uccidere Dio". Perciò, dopo
aver minacciato Stavrogin col suo piccolo pugno rivolto
verso di lui, decide di impiccarsi sotto lo sguardo gelido
del suo persecutore.
Ma è qui che accade qualcosa di imprevedibile per
il 'sanguinario' e impassibile Stavrogin: per la prima volta,
davanti alla scena più inverosimile ch'egli riesca
a concepire - una bimba inerme, che si rifugia in un angolo
della stanza, si copre il viso con le mani per la vergogna
e alla vista di Stavrogin gli mostra con ferocia il suo
piccolo pugno -, egli prova paura. "Non ho mai sentito
la paura - legge a Tichon dalla sua Confessione -
e, tranne in questo caso della mia vita, non ho mai temuto
nulla né prima né dopo. E tantomeno la Siberia,
sebbene più di una volta avessi corso il rischio
di esser deportato. Ma stavolta ero spaventato e avevo realmente
paura" [34]. Così
la vita di Stavrogin subisce una svolta, come ripete egli
stesso al vescovo Tichon: "Mi è insostenibile
solo quella sua immagine, e precisamente la visione di lei
sulla soglia col piccolo pugno alzato in atto di minaccia
contro di me: solo quel suo aspetto di allora, quel solo
momento, quello scrollare del capo. È questo che
non posso sopportare, poiché da quel tempo mi si
presenta quasi tutti i giorni" [35].
Tichon, in risposta a questa confessione, non nasconde a
Stavrogin che "un delitto più grande e orribile
di quello commesso su quell'adolescente non c'è e
non può esservi". Ma ugualmente non risponde
in maniera diretta a Nikolaj Vsevolodovic, poiché
sembra interessato piuttosto a un altro aspetto del suo
racconto.
Ma prima di accennare a questo, faremo un piccolo passo
indietro.
Come
già osservato vi sono tre brani delle Scritture che
ritornano più di una volta in questo romanzo. Il
primo è il brano evangelico della montagna, riguardante
la Fede, con il quale Stavrogin tenta direttamente il vescovo
("Vi voglio domandare per curiosità: siete capace
di far muovere la montagna o no?"). Il secondo brano,
tratto dall'Apocalisse, e questa volta citato da Tichon
in risposta, recita così: "[...] Conosco le
tue opere; tu non sei né freddo né ardente.
Oh se tu fossi freddo o ardente! Ma perché sei tiepido,
e non ardente, né freddo, ti rigetto dalla Mia bocca".
Non sfugge al vescovo il nervosismo del suo interlocutore
al sentire queste parole: "Vi ha colpito che l'Agnello
ami di più l'uomo freddo che non l'uomo soltanto
tiepido" [36]. "L'ateismo
assoluto - aggiunge il vescovo - è più rispettabile
dell'indifferenza mondana [...] L'ateo assoluto sta nel
penultimo gradino della fede perfetta (e non si sa se andrà
più su o no), mentre l'indifferente non ha nessuna
fede, tranne una cattiva paura, ed anche quella di rado,
solo se è un uomo sensibile" [37].
Qui Tichon svela il punto debole di Stavrogin e il paradosso
del demonio: il male allo stato puro è qualcosa di intermedio e tiepido, che, proprio per ciò
verrà rigettato dal Regno dei Cieli. E addirittura
l'ateismo assoluto sarà meglio accolto dell'indifferenza.
Parole che bruciano alle orecchie di Stavrogin ("Come
fate a sapere che mi sono arrabbiato?"): la sua paura
più grande è infatti quella di 'non essere';
che quella "via di mezzo", tiepida e indifferente,
culmine e condizione del male assoluto, semplicemente non
esista, se anche un piccolo pugno di una bimba indifesa
dimostra di possedere ciò che il demonio non ha.
Al suo grado più elevato il male è "tiepido",
e perciò non avrà mai vita propria.
L'ultimo paradosso dostoevskiano è che il puro male,
unico dato esistente (basti ricordare Pëtr Verchovenskij
che ha bisogno di Stavrogin per esistere), alla fine non
esiste. Come in un grande gioco di rimpiattino ognuno dei
demòni modella la propria esistenza sull'altro, per
recuperare un proprio senso. Ma alla fine perfino Stavrogin,
il sole a cui tutti gli altri guardano per ritrovare se
stessi, mostra di non avere identità propria, e -
come fa notare splendidamente Bachtin - "ciascuno di
essi segue Stavrogin come un maestro, prendendo la sua voce
per una voce sicura e integra. Tutti pensano che egli parli
con loro come un maestro con un discepolo; in realtà
egli li rende partecipi del suo disperato dialogo interiore,
nel quale egli cerca di convincere se stesso e non loro" [38].
È il medesimo punto debole colto da Tichon, tramite
il quale inchioda alla propria contraddizione Nikolaj Vsevolodovic
al termine della lettura della sua confessione.
La replica del vescovo a tutte quelle atrocità, benché
riconosciute e ammesse come le peggiori possibili, è
sconcertante. Egli muove quasi delle obiezioni grammaticali
al russo imperfetto di Stavrogin ("Non si potrebbero
fare delle correzioni in questo documento?"); dubita
fin dall'inizio della sua sincerità, ma non in merito
ai fatti riferiti, quanto all'intenzione generale di renderli
pubblici. "Poiché non vi vergognate di confessare
il delitto - chiede Tichon -, perché vi vergognate
del pentimento?"[39] E successivamente: "Rispondete a una domanda, ma sinceramente,
a me solo, a me solo. Se qualcuno vi perdonasse per aver
scritto questo (Tichon accennò ai foglietti) e non
uno di quelli che voi stimate o temete, ma uno sconosciuto,
un uomo che non conoscerete mai; se quest'uomo vi perdonasse
dopo aver letto la vostra terribile confessione, vi sentireste
sollevato o vi sarebbe indifferente?" [40] Tichon riconosce - fa osservare ancora Bachtin - che il
pentimento della persona che ha di fronte non è sincero
proprio dal fatto che questo è modellato sull'interlocutore,
e parte da un profondo senso di vuoto interiore, laddove
tutti credevano vi fosse la pienezza: il covo del male.
Il
terzo brano delle Scritture, posto anche come epigrafe al
romanzo, è quello dell'indemoniato geraseno, tratto
dal Vangelo di Luca, dove uno spirito immondo entra nel
corpo di un uomo che Gesù libera col semplice atto
di chiedergli il nome ("Legione, rispose, perché
molti demòni erano entrati in lui") e ordinando
ai diavoli di entrare nel corpo di un branco di porci che
poi si sarebbero gettati dalla rupe di un lago.
Il "nome", che nella vicenda evangelica è
sempre decisivo, tanto che le persone in grado di avvicinare
Gesù per via diretta sono quelle che lo riconoscono
col suo corretto nome secondo la tradizione; lo stesso nome,
simbolo della propria anima, risulta fondamentale anche
per il demonio. Ma questi non ne possiede uno, e può
vivere soltanto da parassita nei nomi degli altri. Questa
è la vera paura di Stavrogin, quella che gli fa dichiarare:
"Io non amo le spie e gli psicologi, quelli che mi
frugano nell'anima. Io non chiamo nessuno nella mia anima" [41]. E alla fine quando s'accorge
che Tichon ha compreso tutto, a tal punto da avere una lucida
profezia sulla sua fine, egli, "tremando di sdegno
e spavento", dirà le sue ultime parole che metteranno
fine al colloquio: "Maledetto psicologo!".
Il demonio infilatosi nel corpo di un maiale si getta allora
nell'abisso.
La constatazione della realtà del Male è l'esperienza
decisiva e fondamentale di Dostoevskij, come bene testimoniano
soprattutto le "Memorie dal sottosuolo". Il dolore,
il peccato, la sofferenza, la colpa, il delitto, il castigo,
rappresentano realtà ineludibili che danno all'esistenza
umana il suo carattere eminentemente tragico.
Tuttavia, come Evdokimov ha messo in luce meglio di tutti,
il male proviene dal proprio non essere e ritorna ad esso.
"Avendo negato tutto - scrive Evdokimov - giunge al
punto di negare anche se stesso" [42].
Nella prospettiva dell'assoluto, cioè, un simile
principio di negazione è ridotto al silenzio ontologico
e, aggiunge ancora il filosofo russo, "non è
che un segno immaginario e irreale, neutralizzato dal fatto
d'esser necessariamente ripiegato su se stesso: esso 'è'
sotto la forma del nulla, esiste come inesistente, perché
per esso essere significa negare se stesso; se si può
dire che il male esiste, esiste soltanto per essere annullato" [43].
In definitiva, il male prima nega tutto ciò che giunge
a distruggere e poi distrugge se stesso. Tutto ciò
porta a una nuova genesi del bene, che non significa la
sua vittoria assoluta, ma il rinnovamento della dialettica
tra essere e non essere.
Per quanto possa suonare azzardato, per Dostoevskij l'esistenza
del male assoluto è un problema secondario. Il vertice
più elevato del male è un nome che non esiste.
E anche se i demòni sono in grado di distruggere,
conquistare, devastare il mondo a loro piacimento e macchiarsi
dei crimini più orrendi, è qualcos'altro a
richiamare con maggiore urgenza l'animo e l'attenzione dello
scrittore russo; qualcosa di cui il male, forse, è
niente più che l'ombra. Tutto ciò si vedrà
bene solo nei "Karamazov".
[1] I brani delle lettere di Dostoevskij
qui riportati sono tratti da: G. Pacini, F. M. Dostoevskij,
Milano, Bruno Mondadori Editore, 2002, p. 95.
[2] Ivi, p. 96.
[3]Basti citare Fëdor Stepùn, "I Demòni e la rivoluzione bolscevica"; Jurij Karjakin, "Dostoevskij
e la vigilia del XXI secolo" e infine il celebre volume
di Ljudmila Saraskina, "I Demòni romanzo
premonitore".
[4] G. Pacini, op. cit., p. 96.
[5]D. P. Mirskij, "Storia della letteratura russa",
tr. it. di Silvio Bernardini, Milano, Garzanti, 1995, p. 243.
[6] G. Pacini, op. cit., p. 96.
[7] F. M. Dostoevskij, "I fratelli Karamazov" in
"Romanzi e taccuini" a cura di Ettore Lo Gatto,
Milano, Sansoni, 1963, vol. II, 5, p. 174.
[8] Nell'"Idiota", a proposito del Cristo di Holbein, Dostoevskij farà dire a Ippolit: "Gli
uomini che circondavano il morto, ma dei quali nessuno appariva
nel quadro, dovettero provare un'angoscia e una costernazione
terribile in quella sera che aveva frantumato di colpo tutte
le loro speranze e quasi la loro fede" (F. M. Dostoevskij,
"L'Idiota" in "Romanzi e taccuini" cit.,
p. 502).
[9] P. Citati, "Il Male Assoluto. Nel cuore del romanzo
dell'Ottocento", Milano, Arnoldo Mondadori, 2000, p.
316.
[10] F. M. Dostoevskij, "I Demòni", tr. it
di Rinaldo Küfferle, Milano, Arnoldo Mondadori, 2002,
pp. 633-34.
[11] P. Citati, op. cit., p. 323.
[12] M. Bachtin, "Dostoevskij. Poetica e stilistica",
tr. it. di Giuseppe Garritano, Torino, Einaudi, 2002, p. 127.
[13] F. M. Dostoevskij, "I Demòni" cit.,
p. 668.
[14] "Quei demoni che escono dal malato ed entrano nei
porci, sono tutte le piaghe, tutti i miasmi, tutte le immondizie,
tutti i demoni e i demonietti che si sono raccolti nella grande
e cara malata, nella nostra Russia [...] I porci siamo noi
[...] ed io primo forse in testa agli altri, e ci precipiteremo,
folli e indemoniati, giù dalla rupe nel mare e affogheremo
tutti" (Ivi, p. 670).
[15] Cfr. P. Citati, op. cit., p. 326.
[16] Si veda il saggio di Thomas Mann, "Dostoevskij -
con misura" in "Nobiltà dello spirito e altri
saggi", a cura di Andrea Landolfi, Milano, Mondadori
"I Meridiani", 1997, pp. 861-880.
[17] P. Citati, op. cit., p. 316.
[18] F. M. Dostoevskij, "I Demòni" cit.,
pp. 429-430.
[19] Ivi, p. 632.
[20] Ibidem.
[21] Ibidem.
[22] S. Givone, "Dostoevskij e la filosofia", Bari,
Laterza, 1984, p. 90.
[23] Ivi, p. 96.
[24] Ibidem.
[25] Si veda F. M. Dostoevskij, "I Demòni"
cit., p. 430.
[26] Ivi, pp. 43-44.
[27] Ivi, p. 48.
[28] Ivi, p. 690.
[29] Ivi, pp. 690-691.
[30] Ivi, p. 691.
[31] Si veda in special modo il capitolo "Il male"
in L. Pareyson, "Dostoevskij. Filosofia, romanzo ed esperienza
religiosa", Torino, Einaudi, 1993, pp. 26-70.
[32] E nello stesso senso potremmo collocare, anche se sotto
una veste ancor più teorica, l'esperienza di Kirillov.
[33] Ipotesi - questa del "peccato più grave"
per Dostoevskij - confermata da Ivan Karamazov nel suo celebre
dialogo col fratello Alësa, nel quale non accetta un
mondo in cui esiste la "sofferenza dei bambini".
[34] F. M. Dostoevskij, "I Demòni" cit.,
p. 711.
[35] Ivi, p. 719.
[36] Ivi, p. 703.
[37] Ivi, p. 701.
[38] M. Bachtin, "Dostoevskij" cit., p. 343.
[39] F. M. Dostoevskij, "I Demòni" cit.,
p. 722.
[40] Ivi, p. 724.
[41] Ivi, p. 703.
[42] P. Evdokimov, "Dostoevkij e il problema del male",
tr. it di Elisabetta Confaloni, Roma, Città Nuova Editrice,
1995, p. 127.
[43] Ibidem.
Andrea Oppo, Dostoevskij: la Bellezza, il Male, la Libertà | 2. "L'idea di male assoluto nei "Demoni" di
Dostoevskij",
in
"XÁOS. Giornale
di confine", Anno II, N.2 Luglio-Ottobre 2003, URL: http://www.giornalediconfine.net/anno_2/n_2/16.htm
Leggi anche: 1. Quale
Bellezza salverà il mondo? L'Idiota di Dostoevskij
e un difficile enigma