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ANDREA OPPO
DOSTOEVSKIJ: LA BELLEZZA, IL MALE, LA LIBERTÀ.
Un percorso filosofico in tre tappe
"Dostoevskij:
la Bellezza, il Male, la Libertà" è un
percorso filosofico-teoretico diviso in tre parti all'interno
del pensiero di F. M. Dostoevskij, seguendo altrettante
tematiche-chiave del grande scrittore russo: la Bellezza,
il Male e la Libertà. Attraverso la lettura dei tre
grandi romanzi della maturità (L'Idiota, I Demoni
e I Fratelli Karamazov) e le analisi che i suoi più
grandi interpreti, specialmente in Russia, hanno dato di
lui, questo percorso si propone di rintracciare, dentro
alcune idee e analogie ricorrenti, le più autentiche
sorgenti filosofiche di un autore al quale, secondo Nikolaj
Berdjaev, "forse la filosofia ha insegnato poco, ma
la filosofia ha molto da imparare da lui".
1. Quale
Bellezza salverà il mondo? L'Idiota di Dostoevskij
e un difficile enigma
2. L'idea di male assoluto nei "Demoni" di
Dostoevskij
3. La vera anima del genio crudele. Scavando al fondo dei Karamazov
1. "Quale Bellezza salverà il mondo? L'Idiota di Dostoevskij e un difficile enigma"
"È
vero, principe, che una volta avete detto che il mondo sarà
salvato dalla bellezza?"
F. M. Dostoevski, L'Idiota
Raramente
una frase sola ha avuto tanta fortuna di per se stessa.
"La bellezza salverà il mondo" afferma
il principe Mikin nell'Idiota di Dostoevskij
[1]. Eppure quella stessa frase, ancor oggi citata infinite
volte, ripetuta nei più diversi contesti fino a farne
quasi scordare il suo proprio, nel testo originale ha una
rilevanza ambigua: è quasi un'evocazione lontana,
ricordo di qualcosa di non ben definito. Apparentemente
di poca importanza.
L'enorme letterarietà di quelle parole - che le fa
scontate, popolari, immediate ad una semplice analisi e
allo stesso tempo indizio del peggior rompicapo - è
solo uno dei segni della genialità del suo autore.
Il "genio crudele" Dostoevskij (definizione resa
famosa in Russia dal critico Michajlovskij [2]) mostra qui,
nella sola concezione di quella frase, il primo dei suoi
due attributi. "La bellezza salverà il mondo".
Cosa intendeva far dire Fëdor Michajlovic al suo principe idiota? Di quale bellezza si sta parlando? E in che
senso "salverà" il mondo?
Non è certo un terreno vergine quello che si sta
affrontando. Tutti i commentatori di Dostoevskij o quasi
non hanno rinunciato a dire la loro, facilitati in tanti
sensi dal mistero di quelle parole e dalla generale reticenza
dello scrittore russo che apriva il campo a molte interpretazioni.
C'è poi da aggiungere che il tema della bellezza,
nella tradizione russa, assume valori sofianici e iconografici
capaci di incanalare la questione su binari ben tracciati.
Lo stesso termine krasotà (bellezza), in russo,
così come l'aggettivo krasìvyj (bello)
hanno un significato molto più specifico di quello
che percepiamo nella traduzione italiana.
Allo stesso tempo, quasi un enigma nell'enigma, tutta la
vicenda dello scrittore Dostoevskij non si può mai
riferire a dei sicuri schemi interpretativi: lui, il più
russo di tutti e il più estraneo a quella tradizione
al contempo [3]; il più analitico in certi passaggi
come pure profondamente allusivo e ambiguo in altri [4].
In tal senso la fortuna occidentale della frase "La
bellezza salverà il mondo" non è riconducibile
soltanto all'Idiota né alla tradizione russa tout court. Per sé sola vive e si tramanda.
E una sua interpretazione deve per forza tentare vie diverse,
così come diversa e profondamente instabile - Bachtin
docet - è la visione dostevskiana delle cose, espressa
di volta in volta da un unico o da più personaggi
nei suoi racconti [5].
Si
parla quindi della Bellezza, ma è invece il "mondo"
che appare da subito come un elemento tutt'altro che banale
in quelle parole. Nella costruzione russa della frase, "Mir
spasët krasotà", l'autore con una anastrofe
inverte oggetto e soggetto, "Il mondo salverà
la bellezza", quasi a voler sottolineare che il punto
centrale in tutto ciò di cui si sta parlando non
è esattamente la bellezza.
Prima ancora d'aver cominciato, il primo passo dentro il
rompicapo già ci ribalta tutto.
E poi c'è la parola stessa "mir", che in
russo - fatto curioso - ha due significati: mondo e pace.
L'universalismo della cultura russa sembra discendere o
incarnarsi nella lingua stessa, laddove l'aspirazione all'armonia
concorde dell'umanità coincide con l'umanità
stessa, il mondo. Il punto centrale è dunque che
il mondo sarà salvato dalla bellezza: una profezia
"linguistica" in questo caso si avvererà
e il semplice mondo/mir diventerà la pace/mir. Questa
- come andiamo a spiegare - è la prima vera questione
in gioco.
"L'idea centrale del romanzo - scrive Dostoevskij in
una lettera alla nipote Sonija Ivanova - è di descrivere un uomo assolutamente buono. Nulla ci può
essere di più difficile al mondo, specialmente ai
nostri giorni (...) Tutti gli scrittori che hanno cercato
di rappresentare il bello assoluto, hanno sempre fallito,
perché è un compito impossibile. Il bello
è l'ideale, e l'ideale, sia da noi che nell'Europa
civilizzata, è ancora lontano dall'essersi cristallizzato"
[6].
La prima strada che si apre davanti a noi è quella
della bellezza come ideale. Tra il bello e il bene esiste
un legame misterioso, inafferrabile e indistruttibile. La
"Bellezza", intesa in senso "schilleriano",
è un concetto universale. Ad essa è affidato
il potere di ricomporre in un'unità armonica il disordine
fondamentale della realtà, rendendola capace, così,
di rivelare un senso ultimo al di sopra del suo stesso caos.
In tal senso l'idea della bellezza per Dostoevskij coinciderebbe
con quella che da Platone ("Il bello è lo splendore
del vero"), passando per lo Pseudo Dionigi Aeropagita
("Dio ci concede di partecipare alla sua propria Bellezza")
si innesta poi saldamente nella tradizione russa con la
nota raccolta ascetica conosciuta come "Filocalia"
e nella tradizione di Alessandria costruisce una vera e
propria "iconosofia": una grandiosa Teologia della
Bellezza per la quale penetrare l'essenza delle cose vuol
dire essenzialmente contemplarne la bellezza perfetta.
In questa direzione, seppure da diversi punti di vista,
interpretano le parole di Dostoevskij Vladimir Solov'ëv
[7] e Pavel Evdokimov [8]. Anche se proprio quest'ultimo
non aveva lasciato cadere nel vuoto l'obiezione fondamentale
posta dallo stesso Dostoevskij per bocca di Ippòlit:
"Il principe afferma che il mondo sarà salvato
dalla bellezza! (...) Quale Bellezza salverà il mondo?
Siete un cristiano fervente voi? Kolja dice che voi stesso
vi attribuite il titolo di cristiano" [9].
Così commenta Evdokimov: "La Bellezza è
un enigma, e se è vero che la bellezza salverà
il mondo, Ippòlit chiede di precisare 'quale bellezza'.
La bellezza, nel mondo, ha il suo doppio. Anche i nichilisti
amano la bellezza... come pure l'assassino Pëtr Verchovenskij"
[10]. E lo stesso Dostoevskij nei successivi Karamazov avrebbe addirittura fatto dire a Mitja:
"La
bellezza è una cosa tremenda e orribile. Non riesco
a sopportare che un uomo dal cuore nobile e dall'ingegno
elevato cominci con l'ideale della Madonna per finire con
quello di Sodoma. Ma la cosa più terribile è
che, portando nel suo cuore l'ideale di Sodoma, non rifiuti
nemmeno quello della Madonna... Il cuore trova bellezza
perfino nella vergogna, nell'ideale di Sodoma che è
quello della maggior parte degli uomini" [11] . Viene
alla luce, dice Evdokimov, il carattere profondamente ambiguo
della bellezza capace di salvare ma anche di ingannare:
"La Bellezza ha in se stessa una potenza salvatrice,
oppure anche la Bellezza, divenuta ambigua, ha bisogno di
essere salvata e protetta?" [12]
Del
resto, anche e soprattutto nell'Idiota la bellezza
diviene enigma da subito, in tutti i singoli inizi della
storia. Come la descrizione della natura svizzera nel primo
dialogo in casa Epancin:
Giungemmo
a Lucerna e mi condussero sul lago in barca. Comprendevo
la sua bellezza, ma, nello stesso tempo, mi sentivo molto
oppresso... Provo sempre un senso di pena e di inquietudine,
quando contemplo per la prima volta un simile quadro della
natura: ne sento la bellezza ma mi riempie di angoscia [13].
La descrizione del primo incontro con le due protagoniste
femminili del romanzo. La prima, Aglaja:
-
Ad ogni modo, principe, non avete ancora detto nulla di
Aglaja; ella attende ed io pure... Non ha nulla di notevole
forse?
- Oh, sì, è molto notevole! Voi siete straordinariamente
bella, Aglaja Ivanovna. Siete tanto bella, che si ha paura
a guardarvi.
- E poi? E le qualità morali? Insistette la signora.
- È difficile giudicare la bellezza; non mi ci sono
ancora preparato. La bellezza è un enigma [14].
Ed
infine Nastasja Filippovna che il principe vede per la prima
volta, e forse non a caso, attraverso una fotografia:
Un
viso straordinario! (...) È un viso altero, molto
altero, ma non so se sia buona. Ah, se fosse anche buona!
Sarebbe la salvezza! [15]
Tornando
a Evdokimov, a differenza di Solov'ëv il cui fondamentale
panteismo sembra non farlo dubitare troppo della bontà
del reale, egli riconosce subito la fragilità della
bellezza naturale e la necessità di una redenzione
che solo la visione folgorante dell'icona, l'energia dei
santi e la potenza pneumatofora della Chiesa può
darle. In altre parole, non vi sono dubbi che la bellezza
rappresenti in sé un enigma, anche oscuro e inquietante,
ma per Evdokimov esiste, nella tradizione russa, una chiave
d'accesso che permette di identificare esattamente il tipo
di bellezza al quale bisogna fare riferimento. La salvezza
del mondo riceve così la sua vera giustificazione.
A questo percorso, a quest'idea di bellezza, egli consacra
la sua opera "Teologia della Bellezza".
Ma è questa anche la vera prospettiva di Dostoevskij?
Sembrerebbe proprio di no. Certamente non nell'Idiota, non
negli ultimi romanzi.
La lettura di Evdokimov appare evidentemente forzata: c'è
qualcosa che va ben oltre la semplice visione di un ideale,
o la pura fede in un percorso di redenzione, nelle pagine
del grande romanziere russo. Qualcosa nel segno del tragico
e del contraddittorio. Consapevole dall'ambiguità
fondamentale della bellezza Dostoevskij identifica un modello
di questa in Cristo, modello rispetto al quale costruisce
i suoi romanzi, ma di sicuro non si rifugia nel suo "sguardo
guaritore", come dice Evdokimov, fuori e al riparo
dal mondo.
Semmai molto più vicino, in questo, a Solov'ëv,
egli vede nell'incarnazione più che nella visione
iconografica la sfida della Bellezza: "Il Mondo sarà
salvato dalla Bellezza", non "La Bellezza salverà
il Mondo". Sembra impossibile alla Bellezza sottrarsi
a questo ruolo e sembra per lei inevitabile il legame con
il Bene. Così come appare chiaro, dagli appunti e
dalle note preparatorie, il progetto di Dostoevskij per
questo romanzo: un essere assolutamente buono che si tuffa
nel mondo e cerca di redimerlo con la sua sola bontà.
"Al mondo esiste un solo essere assolutamente bello,
il Cristo, ma l'apparizione di questo essere immensamente,
infinitamente bello, è di certo un infinito miracolo"
[16]. Il principe Mikin è il tentativo di rappresentare
quest'ideale di assoluta bontà e bellezza morale.
Mikin, l'idiota, secondo la tradizione russa dello juròdivij, il folle di Dio, è la
purezza senza alcuna macchia: comprende tutto, trova una
ragione per ogni cosa, niente per lui è imperdonabile
o inguaribile. Il principe è Cristo e la sfida di
Dostoevskij è avviata: l'incarnazione totale [17].
Cosa accadrebbe se Cristo vivesse sulla terra ai giorni
nostri? Come potrebbe mai redimerla? Ovvero: in quale modo,
tecnicamente, la Bellezza salva il mondo?
L'Idiota è la risposta di Dostoevskij a queste
domande.
Curiosamente,
negli infiniti salotti del romanzo, il principe non pronuncia
mai quella frase direttamente, ma ogni volta gli interlocutori
la riferiscono per sentito dire: "È vero che
lei, principe, una volta ha detto
?" ecc. Sembra
sempre che non c'entri nulla con le situazioni reali, una
frase lontana buttata lì, che pure alla fine di tutto
assume un peso specifico enorme.
Il romanzo ci aiuta poco a capirne il senso in maniera diretta.
La narrazione invece, spietatamente, conduce in una sola
direzione: il fallimento.
La bontà del principe si rivolge a tutto e a tutti
in uguale misura, i rapporti umani sono l'unico interesse
da cui sia preso pienamente e, per quanto "idiota"
in teoria, capisce ogni cosa al primo colpo, le sue parole
sono lucide intuizioni e profezie. Parimenti gli altri capiscono
tutto: capiscono la sua "idiozia", capiscono l'assoluta
superiorità d'intelletto. Hanno davanti il più
idiota e il più intelligente fra gli uomini. Ma è
qui che la potente ombra che soggiace a tutta la spiritualità
russa e slava in genere viene fuori con prepotenza devastante,
nell'autore che più d'ogni altro ha saputo darle
voce. Il "sottosuolo" dostoevskiano - così
bene descritto da Ròzanov e estòv -
è fatto di urla, lamenti, un caos primordiale che
non accetterà mai d'esser sottomesso a un ideale,
seppure di bellezza assoluta.
Il principe puro s'immerge nel fango per sua scelta ma è
il fango a trascinarlo con sé, contro la sua volontà.
Non basta scorgere la bellezza profonda di Nastasja Filippovna
per salvarla, così per Aglaja o Rogoin. E la Spiegazione di Ippòlit è la denuncia
più lucida che ci sia, in pieno stile Ivan Karamazov,
dell'ingiustizia essenziale del mondo di quaggiù
e della non disponibilità della "parte lesa"
ad alcun compenso parziale. La sofferenza è sofferenza,
non sarà un'idea qualunque a redimerla. Fosse anche
la più perfetta tra le idee: come la bontà
e la bellezza assolute.
Su questo passo il romanzo diventa un gran guazzabuglio
in cui tutto risulta ambiguo: l'amore del principe per Nastasja
e Aglaja, la sua virilità, la loro stessa "bellezza",
le vere intenzioni del principe e il dubbio se alla fine
egli porti più conforto o disperazione. Il dubbio
se la bellezza cosiddetta "pneumofora" nella tradizione
russa, la bellezza che ha il potere di instaurare l'armonia
nel mondo, rappresenti anche il mezzo della sua trasformazione
e l'oggetto stesso della salvezza. Il finale tragico della
storia consacra il fallimento della missione del principe
e consegna il suo stesso destino a una tragedia perfino
peggiore di quella da cui proveniva. Un finale che per drammaticità
è inferiore soltanto di poco all'episodio tremendo
in cui Kirillov, nei Demòni, si suicida volendo
diventare egli stesso Dio. Da cui la tragica scoperta, la
luce nera del colpo di pistola, e il baratro che mostra
in un istante la sciagurata pretesa di salvezza attraverso
un autoinganno: ovvero la fede che il binomio Bellezza-Bene
rappresenti la più elevata giustificazione morale,
la più grande idea dell'umanità. Su questo
Dostoevskij dopo le Memorie dal sottosuolo, punto
di svolta del suo pensiero [18], non ha più dubbi:
il nesso Bellezza-Bene è un legame mortale. È
forse l'imbroglio più grande, quello che sta alla
base della tragedia dell'uomo.
L'Idiota è il romanzo dell'intelligenza umana: la più
alta, la più acuta. La comprensione puntuale e dettagliata
di tutte le cose: ognuna guardata dritta in volto, senza
veli. L'insensata tragicità (nelépyj tragizm),
ombra oscura sempre accanto alle singole epifanie dell'idea
russa, mostra il suo volto definitivo laddove la più
alta idea possibile (la Salvezza, la Redenzione) decide
di misurarsi per la prima volta con la realtà. La
tragedia di questo incontro si consuma per Dostoevskij,
paradossalmente, in due modi opposti tra loro. La Bellezza
è allo stesso tempo la più elevata menzogna
e la più alta verità per gli uomini. Nel primo
caso, come abbiamo visto, è l'illusione di un binomio,
la Bellezza e il Bene assoluti, che salverà il mondo.
Nel secondo è addirittura l'incarnazione di una Bellezza
talmente perfetta, talmente veritiera, da mostrare l'orrore
della fine in tutta la sua nudità. Così come
anticipa il principe Mikin in un dialogo a metà
del romanzo, mentre si trova a casa di Rogoin, parlando
di un quadro:
Sopra
la porta della camera attigua era appeso un quadro stranissimo
per la sua forma (...) Raffigurava il Salvatore deposto
in quel momento dalla croce. Il principe vi gettò
uno sguardo distratto, come ricordandosi di qualche cosa,
ma fece tuttavia l'atto di varcare la porta (...) - Mi piace
guardare quel quadro! Osservò dopo un breve silenzio
Rogoin. - Quel quadro! Esclamò ad un tratto
il principe, come colpito da un pensiero subitaneo, "quel
quadro! Ma tu sai che, osservandolo a lungo, si può
anche perdere la fede?" "Sì, la si perde
infatti" confermò improvvisamente Rogoin [19].
È questo uno dei brani più lucidi e drammatici
dell'intero romanzo, con il confronto diretto tra il principe
e Rogoin e nello stesso istante con un altro, indiretto,
per mezzo di un quadro sullo sfondo, tra lo stesso principe
e il Cristo morto rappresentato nel dipinto [20]. Il paragone
sotterraneo e implicito tra i due redentori ci conduce meglio
di qualsiasi altra cosa al cuore di questo romanzo.
Il principe Mikin, dichiaratamente ispirato e paragonato
dall'autore a Cristo [21], in verità con quest'ultimo
sembrerebbe aver poco a che fare. Basta un colpo d'occhio
intuitivo a mostrarne le differenze. Il Cristo raccontato
dai Vangeli non si preoccupa di capire il mondo (almeno
nel modo in cui lo fa Mikin): in linea di massima
lo ha capito già, molte cose non gli interessano
e quel che sa gli è sufficiente. Altrimenti annegherebbe
come il principe in tutte le più piccole ragioni
e capricci degli uomini. Laddove capire è ascoltare
tutta, ma proprio tutta la voce della realtà, dal
suo - sempre legittimo - punto di vista, Mikin capisce
tutto al primo colpo, non sbaglia una frase, un'interpretazione,
un'analisi dei fatti: le sue parole sono la semplice verità,
all'interno di quel paradigma narrativo. Inoltre, la comprensione
con i suoi interlocutori appare reciproca e il riconoscimento
delle sue lucide analisi è quasi unanime [22]. Ma
è una verità, quella del principe, che subisce
tutto ciò che gli sta intorno.
E se il Cristo dei Vangeli soprattutto "annuncia",
il principe Mikin "ascolta", tollera, sopporta
tutto e tutti, s'immerge fino al midollo nell'animo torbido
dell'umanità, per restarne poi incatenato. Così,
la "bontà assoluta", che per la prima volta
ha deciso di misurarsi col mondo, come una spugna assorbe
tutto e alla fine esplode. L'umanità, alla fine,
non è redenta dalla Bellezza. E neanche dall'Amore,
dalla Bontà, dalla Comprensione assoluta. Tutte queste
cose, per quanto naturalmente perfette, quando si tratta
di "salvare", annegano col resto; perché
"salvare" per davvero vuol dire prendere su ogni
cosa e il suo contrario. Ma una salvezza che sia armonia
non può tollerare tutto questo: tra la melodia e
il rumore vincerà sempre quest'ultimo, a meno che
non lo si metta a tacere. La Bellezza che redime dall'alto
è per forza di cose armonia che esclude: che concilia
alcune parti e altre no; scarta e seleziona al fine di ottenere
le proporzioni esatte. Ma non è questa la Salvezza
assoluta, la salvezza del mondo, quella che nomina Dostoevskij
e che, con la più lucida e spietata operazione pensabile,
prova a mettere in atto nell'Idiota.
La
domanda a questo punto è: che tipo di salvezza è
ipotizzabile in senso assoluto per l'umanità? Cosa
metterà d'accordo il rumore e la melodia?
Dostoevskij non fa intravedere una risposta a questa domanda,
almeno nell'Idiota, ma proprio il tipo di incarnazione nel
mondo ci mostra una differenza significativa tra Mikin
e Cristo.
Come fa osservare Bachtin, il principe Mikin "in
senso particolare, superiore, non occupa nessuna posizione
nella vita che possa determinare il suo comportamento e
limitare la sua umanità pura (...) È come
se egli non avesse un involucro vitale che gli permetta
di occupare un posto determinato nella vita (allontanando
con ciò stesso gli altri da questo posto), e perciò
egli sta sulla tangente della vita. Ma appunto per questo
egli può penetrare attraverso l'involucro
vitale degli altri, nel loro profondo io" [23]. Il
principe insomma parte da fuori, dal suo passato
oscuro e senza identità, fino al ruolo attuale dove
tutto in lui è fuor di luogo - come fa notare bene
Bachtin -, per arrivare paradossalmente fin troppo all'interno
degli animi umani e lì perdere il suo percorso. L'esatto
contrario sembra accadere nei Vangeli dove Cristo comincia
da dentro il mondo, da un involucro e un'identità
precisi, per esserne poi respinto fuori, nell'incomprensione
generale, ma realizzando ugualmente o per ciò stesso
il suo progetto. Questa direzione centrifuga sembra essere
un tratto caratteristico di tutta l'esperienza cristiana:
andare verso il fuori, rompere la tradizione partendo dall'interno.
All'opposto, il principe, da escluso ed estraneo a tutte
le consuetudini umane quale era, arriva dritto al cuore
delle cose, per poi scoprire in esso l'impossibilità
di ricongiungere, da dentro, le parti lacerate (nadryv)
della realtà.
Leggendo i Vangeli in quest'ottica, ancor più paragonandoli
alla vicenda del principe Mikin, "capire"
non sembra essere un problema di Cristo ma degli altri,
che nei Vangeli subiscono in ogni istante le sue parole,
la sua personalità, almeno quanto il principe subisce
quella altrui.
Nell'Idiota, in generale, tutti capiscono tutto e
alla fine il mondo scoppia. Il punto centrale del Vangelo,
invece, non è la comprensione e neppure l'ascolto
totale e onnicomprensivo della realtà, ma qualcosa
di diverso: un annuncio che chiama, che evoca qualcosa;
un percorso che da "dentro" porta "fuori",
in un altrove dove quel dentro trova la sua vera
ragione. E mentre il Vangelo è pieno di messaggi,
racconti e profezie, non compresi da chi ascolta, che rimandano
a una lontananza sempre da raggiungere, il racconto dell'Idiota,
dove tutti viceversa appaiono acuti e perspicaci nel presente,
ne ha pochissimi (il principe non è un maestro),
forse uno soltanto: "La Bellezza salverà il
mondo".
In
realtà, come abbiamo visto, quella Bellezza di per
sé, ammesso che esista, non salva un bel nulla: tutt'al
più consola, mitiga, riconcilia le parti lacerate;
educa ad un'armonia interiore e collettiva. Ma pur sempre
come ideale elevato cui il caos del mondo si conforma alla
maniera di un'autoregolazione. Ma se di salvezza vera si
deve parlare, se cioè quell'idea deve incarnarsi,
pure nella migliore delle forme pensabili, affogherà
inevitabilmente nel disordine del mondo. La Bellezza che
ambisce a salvare resta un incipit incompiuto: un
barlume di luce intravisto ma subito annegato nell'oscurità
del mondo. La storia del principe, il suo rientro tra i
vivi, è la consacrazione di questo fallimento. Se
poi consideriamo le ipotesi di partenza dello stesso Dostoevskij
per la stesura di questo romanzo (la bontà e la bellezza
assolute) il vicolo cieco è totale. Conclusione questa
che darebbe ragione e farebbe la gioia di Lev estòv.
Non c'è niente nel testo, in effetti, che sembri
richiamare una terza possibilità oltre la dialettica
distruttiva tra caos e purezza ideale.
Ma
siamo sicuri che le cose stiano esattamente in questa maniera?
O forse proprio la frase del principe Mikin, "La
Bellezza salverà il mondo", l'insegnamento tradito
dai fatti della sua missione fra gli uomini, cela in sé
l'ultimo misterioso enigma?
È nota a molti la frase più volte ripetuta
da Dostoevskij in privato e nei suoi diari: "L'umanità
è stata capace di una sola grande idea e questa è
la Resurrezione dai morti". Parole da sempre ritenute
ambigue e di difficile interpretazione rapportate ai suoi
romanzi.
Alla fine di tutta questa storia ci ritroviamo con un pugno
di mosche e una frase ormai vuota, "La Bellezza salverà
il mondo", che la vicenda del principe Mikin
ha sancito fallimentare. E se invece proprio ora che ci
restano soltanto quelle parole, come puro nome slegato dal
suo dover esser cosa, se proprio adesso queste emergessero
sotto un altro aspetto? Se la chiave di questo enigma Dostoevskij
ce la fornisse nell'espressione stessa: "La Bellezza
salverà il mondo"?
Così come appare nel testo - si è detto -
è una frase lontana, che il principe non pronuncia
mai, una suggestione riferita di seconda mano; allusione
a fatti accaduti in passato ai quali non si accenna che
di sfuggita. Come la Rivelazione cristiana, una vicenda
tramandata da testimoni lontani, eppure forte speranza rivolta
al futuro. La Bellezza è la speranza evocata. La
Salvezza più che un attributo è il contenuto
stesso di quell'evocazione, di quell'annuncio. Una "buona
notizia", appunto. Non è la bellezza in quel
caso a salvare un bel niente. È l'idea di una salvezza
ad evocare il senso smarrito e latente della "Bellezza",
che vive stavolta nel richiamo e nella distanza.
È quella la sola bellezza che possa pretendere legittimamente
di "salvare": non fosse altro perché in
quella lontananza sopravvive in tutto il suo vigore. E che
cosa sono la lontananza e l'assenza, in assoluto, se non
il segno evidente della propria libertà nel presente?
Era questa la vera concezione di Dostoevskij secondo una
famosa lettura che Berdjaev ne avrebbe fatto in pieno '900
[24].
Qualunque altra idea è destinata a restare tale,
o al massimo può trasformarsi in un ideale. Non per
niente l'umanità è stata capace di "una
sola grande idea".
La Bellezza che per sé sola salverà il mondo
può al massimo funzionare da analgesico potente;
può per un attimo distogliere la mente dal dubbio
che il caos assoluto sia la legge di sempre. E non è
poco, c'è da giurarci. È tutto quello che
l'arte ha cercato di fare nei secoli: riempire il buio vuoto,
il disordine senza ragione; offuscare forse il sospetto
che l'insensata tragicità - per dirla alla
russa - fosse inizio e fine d'ogni cosa. La perfezione artistica,
la sinfonia n. 40 di Mozart o la sequenza di colonne di
Brunelleschi nella navata centrale in S. Spirito a Firenze,
altro non sono che la prova dell'uomo a se stesso che misura
e armonia possono unirsi in una struttura in qualche maniera
dominante. Un'eccellente colla tra le parti divise: l'arte
classica, l'arte superiore che si erge sopra il caos. "Potenza
dello spirito e della parola, che regnano sorridendo sulla
vita inconsapevole e muta", diceva Thomas Mann.
Eppure proprio quell'arte superiore, l'arte che riempie
e occupa gli spazi, davanti all'idea di una "bellezza
che salva", vacilla e non convince. E anche tutto questo
ben di Dio si riduce ad essere una notizia di secondo piano,
quando non un goffo tentativo di sopravvivenza, di fronte
al pensiero, al sussurro, evocato da qualcosa d'altro, più
lontano. Qualcosa che non interviene e salva per suo proposito,
ma semplicemente "nomina" e "richiama".
Parrà assurdo che un semplice sussurro metta a tacere
le sinfonie di Mozart, eppure... Cosa avverrebbe se l'annuncio,
soltanto quello, di un'altra bellezza balenasse in mente
per un secondo: "Mir spasët krasotà",
"Il Mondo sarà salvato dalla bellezza"?
La storia del principe Mikin evoca inevitabilmente
l'altra storia, quella evangelica. In questo preciso senso
il finale delle due può addirittura considerarsi
analogo: entrambe conducono ad un fallimento terreno; entrambe richiamano un annuncio di salvezza (e il suo sviluppo
per Dostoevskij si vedrà nei due, immensi, romanzi
successivi). È tutto lontano in quell'annuncio:
ciò di cui si parla, i fatti e le cose avvenute.
Che si tratti di lontananza nel passato o nel futuro, tra
il mondo presente e quella Bellezza c'è di mezzo
soltanto una "chiamata". Quel chiamare che, heideggerianamente, è invito alle cose ad essere
veramente tali per gli uomini. La linea mediana è
l'intimità, quella che Heidegger chiama das
Zwischen (il fra, il frammezzo) [25], che non vuol dire
fusione, ma esattamente il contrario: stacco (Schied), dif-ferenza
(Unter-Schied). Quella dif-ferenza, quella chiamata lontana,
porta il mondo al suo esser mondo, e la bellezza al suo
esser bellezza. Nell'evocazione che è-da-sempre,
nella lontananza, è anche il senso dell'unico
annuncio, dell'unica frase e della sola bellezza che interessino
per davvero: il richiamo della propria libertà (e, implicitamente, del suo contrario, a questo punto inteso
come male assoluto). La speranza, il cui destino
è la continua rimozione tanto è dura da sopportarne
la visione, ritorna come un'eco e si vede per contrasto:
sole attraverso un vetro scuro. Vera o no, l'origine è
lì. Ma non è della sua verità che qui
si discute, o della sua concreta esistenza. Non è
un problema di fede, almeno per il momento; e neppure di
verifica di ciò che si è sentito.
Quella "notizia" ha distolto l'attenzione da tutte
le altre, facendole apparire ben poca cosa. La Resurrezione
dai morti, il modo in cui avveniva, e il protagonista, erano
troppo di più. Se scoppia la bomba atomica nel mondo,
poco prima di cena, cosa pensate ne sarà degli altri
servizi previsti nella scaletta del telegiornale di quella
sera?
Provate a dare a dei naufraghi su un'isola queste due notizie:
la prima è che è stata scoperta della legna
per fare il fuoco, e per quella notte non patiranno il freddo;
la seconda è che, all'orizzonte, sta passando una
nave.
Secondo voi, quale interesserà?
[1] Il romanzo fu scritto dall'autunno
del 1867 all'inverno del 1868. È il secondo dei
grandi romanzi dello scrittore russo, dopo Delitto
e castigo e prima dei Demoni e dei Fratelli
Karamazov. Si dice che Dostoevskij considerasse L'idiota
la sua opera più riuscita.
[2] La definizione è di N. K. Michajlovskij, che
così intitola un suo studio critico del 1882 su
Dostoevskij: "estokij talant".
[3] L'appartenenza o meno di Dostoevskij alla tradizione
russa è questione lunga e complessa. E fa il paio
con altre forti contraddizioni del suo personaggio: slavofilo/occidentalista;
ateo/cristiano; radicalmente differente nei suoi interventi
pubblici da quelli privati e negli scritti letterari da
quelli come pubblicista. Tutto ciò ha sempre reso
pressoché impossibile una sua interpretazione critica,
canonica, a partire da fonti coerenti tra loro: è
piuttosto un autore che è stato letto in modo "libero",
seguendo unicamente le suggestioni e le tracce interne
ai suoi testi. E, in un certo senso, proprio queste sono
state le sue più fortunate interpretazioni.
[4] Basti pensare all'incredibile omissione nell'Idiota - come mette bene in luce D. P. Mirskij nella sua Storia
della letteratura russa - dei fatti relativi alla vita
del principe Mikin, di Rogoin e Nastasja Filippovna
a Mosca, nel periodo fra la prima e la seconda parte del
libro: eventi essenziali per la comprensione della storia,
di fatto taciuti fino alla fine.
[5] È la celebre tesi del romanzo polifonico in
Dostoevskij, espressa da Michajl Bachtin in un suo studio
del 1968 (M. Bachtin, Dostoevskij, tr. it. Di G.
Garritano, Torino, Einaudi, 2002). Secondo Bachtin Dostoevskij
ha dato vita a un genere romanzesco sostanzialmente nuovo,
caratterizzato dalla pluralità delle voci e delle
coscienze indipendenti e disgiunte. Un'assoluta polifonia,
appunto, in cui risulta impossibile alla fine dire quale
personaggio prevalga sugli altri o per bocca di chi parli
l'autore.
[6] F. M. Dostoevskij, L'idiota, tr. it. Di Rinaldo
Küfferle, 2 voll., Milano, Garzanti, 1973, p. 789
(Appendici). In questo stesso brano, introducendo la figura
del principe Mikin, Dostoevskij fa il noto elenco
degli autori che secondo lui hanno provato a concepire
un protagonista dei loro romanzi "completamente positivo"
(Pickwick di Dickens, Jean Valjean di Hugo e, di gran
lunga superiore a tutti gli altri, Don Chisciotte di Cervantes),
nessuno di questi peraltro riuscendovi appieno.
[7] V. S. Solov'ëv, benché più giovane
di oltre trent'anni fu grande amico in vita di Dostoevskij,
e dedicò a lui tre brevi discorsi tradotti in italiano
nel saggio: Dostoevskij, a cura di Lucio dal Santo,
Milano, La Casa di Matriona, 1981.
[8] P. N. Evdokimov nel 1942 dedicò la sua tesi
di dottorato al problema del male in Dostoevskij (Dostoevskij
e il problema del male, Roma, Città Nuova,
1995), in quell'occasione affrontò la questione
della bellezza che salva il mondo, tema poi ripreso e
allargato nella sua opera più matura Teologia della
Bellezza. L'arte dell'icona, Torino, Ed. Paoline, 1990.
[9] F. M. Dostoevskij, L'idiota, cit., pp. 478-479.
[10] P. N. Evdokimov, Dostoevskij e il problema del
male, cit. p. 81.
[11] La frase tratta dai Fratelli Karamazov è riportata
da P. N. Evdokimov nel suo libro Dostoevskij e il problema
del male, cit., p. 83.
[12] P. N. Evdokimov, Teologia della Bellezza,
cit. p. 61.
[13] F. M. Dostoevskij, L'idiota, cit., p. 71.
[14] Ivi, p. 96.
[15] Ivi, p. 44.
[16] F. M. Dostoevskij, L'idiota, cit., note introduttive
p. XII.
[17] Su questo punto vi è un'eccezionale testimonianza
di Friedrich Nietzsche il quale, nei suoi due ultimi anni
di vita cosciente, conobbe quasi tutte le opere più
importanti di Dostoevskij citate in molte sue lettere
in tono entusiastico. In particolare restò colpito
proprio dall'Idiota e dalla figura del principe Mikin
che definisce il "vero Cristo" che annuncia
la buona novella. Dirà ancora: "Gesù.
Dostoevskij. Conosco soltanto uno psicologo che abbia
vissuto nel mondo in cui il cristianesimo è possibile,
in cui un Cristo potrebbe nascere in ogni momento. E questi
è Dostoevskij. Egli ha indovinato Cristo".
[18] È questa la tesi, ormai condivisa da molti
critici, espressa per la prima volta da Lev estov
già nel 1903 (La filosofia della tragedia. Dostoevskij
e Nietzsche, tr. it. di Ettore Lo Gatto, Napoli, Edizioni
Scientifiche Italiane, 1950), in cui il pensiero del grande
romanziere russo viene diviso in due periodi: uno più
idealista e umanitario, precedente alla condanna a morte,
ed infine il secondo, nel segno del tragico, che ha inizio
con la pubblicazione delle Memorie dal sottosuolo (1864)
e include tutti i grandi romanzi.
[19] F. M. Dostoevskij, L'idiota, cit., pp. 268-269.
[20] Si tratta probabilmente del Cristo nella tomba di
Hans Holbein il Giovane (1497-1543), un quadro che Dostoevskij
vide a Basilea e dal quale rimase molto impressionato.
Dopo questo episodio in casa di Rogoin, nel seguito
del romanzo si farà ancora riferimento a questo
quadro, e negli stessi termini, nel capitolo IV della
terza parte durante la Spiegazione di Ippòlit.
[21] Diverse volte nelle lettere a Sonja Ivanova e nelle
minute del romanzo, Dostoevskij chiama Mikin il
"principe Cristo".
[22] Così Ippòlit durante la sua Spiegazione:
"Rimasi molto stupito udendo il principe parlare
dei mie brutti sogni (...) Perché ha parlato dei
sogni? Dev'essere anche lui un medico a meno che non sia
un uomo d'intelligenza superiore, per indovinare con tanta
esattezza (dopo questo si potrebbe dire con piena convinzione
che non è affatto un 'idiota')" (F. M. Dostoevskij, L'idiota, cit., p. 487).
[23] M. Bachtin, Dostoevskij, cit, p. 227.
[24] N. A. Berdjaev, La concezione di Dostoevskij, tr.
it. Di Bruno del Re, Torino 1977. Berdjaev rilegge tutta
l'opera di Dostoevskij a partire dal problema della libertà,
elemento essenziale secondo lui dell'"idea russa".
In netta contrapposizione col sofianismo espresso da pensatori
come Solov'ëv e S. Bulgakov, Berdjaev afferma la
sua posizione in termini essenzialmente escatologici.
Nella sua opera più compiuta, L'idea russa, a proposito
della bellezza in Dostoevskij, Berdjaev affermerà
secco: "Quando Dostoevskij diceva che la bellezza
avrebbe salvato il mondo, pensava alla trasfigurazione
del mondo, all'avvento del Regno di Dio" (N. A. Berdjaev, L'idea russa, Milano, Mursia, 1992, p. 201).
[25 ] Si veda il saggio di M. Heidegger Il linguaggio,
in In cammino verso il linguaggio, Milano, Mursia,
1989, p. 37. E aggiunge: "È la cesura della
dif-ferenza che fa risplendere la pura luce. Il suo congiungere
illuminante de-cide quel rischiararsi del mondo, per il
quale il mondo si fa mondo" (Ivi, p. 39)
Andrea Oppo, Dostoevskij: la Bellezza, il Male, la Libertà | 1. "Quale 'bellezza' salverà il mondo?
L'Idiota di Dostoevskij e un difficile enigma",
in
"XÁOS. Giornale
di confine", Anno II, N.1 Marzo-Giugno 2003, URL: http://www.giornalediconfine.net/anno_2/n_1/20.htm
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