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ANDREA OPPO

DOSTOEVSKIJ: LA BELLEZZA, IL MALE, LA LIBERTÀ.
Un percorso filosofico in tre tappe


"Dostoevskij: la Bellezza, il Male, la Libertà" è un percorso filosofico-teoretico diviso in tre parti all'interno del pensiero di F. M. Dostoevskij, seguendo altrettante tematiche-chiave del grande scrittore russo: la Bellezza, il Male e la Libertà. Attraverso la lettura dei tre grandi romanzi della maturità (L'Idiota, I Demoni e I Fratelli Karamazov) e le analisi che i suoi più grandi interpreti, specialmente in Russia, hanno dato di lui, questo percorso si propone di rintracciare, dentro alcune idee e analogie ricorrenti, le più autentiche sorgenti filosofiche di un autore al quale, secondo Nikolaj Berdjaev, "forse la filosofia ha insegnato poco, ma la filosofia ha molto da imparare da lui".


1
. Quale Bellezza salverà il mondo? L'Idiota di Dostoevskij e un difficile enigma


2. L'idea di male assoluto nei "Demoni" di Dostoevskij

3. La vera anima del genio crudele. Scavando al fondo dei Karamazov



3. La vera anima del genio crudele. Scavando al fondo dei Karamazov


- Dimmi Ivàn: Dio esiste oppure no? Ma parla seriamente. Ho bisogno di parlare sul serio.
- No, Dio non esiste.
- Alëša, esiste Dio?
- Sì, Dio esiste.
- Ivàn, e l'immortalità esiste? Un'immortalità qualsiasi, anche piccola, anche minuscola?
- No, non esiste neanche l'immortalità.
- Di nessun genere?
- Di nessun genere.
- Alëša, esiste l'immortalità?
- Sì, esiste.
- L'immortalità è anche Dio?
- Sì, Dio è l'immortalità. In Dio c'è l'immortalità.
- Ehm! È più probabile che abbia ragione Ivàn. O Signore, se si pensa soltanto a quanta fede, a quante energie di ogni sorta l'uomo ha speso invano per questo sogno, e da quante migliaia di anni! Ma chi è dunque che si fa così beffe dell'uomo? Ivàn, per l'ultima volta, decisamente, Dio esiste o no? Te lo chiedo per l'ultima volta.
- E per l'ultima volta rispondo no.
- Chi dunque si fa beffe degli uomini, Ivàn? Dev'essere il diavolo... - e Ivàn Fëdorovic fece un risolino. Ma il diavolo esiste?
- No, non esiste neanche il diavolo.

F. M. Dostoevski, I Fratelli Karamazov

 

Parlando dei Karamazov, Dostoevskij scriveva: "Il problema principale, che sarà trattato in tutte le parti di questo libro, è lo stesso di cui ho sofferto consciamente o inconsciamente tutta la vita: l'esistenza di Dio". È improbabile credere che un solo libro sia bastato a decidere una volta per tutte la sofferenza di un'intera vita, ma è certo che I Fratelli Karamazov [1] rappresentano, in tutti i sensi, il punto di arrivo di un lungo e tormentato percorso dell'autore Dostoevskij, la piena risposta all'Idiota e ai Demòni, nonché l'opera che come poche altre nella storia della letteratura mondiale ha saputo riassumere, ai suoi vertici più elevati, i dubbi fondamentali dell'uomo. L'esistenza di Dio, l'immortalità dell'anima e la salvezza universale, sono i temi che insieme costituiscono "la più grande idea che l'umanità abbia mai concepito": ciò che Dostoevskij si è portato appresso da sempre e che ora in questo romanzo mette a nudo senza timore. Sono passati alcuni anni dopo che il principe Miškin ha visto spezzarsi fra le sue mani l'illusione di un mondo salvato dal bene incarnato nella bellezza; come pure dalla impudente 'Domanda' di Ippolit che chiedeva conto a Dio di tutta la sofferenza del mondo; sull'altro versante, spalancato dalla sola visione di un quadro appeso all'ingresso della casa di Rogožin, Kirillov - questa ieratica figura di sacerdote dell'ateismo - ha fatto scattare la propria pistola, in qualche località della Russia, ma nulla è accaduto di quanto egli credeva e il mondo ha continuato a girare con le sue cieche speranze.
Dopo la scoperta dell'universo del sottosuolo, dichiarata apertamente nel 1864 con le sue Memorie, il percorso di Dostoevskij si snoda attraverso una lucida, cruda, "crudele" analisi della realtà umana: con la spietatezza ("criminale" avrebbe detto Thomas Mann - che proprio per ciò preferiva prenderlo "con misura") di chi non soltanto non ha più nulla da perdere, ma forse - ha fatto bene rilevare Šestòv - adesso non ha nemmeno più la capacità di tollerare l'esistenza di un sol briciolo di menzogna nella vita umana. Una crudeltà che nasce da un bisogno ultimo ed essenziale di verità, e che passa in rassegna soprattutto ciò che meno si presterebbe ad essere analizzato e considerato come attualmente presente: ciò che più facilmente ha il potere di illudere e conservare nel tempo una speranza fallace. Ovvero gli assoluti mai rappresentabili. Ed ecco che Dostoevskij si preoccupa di dare forma al Bene e al Bello assoluti, considera le ipotesi di una Giustizia e di una Colpa senza limiti; e allo stesso modo fa con il Male e con le Idee, con la Parola e con la Verità. Da Miškin a Stavrogin il passo risulta più breve di quanto si sarebbe pensato. Ma entrambi, alla fine del proprio percorso, smascherati nella loro reale, attuale essenza, rimandano a qualcos'altro: qualcosa di più grosso che a loro preesiste. E se il Bene assoluto - che non può che manifestarsi in forma di suprema, immacolata Bellezza, la quale agli occhi del mondo appare sì vera e dotata della pura intelligenza delle cose ma anche terribilmente ingenua, "idiota", folle e vulnerabile - quasi di necessità attira su di sé il Male, che solo da principio appare in forma di caos e disarmonia, ma al suo fondo mostra un volto cinico paragonabile alla tela di un ragno che attende al varco la sua preda, perfino quest'ultimo quantunque possa anche trionfare sul Bene, rivela infine di non possedere volto né nome, che non sia quello della sua vittima. Il Male, ultimo termine fin qui raggiunto nel percorso di Dostoevskij, non è niente più che l'ombra di qualcosa che lo scrittore russo ha sempre tenuto in considerazione, come atmosfera essenziale della sua narrazione, ma mai svelato apertamente.
I Karamazov, capolinea dichiarato ed effettivo, sono in fondo l'inizio del percorso. Ciò che occorre per comprendere, a ritroso, tutto il resto.
Non si tratta più di suicidio e di follia, o di una morale, di una divinità che governa il mondo; non sono qui in questione, alla maniera classica occidentale, due termini in contrapposizione, di cui uno può decretare la fine dell'altro o la cui coesistenza può determinare un esito tragico o assurdo. "Non è di un'opera assurda che si tratta in questo caso - mette bene in rilievo Albert Camus riferendosi ai Karamazov -, ma di un'opera che imposta il problema dell'assurdo" [2].
Ma quale assurdo potrà mai scaturire dall'assenza di termini reali? E che cos'è infine la realtà ultima (o forse dovremmo dire "prima") di cui perfino il Male assoluto non era che l'ombra? Quale il pentagramma, il sistema di note di base su cui s'inscrive la "polifonia" di voci del romanzo dostoevskiano?
Sono questi temi di portata enorme che condurrebbero direttamente nei luoghi ultimi della poetica e soprattutto dell'animo del grande scrittore russo, se non fosse che, come ha dimostrato finora più di un secolo di studi sull'argomento, si tratta di zone alquanto problematiche se non definitivamente inaccessibili. Capire la vera anima del genio Dostoevskij, l'intenzione ultima che sorregge tutte le sue opere, o, come in tanti hanno provato a fare, trovare il personaggio dei suoi racconti che "parlerebbe per bocca sua", è ormai un'impresa sulla quale gli studi di Michail Bachtin dovrebbero aver posto la parola fine. Affidarsi alle singole voci dei personaggi per comprendere il pensiero dell'autore significa trovarsi davanti a miriadi di posizioni diverse e disomogenee, ancor prima che contrapposte. Se non si sapesse con certezza che è così, sembrerebbero delle opere costruite di proposito perché non sia possibile ricavarne un'interpretazione unitaria e coerente. Ma ugualmente, proprio attraverso la teoria del romanzo a più voci di Bachtin, è lecito chiedersi quale ragione supporti l'universo polifonico narrativo dello scrittore russo. A introdurci nell'argomento è lo stesso Dostoevskij, il quale proprio alla fine del suo percorso artistico definisce, in un quaderno di appunti privato, le caratteristiche del suo realismo: "In pieno realismo trovare l'uomo nell'uomo... Mi chiamano psicologo: non è vero, io sono soltanto realista nel senso più alto, cioè raffiguro tutte le profondità dell'anima umana" [3]. Dostoevskij, commenta Bachtin a questo proposito, "si considera realista e non romantico-soggettivista, racchiuso nel mondo della propria coscienza; il suo nuovo compito è 'raffigurare tutte le profondità dell'anima umana' ed egli lo risolve 'in pieno realismo', cioè vede queste profondità al di fuori di sé, nelle anime altrui" [4]. In secondo luogo, precisa Bachtin, egli ritiene che per risolvere questo 'nuovo' compito non sia più sufficiente il realismo così come da sempre inteso ("cioè, secondo la nostra terminologia, il realismo monologico" [5]), ma occorra una particolare maniera di "trovare l'uomo nell'uomo", vale a dire, "il realismo nel senso più alto". Per meglio spiegare di cosa si tratti Bachtin fa riferimento all'ampio studio di L. P. Grossman dell'Accademia delle Scienze dell'Urss, "Dostoevskij artista" (1959), dal quale egli stesso ha tratto spunto per il suo lavoro. Alla base della composizione di ogni romanzo di Dostoevskij, spiega Grossman, vi sono due o più narrazioni che s'incontrano e si svolgono in contrasto l'una con l'altra secondo il principio musicale della polifonia. Sottolineando pertanto il carattere tecnicamente musicale dell'opera dello scrittore russo, Grossman fa osservare come Dostoevskij trasferisca sul piano della composizione letteraria la legge del passaggio musicale da una tonalità all'altra: "Il racconto è costruito sul principio del contrappunto artistico [...] Sono varie voci che cantano diversamente su un solo tema. È questa la "pluralità delle voci" che rivela la multiformità della vita e la complessità delle sofferenze umane. Tutto nella vita è contrappunto, cioè contrapposizione, dice nei suoi Appunti uno dei compositori prediletti di Dostoevskij, M. I. Glinka" [6]. "Trasferendo dal linguaggio della teoria musicale al linguaggio della poetica la tesi di Glinka, secondo cui tutto nella vita è contrappunto, si può dire che per Dostoevskij tutto nella vita è dialogo, cioè contrapposizione dialogica" [7].
Il personaggio dei romanzi di Dostoevskij non sarebbe pertanto una figura obiettiva, ma una parola autorevole, una pura voce: "Noi non lo vediamo, lo sentiamo; e tutto ciò che noi vediamo e sappiamo oltre le sue parole, non è essenziale e viene inghiottito dalla parola, come suo materiale, oppure resta al di fuori di essa, come fattore stimolante e provocatore" [8]. In tal senso, fa osservare ancora Bachtin, "l'epiteto di "genio crudele", dato a Dostoevskij da Michajlovskij, ha un fondamento, sebbene non così semplice come Michajlovskij s'immaginava" [9]. I tormenti morali atroci che l'autore infligge ai suoi personaggi per strappare loro le parole più profonde dell'autocoscienza, quelle che mai diversamente verrebbero alla luce, le analisi dell'animo che gli permettono di trovare "l'uomo nell'uomo", rappresentano anche l'antidoto che riesce a "dissolvere tutto ciò che è materiale e oggettivo, saldo e invariabile, tutto ciò che è esteriore e neutrale nella raffigurazione dell'uomo nella sfera della sua autocoscienza e autoenunciazione" [10].
La crudeltà di Dostoevskij, insomma, toglie all'uomo, attraverso esperienze estreme, tutto ciò che è possibile togliere. E osserva infine cosa rimane.
L'esito è uno "svuotamento" che consegna al regno del presente tutte le infinite e possibili voci che nella prospettiva 'monologica' erano sapientemente tenute sotto chiave. "Nel mondo monologico tertium non datur: il pensiero o si afferma, o si nega, o semplicemente cessa di essere un pensiero pienamente significativo" [11]. Nell'universo delle infinite voci di Dostoevskij, invece, "non è ancora avvenuto nulla di definitivo, l'ultima parola del mondo e sul mondo non è ancora stata detta, il mondo è aperto e libero, tutto ha ancora da venire e avrà sempre da venire" [12].
La trasposizione di tutto ciò sul piano strettamente filosofico ci porta a identificare la matrice che sta al fondo dei Karamazov e con ogni probabilità di tutta l'opera dostoevskiana: il problema filosofico della libertà. Ovvero la condizione stessa che permette la contrapposizione dialogica senza vincoli di cui parlava Bachtin.
***
Potremmo dire che i più importanti interpreti di Dostoevskij hanno letto i Karamazov in particolare, se non addirittura tutti i suoi romanzi precisamente sotto questo segno. "La libertà sta al centro stesso della concezione di Dostoevskij. Il suo sacro pathos è il pathos della libertà" [13] scrive Berdjaev nel suo celebre lavoro sul narratore russo. E così Cantoni: "Sarebbe possibile interpretare tutte le opere di Dostoevskij alla luce di questa categoria fondamentale ed essere sicuri che l'interpretazione si muove sempre intorno all'asse centrale della problematica dostoevskiana" [14].
Malgrado al lettore questa scoperta possa apparire come un piccolo sollievo e un aiuto nella comprensione del testo, in verità ben lungi dall'essere il punto d'appoggio di Archimede che sempre si cerca, il problema della libertà in Dostoevskij si rivela una botola spalancata sull'abisso. Alle fondamenta del suo pensiero si trova pure il massimo grado d'instabilità: anzi si trova precisamente quell'instabilità che sorregge il resto. L'unico assoluto che, nella concezione dello scrittore russo, abbia un nome proprio: fra tutti (il male, il bene, la bellezza, la verità...), probabilmente, quello che meno ci si sarebbe augurati.
La sua natura solo in apparenza mostra sembianze innocue. Come dice Berdjaev, interpretando il pensiero di Dostoevskij, Dio ha creato l'uomo dal nulla e dalla libertà, e con un atto d'amore, il più grande che si possa pensare, lo ha voluto suo libero co-autore nella creazione. All'uomo è dunque connaturata la libertà in una forma che egli stesso rifiuta. È proprio questo il tema di fondo del Grande Inquisitore, il racconto presente all'interno dei Karamazov che Dostoevskij mette in bocca a Ivan.
Quest'ultimo, seduto al tavolo di una locanda, di fronte al fratello Alëša, decide di narrargli l'unica opera da lui concepita (e mai messa per iscritto) che ha intitolato La Leggenda del Grande Inquisitore. È una storia ambientata nel XVI secolo in Spagna, a Siviglia, nel periodo più terribile dell'Inquisizione, quando ogni giorno "con grandiosi autodafé si bruciavano gli eretici". In quell'epoca, in quel luogo, Gesù ritorna ancora una volta tra gli uomini. Tutti lo riconoscono, tutti sono attratti da Lui. Anche il cardinale Grande Inquisitore, un vecchio novantenne dagli occhi infossati "nei quali splende come una scintilla di fuoco", lo riconosce e subito lo fa arrestare per mandarlo al rogo il giorno dopo, come il peggiore degli eretici ("Perché sei venuto a disturbarci? Hai esaurito il tuo compito quindici secoli fa!"). Il suo peccato, il più grave che si potesse compiere, è quello di essersene andato senza fare in modo che gli uomini avessero delle regole sicure e fossero obbligati a seguirle. L'umanità sarebbe stata ben felice d'essere schiava e servire un Dio. Il grave peccato di questo Dio è di averla lasciata libera, trattandola alla pari, con la dignità di un figlio. Per questo, loro, i custodi di quel lascito, hanno dovuto provvedere a fare ciò che Lui non aveva fatto.
Il finale di questa storia, con il confronto nella cella tra Il Grande Inquisitore e Cristo, è ancora più sorprendente; così come la replica di Alëša a fine racconto. Ma quello che a noi interessa di più è l'argomento religioso-filosofico per eccellenza di Dostoevskij, messo sul piatto qui, nel Grande Inquisitore: l'"insopportabile libertà" dell'uomo, accordatagli da Colui che egli voleva suo padrone, da servire alla maniera degli schiavi.
Anche dalle pagine del Diario di uno scrittore traspare l'interesse dostoevskiano per la tematica della libertà, e anche se non sarà mai teorizzata in forma compiuta neanche nei suoi scritti di pubblicistica questa rimane il luogo d'origine, il punto di partenza di ogni uomo, in un cammino che dalla libertà prende avvio e da essa dipende completamente. Dostoevskij esprime più volte la convinzione che la "dottrina dell'ambiente" sia in contrasto con il cristianesimo, l'unica concezione che riconosca in modo inequivocabile il principio della libertà umana. Un cristianesimo che in Dostoevskij s'identifica soprattutto con la figura di Cristo ed in particolare del Cristo russo, come emerge molto bene già dalla "Lettera alla Fonvizina" [15] del 1854 - in cui egli pronuncia la celebre frase "se fosse effettivamente vero che Cristo non è la verità, ebbene io preferirei restare con Cristo piuttosto che con la verità" - e successivamente nelle pagine del Diario di uno scrittore del 1873:

Il Cristianesimo pur riconoscendo pienamente la pressione dell'ambiente, pone però come dovere morale dell'uomo la lotta contro l'ambiente, pone un limite dove finisce l'ambiente e comincia il dovere. Nel considerare l'uomo responsabile, il Cristianesimo ne riconosce implicitamente la libertà. [16]

Ecco dunque il grande dono del Creatore alla sua creatura: Dio ha voluto l'uomo libero. E Cristo ha ribadito questa libertà rifiutando le tentazioni di Satana e non scendendo dalla croce per rispetto della libertà degli uomini. I suoi discepoli lo vedranno risorto e crederanno in Lui per libera scelta di fede. Da qui l'accusa del Grande Inquisitore a Cristo: "Invece di impadronirti della libertà umana, Tu l'hai ingrandita e hai gravato per sempre, con il peso dei suoi tormenti, la vita dell'uomo. Tu volesti il libero amore dell'uomo affinché egli liberamente ti seguisse, attratto e conquistato da te" [17]. E prosegue: "Ma è possibile che Tu non abbia pensato che egli, oppresso da un fardello così terribile come la libertà di scelta, avrebbe alla fine respinto e discusso perfino la tua immagine e la tua verità [...] Ci sono sulla terra tre forze, tre sole forze in grado di vincere e di conquistare per sempre la coscienza di questi deboli ribelli, per la felicità loro; queste forze sono: il miracolo, il mistero e l'autorità. Tu respingesti la prima, la seconda e la terza, e così desti l'esempio" [18].
E conclude così il suo ragionamento:

E gli altri? Che colpa hanno gli altri, gli uomini deboli, di non aver potuto sopportare quello che hanno sopportato i forti? Che colpa ha l'anima debole se non ha la forza di accogliere doni così terribili? [...] E se c'è un mistero, anche noi avevamo il diritto di predicare il mistero e di insegnare agli uomini che non è la libera decisione dei loro cuori quello che importa e neppure l'amore, ma il mistero al quale devono inchinarsi ciecamente, anche contro la loro coscienza. E così abbiamo fatto. Abbiamo corretto l'opera tua e l'abbiamo fondata sul miracolo, sul mistero e sull'autorità. E gli uomini si sono rallegrati di essere di nuovo sospinti come un gregge e di sentirsi finalmente il cuore libero da un dono così terribile, che aveva procurato loro tante sofferenze! [19]

La libertà è in realtà un dono terribile, un peso troppo grande per la maggioranza degli uomini e a conoscerla fino in fondo forse nessuno la vorrebbe. L'Inquisitore e con lui gli inquisitori d'ogni epoca lo hanno capito perfettamente e si sono affrettati a venire incontro alle esigenze umane, offrendo in cambio della libertà, il benessere e la felicità. Lo hanno fatto attraverso i tre elementi che hanno capito essere la chiave per soggiogarli, per rinchiudere e "sistemare" il problema della libertà: il miracolo, il mistero e l'autorità. Ancora il numero "tre", ricorrente quando Dostoevskij descrive il lato opposto della libertà - o meglio ciò che da essa può derivare -, così come tre erano i "demòni" del precedente romanzo e tre le tentazioni del brano evangelico.
Qualcosa di più che un semplice espediente per imbrigliare ciò che è scomodo: piuttosto qualcosa di necessario come necessario è il destino. Per questo motivo il ritorno di Cristo è scandaloso, inaudito.
In questo caso, fa osservare Sergio Givone, "questo ritorno è conversione, e lo è nel senso più forte del termine: conversione dall'unica via percorribile, conversione dall'unica via finora effettivamente percorsa, conversione dal destino alla libertà" [20]. Il termine conversione, qui adoperato, che pure in ambito cristiano assume vari modi d'essere inteso, richiama in diverse maniere l'ambiguità fondamentale della condizione umana, la quale è ben consapevole di trovarsi di fronte la dura realtà, "stretta nella morsa d'una necessità che toglie ogni speranza", e ugualmente cosciente di non avere altro fondamento che la libertà. "È precisamente questo che la Leggenda del Grande Inquisitore illustra magnificamente. (Perciò, basata com'è sul conflitto e anzi sulla non superabile contraddizione di opposte tesi entrambe legittime[...] la Leggenda può ben essere letta in chiave di tragedia, tragedia della libertà). Il Grande Inquisitore presenta la sua opera a Gesù come il frutto d'una decisione non solo cogente, ma immodificabile. La strada intrapresa, per il bene degli uomini, è l'unica possibile" [21]. Ecco quindi lo scandalo: Cristo, tornando sulla terra, riporta la condizione umana al punto in cui tutto è ancora da decidere, in cui nulla è già da sempre deciso.

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La libertà è dunque l'origine. Nei Karamazov Dostoevskij svela apertamente quello che era stato il tema di fondo, la condizione umana fondamentale, dei suoi precedenti lavori, soprattutto quelli successivi alle Memorie dal sottosuolo. Questo è il cuore dell'interpretazione di Berdjaev: "Dostoevskij studia il destino dell'uomo lasciato in libertà. Lo interessa solo l'uomo che incede sulla via della libertà, il destino dell'uomo sulla libertà e della libertà sull'uomo. Tutti i suoi romanzi sono tragedie, un'esperienza della libertà umana" [22].
E se non è certo semplice individuare la connessione logica, in senso stretto, tra la Leggenda e il resto del romanzo, come pure tra le singole vicende dei tre fratelli Karamazov tra di loro, è anche vero che molti interpreti hanno visto nella storia del Grande Inquisitore narrata da Ivan il motivo fondamentale che, al di là della 'polifonia' di voci, legherebbe le varie parti dell'opera dostoevskiana: precisamente in quanto condizione che permette quella polifonia e quel "campo aperto" su cui essa si esprime.
Fra gli interpreti che riconobbero l'importanza della Leggenda a fondamento di tutta la narrativa di Dostoevskij, primo fra tutti fu Vasilij V. Rozanov, il quale con il suo saggio del 1891 "La Leggenda del Grande Inquisitore" [23] ebbe il merito di inaugurare in Russia questa linea interpretativa in senso tragico, chiusa idealmente molti anni dopo dal lavoro di Berdjaev, ormai quasi alla metà del '900, ultimo dei grandi filosofi russi a commentare Dostoevskij. In contrapposizione con questa vi fu una seconda corrente interpretativa che si potrebbe definire spiritualista, che vede tra i suoi capifila Solov'ëv, Leont'ev e Merežkovskij, e, suo epigono - anche se con toni molto diversi rispetto a questi altri -, Pavel N. Evdokimov.
Anche se è sempre difficile ricondurre figure molto diverse fra loro ad un'unica linea di pensiero, potremmo dire - come bene ha fatto rilevare Givone [24] - che dei vari tentativi di leggere filosoficamente la figura di Dostoevskij si possono cogliere già le tracce all'indomani del suo discorso celebrativo su Puškin - all'Università di Mosca l'8 giugno 1880. E che di questa seconda corrente di interpreti - aggiungeremmo - si può ritrovare facilmente la genesi nel contributo al dibattito su Puškin portato dall'allora ventisettenne S. V. Solov'ëv, giovane amico di Dostoevskij, al quale sarebbe toccato anche il compito di commemorare lo scrittore russo, meno di un anno dopo, in occasione del suo funerale. Al discorso funebre seguirono gli ormai celebri "Tre discorsi in memoria di Dostoevskij" [25] pubblicati negli anni 1881-1883.
La lettura solov'ëviana, oltre che innestarsi nello spirito del Discorso su Puškin e rappresentare un momento di passaggio importante nel suo stesso pensiero, si può analizzare come tributo all'amicizia tra il filosofo e lo scrittore i quali, proprio negli anni di preparazione dei Fratelli Karamazov, avevano avuto modo di rinsaldare e approfondire il loro rapporto. I temi comuni non erano pochi nell'ambito religioso: dalla teodicea, all'ateismo, al problema teocratico in generale fino ai rapporti tra la Chiesa ortodossa e le Chiese occidentali. Certamente il percorso filosofico di Solov'ëv nel suo passaggio dal momento teosofico a quello teocratico subì il forte influsso dostoevskiano. Questi vedeva in Dostoevskij il profeta di un "vero Cristianesimo" e di una "Chiesa ortodossa universale", e, certamente sfumando la carica tragica del suo pensiero, tendeva in linea generale a cogliere il trionfo del bene sul male e della luce sulle tenebre.
A mettere in dubbio le certezze dell'interpretazione di Solov'ëv furono non tanto gli altri commentatori di cui sopra, quanto l'impatto diretto col testo di Dostoevskij che richiama per se stesso altri tipi di lettura. Ma allo stesso modo sarebbe ingenuo credere che specialmente l'ultimo romanzo dello scrittore russo sia del tutto estraneo alle prospettive del giovane filosofo e suo migliore amico. Come ribadito più volte, è difficile stabilire il punto di partenza sicuro della creazione artistica di Dostoevskij, così com'è poco saggio, trattando di lui, escludere delle ipotesi in partenza, per di più storicamente fondate come poche altre, quali sono quelle riguardanti l'influenza di Solov'ëv sul suo ultimo scritto.
Rimane il fatto che il personaggio Dostoevskij in sé è talmente complesso che spesso sono i suoi stessi appunti e gli scritti di pubblicistica ad allontanarsi dal suo "testo" più di quanto non facciano le interpretazioni altrui. Un testo che, non c'è bisogno di dirlo, implacabilmente rifiuta, con la stessa caparbia ostinazione del "no" pronunciato dall'uomo del sottosuolo, di farsi inquadrare in questa o quella teoria positiva.
Ma tornando a Rozanov, vera e propria controparte di Solov'ëv e precursore di un tipo di lettura filosofica di Dostoevskij nel segno del tragico, lettura che in Lev Šestòv (a partire dal suo lavoro Dostoevskij e Nietzsche. La filosofia della tragedia, 1903) troverà il massimo rappresentante, egli era per altri e differenti aspetti non meno lontano di Solov'ëv dall'animo del romanziere russo. Nel suo saggio sul Grande Inquisitore, contrariamente a Solov'ëv che nell'ideale di salvezza cristiana vedeva la riconciliazione e la sintesi armoniosa finale degli opposti ("Ed esso vincerà il mondo!"), Rozanov sottolinea l'irriducibilità della tragedia umana. Non c'è conciliazione né salvezza in un destino che offre all'uomo la più alta e nobile opportunità d'essere libero, e autentico figlio di Dio, ma allo stesso tempo gli toglie la capacità di sopportare il peso di un simile ruolo. L'Inquisitore non nega la grandiosità del progetto divino, nega che esso sia a misura d'uomo.
Ma Rozanov, pur ribadendo (o forse sarebbe meglio dire "annunciando", visto che la sua è la prima interpretazione in quel segno) la centralità del tema della libertà in Dostoevskij, si spinge ancora più in là nella sua analisi. In questo senso, egli mette in rilievo la differenza di prospettiva tra la visione tragica inaugurata dalle Memorie dal sottosuolo e quella della Leggenda. Nella prima - in un'ottica associabile, farà notare poi Šestòv, all'amoralismo nietzschiano - la libertà della volontà è difesa e approvata come l'esperienza più preziosa dell'uomo. La tragedia in questo caso è un dato, una sofferenza reale, un "grido di dolore", e la lotta per libertà - quantunque difficile e piena di ostacoli o forse impossibile - è il senso del destino umano. Col tempo, dice Rozanov, anche per Dostoevskij le cose cambiano. Scrivendo i Fratelli Karamazov, e in particolare la Leggenda all'interno di quel romanzo, egli scruta e riconosce il tema della libertà, non in quanto semplice "liberazione", ma come qualcosa di più ambiguo e complesso.
L'intuizione di Rozanov - per la verità mai espressa in modo compiuto - di una differenza essenziale tra il primo sottosuolo dostoevskiano, quello delle Memorie, e la concezione di fondo presente nei Karamazov, è riconducibile a un tema antico della tradizione filosofico-religiosa della Russia.
***
Gli intellettuali russi sono dominati da un'"idea" e sulla reale esistenza in Russia di quest'idea vi è ormai generale accordo anche in Occidente, almeno a partire da Hegel e dai Romantici. L'importante saggio di Berdjaev, L'idea russa, è solo l'ultimo di una lunga serie con lo stesso titolo iniziata proprio da Solov'ëv (1888).
L'"idea russa", come spiega Roberto Salizzoni nel suo studio a riguardo, è articolata su due punti: "Il primo è quello di un destino, di una vocazione e di una missione per la Russia. Il secondo, che determina il primo, è nel carattere universale della missione alla quale la Russia è chiamata. Non si tratta di una missione storica fra le altre, si tratta di porre fine alla storia" [26]. Secondo Berdjaev, la contraddizione che vive alla base di quest'idea è la lacerazione di due elementi presenti in essa: un elemento dionisiaco - inteso come senso della terra, della maternità, della forza elementare creatrice - e un elemento escatologico. Scrive a proposito Berdjaev: "La religione della Terra è molto forte presso il popolo russo, è radicata nel più profondo della sua anima [...] La categoria fondamentale è la maternità. La Madre di Dio precede la Trinità e s'identifica quasi in Essa" [27]. Allo stesso modo, prosegue il filosofo, "[...] l'idea russa è escatologica, essa è orientata verso la fine. Di là proviene il massimalismo russo. Ma nella coscienza russa l'idea escatologica prende la forma di un'aspirazione alla salvezza di tutti gli uomini" [28]. Da un lato la "stichija", parola difficilmente traducibile in altre lingue dice Berdjaev, che richiama l'idea di forze elementari e caotiche, la sorgente, il passato, la forza vitale; dall'altro l'escatologismo come aspirazione verso il futuro, missione e senso delle cose.
Questi due elementi in apparenza opposti trovano in realtà la loro conciliazione nell'idea di compimento della storia e la loro è una composizione vitale. L'idea russa vede il suo compimento nella risposta antimodernista della Russia all'Occidente e al problema della modernizzazione, il quale può avvenire grazie al fatto che i principi dello sviluppo storico sono resi immanenti in una facoltà dell'uomo. E al contempo possiede una finalità di tipo trascendente e religioso. L'estetica di quest'idea è riconosciuta in quel crocevia alla base della cultura russa in generale che è Bisanzio. Bisanzio significa per la Russia l'acquisizione di un'estetica basata su due cardini che segnano anche la rottura col mondo ellenistico: il primo consiste nella neutralizzazione della storia da parte del cosmo e dello spazio. Il secondo è dato dal modo in cui si rende abitabile quello spazio. Al di là delle forme, ma attraverso la loro osservazione, nasce l'idea di una contemplazione dell'essere, dove la cosa "semplicemente è". Lo spazio bizantino non è più il cosmo greco: le cose non sono più soltanto eidos, bellezza, "forme fiorite" in un cosmo inteso come spettacolo dell'essere, ma sono apertura, provocazione, spazi al di là della figura e della forma. L'estetica bizantina annulla il segreto e il mistero, ma anche il miracolo del potere sulle forme, tutto ciò che la cultura ellenica poneva a fondamento del proprio esistere. Così, fuori da un percorso obbligato che aspirava all'apparenza, all'eidos e alla penetrazione nel segreto dell'essere, l'eredità di Bisanzio produce in Russia una nuova apertura senza forma, e la dominanza dello spazio.
In questo contesto si colloca l'idea di libertà nell'orizzonte russo: è la dottrina della Sofia, luogo del contatto tra divino ed extradivino, bene rappresentata proprio da Solov'ëv e dagli altri pensatori sofianici come lui. Se Dio crea il mondo dal nulla, direbbe Solov'ëv, questo significa che occorre ammettere un nulla del mondo, che è un nulla di Dio, esistente prima della creazione. Il nulla creato del mondo è per Solov'ëv la Sofia.
Apertura dello spazio e della forma, neutralizzazione della storia ma anche religione della terra, sorgente creativa dionisiaca immanente, e, da ultimo, finalità universale. Sofia e Apocalisse rappresentano le categorie più propriamente russe in cui inscrivere l'esistenza dell'"idea". L'esito antimodernista è tanto più evidente quanto più si procede nel "luogo della crisi".
La differenza fondamentale con la storia occidentale si vede bene soprattutto alla fine del percorso e mostra in tutta chiarezza quanto le categorie di questo mondo siano inadatte a leggere l'esperienza della Russia.
Al culmine del percorso della crisi e fine della modernità, nel mondo occidentale, nella triade Kafka-Proust-Beckett si legge infine lo "stare nell'impossibilità" come esito ultimo del tragico e dell'assurdo. Nella frase testamentaria di Beckett, "I can't go on, I'll go on", è espresso il destino della definitiva scomparsa del significato: scomparsa resa paradossale dalla persistenza, in maniera più accentuata che mai dalla forma. E se forma-significato è la dicotomia fondante dell'Occidente moderno, con tutte le relative e possibili problematiche che da essa derivano, l'idea russa si muove su altri binari. È il concetto di forma, proprio quello che nell'Occidente moderno non farebbe più problema, a rappresentare il punto della crisi e della dipartita. Sofia ed Apocalisse si accordano nella neutralizzazione della forma del nuovo, e disegnano un mondo in cui il tempo perde l'irreversibilità e acquista invece la propria spazialità. La forma è un prodotto a venire, non è un dato della storia: questa è la risposta del popolo russo alle riforme di Pietro il Grande e a uno Stato, un popolo, che da Puškin in avanti, nasce moderno, a differenza dell'Occidente che lo è dovuto diventare. Il significato è invece il nulla negativo, l'abisso oscuro che precede il creato, e da cui la Sofia discende, ma che è pure il nulla di Dio che crea e creerà forme sempre nuove.
Su queste linee si muove l'anima russa, e la sua dimensione tragica non è e non si troverà nella contraddizione del soggetto/forma di fronte all'impossibilità del significato, quanto piuttosto del soggetto/sorgente vitale di fronte all'eccessiva, insostenibile, possibilità del nulla.
L'eccesso di possibilità, e la piena consapevolezza di questo, è il luogo della tragedia nell'estetica russa. In altre parole, la tragedia della libertà, come incontro, non opposizione, dei due elementi dell'idea russa. Non si tratta quindi di uno "scontro" che genera un assurdo, quanto di un "passaggio" che produce un'insostenibile possibilità. Non per questo meno tragico del primo.
Questa, secondo Rozanov, è la corretta chiave di lettura della filosofia del sottosuolo di Dostoevskij: dalla sua rivelazione nelle Memorie, come energia ribelle, caos, urlo primordiale e, appunto, "stichija", al suo completamento nell'apertura universale ed escatologica operata nei Karamazov.
Il pensiero tragico di Dostoevskij è sì, quello visto da Šestòv, nell'uomo del sottosuolo che reclama i propri diritti davanti al palazzo di cristallo, e non può annientare né questo né se stesso, e nondimeno rivendica il suo "no", l'assurda possibilità del rifiuto di ciò che rifiutabile non è, ma è soprattutto, infine, il superamento del mondo occidentale svuotato dalle forme caduche del nuovo e il senso finalistico della missione della Russia, grazie alla sua innocenza e alla vocazione universale che la contraddistingue.
In altre parole, l'orrore di Dostoevskij è il baratro stesso della libertà: la capacità di riconoscerla e guardarla fino in fondo. Vedere che l'essere umano non è in piedi su una rupe di fronte all'abisso, ma nell'abisso vive-da-sempre, con la possibilità di generarlo egli stesso ogni istante.
Allo stesso modo, la "bellezza che salverà il mondo" non può essere altro che un luogo mai presente, la profezia distante che null'altro richiama se non il suo stesso annuncio: il principe Miškin nomina soltanto la bellezza, non la indica. E questa può rivelarsi unicamente come qualcosa di non "già dato"; qualcosa che vive in quella zona di mezzo, in quella lontananza esistente tra la "chiamata" e l'apertura dell'ente da sempre atteso.
La "crudeltà" di Dostoevskij non consiste nell'aver dipinto i suoi personaggi nel ruolo di Sisifo: ma nell'aver tolto loro sia la montagna che il masso da spingere. Nell'averli restituiti alla propria totale, libera, possibilità dialogica. Nell'aver messo tutti noi, e Dio stesso, in questa condizione.
Atei o cristiani, siamo liberi, assolutamente liberi. Per il dono più grande che può fare il Creatore alle sue creature, o perché nessuno ha creato un bel niente: siamo noi i protagonisti. È questo il guaio.
Oltre la "polifonia" della sua arte e le mille manifestazioni del suo pensiero, un'idea saldamente dostoevskiana questa. Un'idea crudele.

 




[1] I brani delle lettere di Dostoevskij qui riportati sono tratti da: G. Pacini, F. M. Dostoevskij, Milano, Bruno Mondadori Editore, 2002, p. 95.
[2] Ivi, p. 96.
[3]Basti citare Fëdor Stepùn, "I Demòni e la rivoluzione bolscevica"; Jurij Karjakin, "Dostoevskij e la vigilia del XXI secolo" e infine il celebre volume di Ljudmila Saraskina, "I Demòni romanzo premonitore".
[4] G. Pacini, op. cit., p. 96.
[5]D. P. Mirskij, "Storia della letteratura russa", tr. it. di Silvio Bernardini, Milano, Garzanti, 1995, p. 243.
[6] G. Pacini, op. cit., p. 96.
[7] F. M. Dostoevskij, "I fratelli Karamazov" in "Romanzi e taccuini" a cura di Ettore Lo Gatto, Milano, Sansoni, 1963, vol. II, 5, p. 174.
[8] Nell'"Idiota", a proposito del Cristo di Holbein, Dostoevskij farà dire a Ippolit: "Gli uomini che circondavano il morto, ma dei quali nessuno appariva nel quadro, dovettero provare un'angoscia e una costernazione terribile in quella sera che aveva frantumato di colpo tutte le loro speranze e quasi la loro fede" (F. M. Dostoevskij, "L'Idiota" in "Romanzi e taccuini" cit., p. 502).
[9] P. Citati, "Il Male Assoluto. Nel cuore del romanzo dell'Ottocento", Milano, Arnoldo Mondadori, 2000, p. 316.
[10] F. M. Dostoevskij, "I Demòni", tr. it di Rinaldo Küfferle, Milano, Arnoldo Mondadori, 2002, pp. 633-34.
[11] P. Citati, op. cit., p. 323.
[12] M. Bachtin, "Dostoevskij. Poetica e stilistica", tr. it. di Giuseppe Garritano, Torino, Einaudi, 2002, p. 127.
[13] F. M. Dostoevskij, "I Demòni" cit., p. 668.
[14] "Quei demoni che escono dal malato ed entrano nei porci, sono tutte le piaghe, tutti i miasmi, tutte le immondizie, tutti i demoni e i demonietti che si sono raccolti nella grande e cara malata, nella nostra Russia [...] I porci siamo noi [...] ed io primo forse in testa agli altri, e ci precipiteremo, folli e indemoniati, giù dalla rupe nel mare e affogheremo tutti" (Ivi, p. 670).
[15] Cfr. P. Citati, op. cit., p. 326.
[16] Si veda il saggio di Thomas Mann, "Dostoevskij - con misura" in "Nobiltà dello spirito e altri saggi", a cura di Andrea Landolfi, Milano, Mondadori "I Meridiani", 1997, pp. 861-880.
[17] P. Citati, op. cit., p. 316.
[18] F. M. Dostoevskij, "I Demòni" cit., pp. 429-430.
[19] Ivi, p. 632.
[20] Ibidem.
[21] Ibidem.
[22] S. Givone, "Dostoevskij e la filosofia", Bari, Laterza, 1984, p. 90.
[23] Ivi, p. 96.
[24] Ibidem.
[25] Si veda F. M. Dostoevskij, "I Demòni" cit., p. 430.
[26] Ivi, pp. 43-44.
[27] Ivi, p. 48.
[28] Ivi, p. 690.
[29] Ivi, pp. 690-691.
[30] Ivi, p. 691.
[31] Si veda in special modo il capitolo "Il male" in L. Pareyson, "Dostoevskij. Filosofia, romanzo ed esperienza religiosa", Torino, Einaudi, 1993, pp. 26-70.
[32] E nello stesso senso potremmo collocare, anche se sotto una veste ancor più teorica, l'esperienza di Kirillov.
[33] Ipotesi - questa del "peccato più grave" per Dostoevskij - confermata da Ivan Karamazov nel suo celebre dialogo col fratello Alësa, nel quale non accetta un mondo in cui esiste la "sofferenza dei bambini".
[34] F. M. Dostoevskij, "I Demòni" cit., p. 711.
[35] Ivi, p. 719.
[36] Ivi, p. 703.
[37] Ivi, p. 701.
[38] M. Bachtin, "Dostoevskij" cit., p. 343.
[39] F. M. Dostoevskij, "I Demòni" cit., p. 722.
[40] Ivi, p. 724.
[41] Ivi, p. 703.
[42] P. Evdokimov, "Dostoevkij e il problema del male", tr. it di Elisabetta Confaloni, Roma, Città Nuova Editrice, 1995, p. 127.
[43] Ibidem.


Andrea Oppo, Dostoevskij: La Bellezza, il Male, la Libertà. 3. La vera anima del genio crudele. Scavando al fondo dei Karamazov,
in "XÁOS. Giornale di confine", Anno II, N.3 Novembre-Febbraio 2003/2004, URL: http://www.giornalediconfine.net/anno_2/n_3/4.htm

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. Quale Bellezza salverà il mondo? L'Idiota di Dostoevskij e un difficile enigma


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