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STEFANO SCRIMA
Rabbia di poesia:
L’infelicissimo Giacomo Leopardi ne Il giovane favoloso di Mario Martone


Non mi è mai stato chiaro il motivo per cui Giacomo Leopardi fu inserito nei programmi scolastici italiani e perché ancor oggi continui ad esser declamato da professori formati per annoiare. Mi è sempre apparsa una grande ipocrisia: il poeta dell’antisistema, l’ateo maledetto, Erostrato e Capaneo in un’unica forma d’uomo quasi mostruosa, propinato a dei ragazzini come ispirato esaltatore della patria prima e languido poeta della malinconia dopo. Sì certo, Leopardi era un genio, un uomo dalle migliaia di pagine vergate, bellissime. Ma il suo messaggio è terrificante, sublime, rivoluzionario. La poesia di Leopardi non è Leopardi, è il mezzo col quale Giacomo cercava di esprimersi, di dare forma a un male esistenziale che invece di assorbirsi con gli anni non ha fatto che caratterizzare il suo pellegrinaggio verso la verità, o perlomeno verso un senso che valesse la sofferenza del vivere. La sua ipersensibilità, arma infausta che getta l’uomo nella viva contraddizione del mondo, perseguitandone i passi, ha condotto il giovane Leopardi all’unica possibile sentenza sull’uomo: un essere miserabile che cerca di fuggire dalla sua condizione inventandosi un mondo che non esiste; un essere frustrato, alla ricerca di un piacere illusorio perché immediatamente adombrato dal nuovo desiderio che imprigiona l’anima. Quasi come se la sofferenza di vivere sperimentando profondamente questa condizione avesse agito sul suo corpo, piegandolo, decretandone la sconfitta al cospetto dell’indifferenza della Natura matrigna. Come se non fosse il corpo a suggerire le parole di dolore alla bocca di Giacomo, ma al contrario la lucidità, che è la sua maledizione, a incurvare l’uomo, corpo compreso, verso la sconfitta, l’impossibilità di essere felici.

“Io sono infelicissimo” risponde Leopardi ai suoi colleghi letterati che lo convocano per comunicargli che la disperazione dei suoi versi non lo ha aiutato a vincere il premio letterario al quale ambiva. Ma non lo dice tristemente e nemmeno intristendosi – e qui veniamo al film Il giovane favoloso di Mario Martone e alla splendida interpretazione di Elio Germano –, lo dice rabbiosamente, fieramente, convintamente. Giacomo Leopardi è un uomo arrabbiato, un uomo che lotta contro l’assurdità della sua condizione e di quella di tutti gli uomini, i quali odia, non in quanto uomini ma in quanto pedine ignare del perverso gioco della Natura, un gioco al quale nemmeno lei sa di giocare, essendo del tutto indifferente al destino degli umani. Odia la loro sicumera, le falsissime convinzioni, il bigottismo, odia Recanati, piccolo borgo ignorante, odia il suo destino da vescovo (quello che i genitori vorrebbero diventasse), il suo futuro da commediante tra ignari commedianti. Un ribelle del sistema sia sociale che cosmico, e se quest’ultimo non può esser scalfito nella sua algidità, Giacomo vive sulla sua pelle l’impossibilità, pena l’emarginazione e lo sberleffo altrui, di penetrare le false verità che costituiscono il primo. La società muta nel tempo soltanto nei contenuti, non nella forma che è e sempre rimarrà quella della giustificazione. Giacomo è un ribelle, è questa la sua cifra, non la capacità di scrivere versi immortali. Senza questo ribollire, senza il fuoco del rivoltoso che non lo fa dormire, la forma poetica del suo pensiero non avrebbe mai visto la luce (né tantomeno le antologie di letteratura italiana tanto invise ai ragazzi in pieno subbuglio ormonale). Martone mette in scena questa rabbia, fiera, poetica, questa umanità spinta all’estremo della tollerabilità. Questa follia sanissima. Lo fa mostrando un Leopardi rimproverato dalla madre che si ostina a tagliare la carne con la forchetta; quando sdraiato sulla sedia nella biblioteca paterna si rivolge compiaciuto al padre, l’emblema del sistema conto cui lotta, il quale non credeva possibile trovare in Omero un termine triviale come “ombelico”; quando è a un passo dal fuggire per sempre dal suo borgo-sepolcro e viene scoperto; quando scaglia per aria la sedia urlando contro padre e zio esasperato dalla loro totale mancanza di ambizione – questo, Giacomo non lo può sopportare, lui che vuole fare qualcosa di grande, che anela alla gloria, consapevole della fiera insolenza con cui la brama –; quando a Napoli si inebria mangiando il gelato, atto sconsigliato dal medico a causa della sua cagionevole salute; quando si rifiuta di sottostare alle ridicole formalità. E quando la Natura con le sembianze della madre gli confessa la verità sul mondo e Giacomo, sempre fiero, piange investito da sabbia e vento. Certo, il film non racconta solo questo aspetto, troviamo anche un Leopardi fragile, ossessivo, ingenuo.

Ma chi vuole ascoltare un uomo che grida ciò a cui forse nemmeno gli stessi Greci credevano: “Meglio non esser nati”? Sentenza che invero cela un amore assoluto e impossibile per la vita e la felicità assente, un’aspirazione letale alla gaiezza inquinata dal dolore che porta la coscienza di chi è più vicino al divino che alla terra, chi sa che è il dubbio l’unica verità. Ma come vivere con questa angosciante consapevolezza? Non si può. Si spezzerebbe l’incantesimo dell’esistenza umana. L’agire stesso risulterebbe impossibile. Leopardi ha vissuto questa contraddizione assurda, e infatti fu proprio il suo agire a risentirne: Martone mostra abilmente questa linearità, questa parabola discendente di un uomo che va incontro alla morte vivendo una vita sulla carta, nei suoi scritti. Anche la lunghezza del film, la sua elegante linearità, parla di questo. Non succede mai niente di particolare, gli eventi più importanti della vita di Leopardi, dopo aver trovato l’inestimabile affetto e stima di Pietro Giordani, furono l’incontro con Antonio Ranieri, il suo più grande amico, chi si prenderà cura di lui, e l’infatuazione non ricambiata per Fanny. Poi solo traslochi per cercare migliori condizioni di vita tra Firenze, Roma e Napoli e conseguente affaticamento e peggioramento della malattia ormai insopportabile. Così, a soli 39 anni (ancora da compiere), Giacomo muore.

A noi rimane l’esempio di un’autentica vita filosofica: un uomo che ha vissuto fino in fondo la sua filosofia, sperimentando la nobile infelicità dell’individuo che finì per illuminare mirabili versi, la cui forza sta nella capacità di evocare la sofferenza vissuta attraverso una musicalità tutta nuova, tutta sua.

Mi auguro che da ora in poi i professori mostrino la versione di Martone sulla vita filosofica e poetica di Leopardi prima di annoiarli facendo loro imparare L’infinito a memoria. Il rischio – non proprio stimolato dal sistema scolastico (e sociale) – è però quello di destare in loro l’accecante luce della consapevolezza, ovvero la possibilità che ha l’uomo di scegliersi, lottando contro l’ingiustizia, anche in una battaglia persa come quella intrapresa da Giacomo contro la Natura, ma soprattutto che diritto (e dovere) prettamente umano è quello di cercare, furiosamente, la propria felicità, una ricerca che è spesso fatta di sofferenza per chi sa cosa significa amare la vita.

 


Stefano Scrima, Rabbia di poesia. L’infelicissimo Giacomo Leopardi ne Il giovane favoloso di Mario Martone,
in "XÁOS. Giornale di confine" -ISSN 1594-669X
URL: http://www.giornalediconfine.net/xaos_archivio/archivio/rabbia_di_poesia_stefano_scrima.htm

 
   
 
     

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