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Stefano Scrima

"L’ESISTENZA DI TROPPO.
JEAN-PAUL SARTRE E IL ROMANZO DELLA NAUSEA ESISTENZIALE


E sol melanconia m’aggrada forte
(1).
Cino da Pistoia

 

1.

La nausée vide la luce nel ’38 provocando scalpore per la sua natura antiromanzesca di diario ritrovato dagli editori e pubblicato all’insaputa dell’artefice. Antiromanzo poiché non è presente una storia, o perlomeno non una storia convenzionale ben definita, distribuita in avvenimenti chiave che determinano svolte significative nella narrazione: Antoine Roquentin è uno storico annoiato “costretto” a vivere da tre anni in una fittizia Bouville per concludere delle ricerche sul marchese di Rollebon; nella sua desolante quotidianità, scandita dalle ore in biblioteca, il ricordo dell’ex ragazza Anny e la musica jazz ascoltata al Ritrovo dei Ferrovieri, prorompe il peso della confessione che il trentenne teme di rivelare perfino al suo cuore: la contrazione della nausea. È egli stesso a presentarci questo sentimento come una malattia (2), a sentirsi infetto a tratti, nei momenti che rimane solo, quand’è la sua “natura” a parlare in lui e la realtà a svelarsi per quella che è realmente. Una «specie di nausea» è il risultato.

«Ora me ne accorgo, mi ricordo meglio ciò che ho provato l’altro giorno. Quando tenevo quel ciottolo. Era una specie di nausea dolciastra. Com’era spiacevole! E proveniva dal ciottolo, ne sono sicuro, passava dal ciottolo nelle mie mani. Sì, è così, proprio così, una specie di nausea nelle mie mani.» (3)

Il ciottolo, l’oggetto, la realtà che si svela. E che cosa dice? Non dice niente, è qui che la nausea ci assale: l’esistenza è, ed è senza un motivo, c’è come potrebbe non esserci. L’esistenza è pura contingenza, gratuità assoluta. Nell’agire Antoine si dimentica di ciò, ma nel ricordo, nella riflessione, eccolo afflitto dalla rivelazione che le cose compiono per mezzo della sua autocoscienza. È per questo che l’escamotage del diario rende l’opera ancor più efficace: solo dando voce ad un dialogo interiore può emergere la reale potenza di quest’incombere.
Vi è uno scarto incolmabile tra agire e pensare, tra vivere un’esistenza assurda,
senza dubitare mai del senso intrinseco alle cose, e l’osservarsi da fermi, dall’alto, quasi con occhi da narratore onnisciente. Se guardata così, la realtà, assume forme agghiaccianti; la Nausea che inizia ad impossessarsi dell’intera esistenza di Antoine – la quale per questo assumerà da ora in poi la n maiuscola – si mostra come sostanza costitutiva del reale:

«La Nausea non è in me: io la sento laggiù sul muro, sulle bretelle, dappertutto attorno a me. Fa tutt’uno col caffè, son io che sono in essa.» (4)

Così la Nausea da malattia diviene essenza.(5)
Una parvenza di consolazione sembra prospettarsi nel pieno assaporamento degli istanti, unici e irripetibili, perciò sublimi. Ma dura poco, il momento dell’attimo o il momento in cui ci si ferma a ripensarlo, narrandolo: così si può far della vita un’avventura. «Bisogna scegliere: o vivere o raccontare» (6) e per vivere si deve abbandonare il racconto e l’avventura. Siamo obbligati a portar avanti quest’esistenza dal di dentro e non come fossimo narratori di noi stessi, ma il problema è che «quando si vive non accade nulla.» (7)
La situazione appare senza via di fuga; accettandola o no rimarrà quell’amaro in bocca che sa d’assurdo. Accettare una vita assurda o rinunciarci? Dimenticarsi di se stessi è impossibile:

«Anche se rimanessi, anche se mi rannicchiassi in silenzio in un angolo, non mi dimenticherei. Sarei lì, peserei sul pavimento. Sono.» (8)

«Il mio posto non è in nessun luogo; io sono di troppo.» (9) Eccolo: il compimento della coscienza, la saturazione definitiva. La nausea fa straboccare Antoine dalla sua stessa vita; egli, da dentro, avverte il suo eccedere, il suo cader fuori dal vaso, e, come per la luna nel Diario di Eva (10), il suo scivolar verso il basso per poi uscir dal disegno. Perdita gravissima per l’integrità dell’io, smarrito in un impellente deliquio che tuttavia, a dispetto dei desideri del nauseato, mai sopravviene. Satura la coscienza, cade ogni senso. E piano paino una nebbia d’estate si fa largo.
Che fare? Annullarsi? Sopprimersi? Le cose «esistono forte», troppo perché ci si possa non pensare e troppo per credere che morire possa risolvere qualcosa. Il proprio cadavere sarebbe anch’esso di troppo, tutto è di troppo, l’esistenza è di troppo, noi siamo di troppo come gli alberi e i ciottoli. Antoine crede di aver trovato così la «chiave dell’esistenza»: l’arbitrarietà, l’assurdità, la contingenza, la perfetta gratuità. È come un’illuminazione, un incantesimo che rende accessibile la verità. E il pensiero va subito agli altri, a quei porcaccioni, gli abitanti di Bouville, al resto degli uomini che

«Tentano di nascondersi [la Nausea] con il loro concetto di diritto. Ma che meschina menzogna: nessuno ha diritto; essi sono completamente gratuiti, come gli altri uomini, non arrivano a non sentirsi di troppo. E nel loro intimo, segretamente, sono di troppo, cioè amorfi e vacui; tristi.» (11)

È un moto di disprezzo e pietà per gli altri che rimane al lettore dopo aver scorto i pensieri di Antoine, sentimenti che quest’ultimo sente cadere anche su di sé, attenuati soltanto da una consapevolezza maggiore che sommerge l’uomo negli abissi di un’esistenza ingiustificabile.
Il romanzo si conclude senza soluzione, o meglio con un’unica e provvisoria possibilità di salvezza nell’orizzonte dell’angoscia dell’uomo al cospetto del terrore per l’esistenza: giustificarsi ed accettarsi «al passato, soltanto al passato» (12); proprio quella limitata consolazione di cui già Antoine intravide il potere sanifico: vivere o raccontare, vivere o scrivere. Scegliendo la seconda possibilità diventa realizzabile una contemplazione distaccata della propria vita, ma solo di quella passata, compiuta, non più esistente. L’esistenza in atto non permette alcuna interferenza, la Nausea domina.
Ascoltando la solita canzone Antoine immagina la sofferenza del compositore trovandola commovente, lo invidia perché sa che nessuno penserà mai ad Antoine Roquentin come egli pensa all’ebreo che ha scritto Some of these days e alla “negra” che la canta. Sente «qualcosa che [lo] sfiora timidamente e non os[a] nemmeno muoversi per paura che scompaia. Qualcosa che non conoscev[a] più: una specie di gioia.» (13)

«Un libro. Un romanzo. E ci sarebbe gente che leggerebbe questo romanzo […] e credo che un po’ della sua luce cadrebbe sul mio passato. Allora, forse, attraverso di esso, potrei ricordare la mia vita senza ripugnanza.» (14)

2.

I racconti di Le mur (1939), seconda fatica narrativa di Sarte, riecheggiano e approfondiscono alcune tematiche già sviluppate ne La nausée, introducendo però nuovi elementi che contribuiranno all’evoluzione del pensiero sartriano.
Il sentimento della Nausea, che da germe infetto prende le sembianze dell’esistenza al cospetto dell’uomo, viene affrontato qui attraverso gli occhi di un condannato a morte – metafora della vita umana che non può sfuggire all’annullamento. Pablo Ibbieta, protagonista del racconto che dà il nome alla raccolta, è prigioniero durante la guerra civile spagnola ed è più vicino alla morte di quanto avrebbe mai potuto immaginare: ha “scoperto” che deve morire, e questa scoperta lascia il segno.

«Nello stato in cui mi trovavo, se fossero venuti ad annunciarmi che potevo tornarmene tranquillamente a casa mia, che mi avevano graziato, la cosa mi avrebbe lasciato indifferente: qualche ora o qualche anno d’attesa è assolutamente la stessa cosa, una volta che si è perduti l’illusione di essere eterni.» (15)

È l’ennesimo trionfo dell’Assurdo, dell’impossibilità di smarcarsi dal paradosso della vita che ci tiene attaccati a sé prospettandoci il nulla. Sembra quasi che Pablo, col suo rassegnarsi, abbia subìto un’involuzione rispetto ad Antoine e alla sua precaria via di salvezza; è da dire, però, che quest’ultimo non aveva annusato il profumo della morte della carne, quella reale, non raccontata o immaginata.
Perché continuare a vivere se la morte è un dovere? Quando la coscienza raggiunge il suo apice, l’inizio del cerchio da cui era partita, perché fingere ancora a se stessi nel recitare una commedia mal scritta? Pablo è saturo di sé, anch’egli ha scoperto la Nausea, quella sottile pellicola che riveste la realtà.
L’uomo è imprigionato nella sua esistenza e vive come fosse eterno, la coscienza dell’incombere della fine paralizza – l’uomo è come un prigioniero sbattuto al muro e puntato dai fucili di un plotone d’esecuzione – provocando ancora una volta «una specie di nausea», ora però molto più asfissiante. Pablo è più lucido di Antoine: non cerca nemmeno di fuggire al suo destino, anzi, gli va incontro “sacrificandosi”. Il racconto lo vedrà vincitore per mera fortuna e si chiuderà col suo riso apotropaico. Ma non c’è salvezza, non c’è soluzione. C’è una vita che scorre; vediamo che possiamo farne.
Il muro è anche il simbolo dell’incomunicabilità, delle diversità insormontabili, dell’impossibilità di veder oltre, di capire. Lucien ne L’enfance d’un chef ammette di aver perso il proprio tempo a rimpiangere d’esser nato per non esser riuscito a liberarsi dall’impaccio che la vita gli procura quotidianamente, ma soprattutto per l’incapacità di darsi conto del perché dell’esistenza, «questo dono voluminoso e inutile». (16)
Tom in Le mur paragona agli incubi il tentativo dell’uomo di darsi ragione:

«Si vuole pensare a qualche cosa, tutto il tempo si ha l’impressione di esserci arrivati, di star per capire e poi ecco che tutto scivola via, che ti sfugge e ricade. Mi dico: dopo non ci sarà più nulla. Ma non capisco cosa vuol dire.» (17)

Paul Hilbert, protagonista di Erostrate, crede invece di esorcizzare la paura dell’esistenza aizzando la sua volontà di potenza contro gli altri, ma l’assassinio non ottiene gli effetti sperati. Non cambia niente, la paura e la Nausea ci sono ancora.
Paul è un misantropo, sogna d’essere anarchico e attentare alla vita dello Zar, si domanda ironicamente perché ha il desiderio d’uccidere «gente che è già morta» (18) – quegli stessi porcaccioni di cui parla Antoine: di troppo senza coraggio d’ammetterlo. Sì perché «gli uomini, bisogna vederli dall’alto» (19), dice Paul, onnipotente, dal balcone del sesto piano:

«Non sanno combattere questo grande nemico dell’umanità: la prospettiva dall’alto. Mi sporgevo e mi mettevo a ridere: dov’era andato a finire quel famoso “portamento eretto” di cui andavano così orgogliosi: erano spiccicati sul marciapiede e due lunghe gambe mezzo rampanti uscivano da sotto le loro spalle.» (20)

Fine.

Per Sartre, lo si è detto, non v’è salvezza. È forse per questo che scrisse romanzi, così che il tempo non gli fu soltanto struggersi dell’esistenza, ma anche e soprattutto consolazione dell’amarezza della finitudine. Egli fu maestro nel narrar la diagnosi senza terapia del disinganno che abita l’uomo contemporaneo, quello più ardito, colui che coltivò la coscienza, forse per sbaglio, e ci trovò dentro il vuoto, un ammasso di niente.
Al di là del nauseante viver quotidiano, per Sartre, come miraggio, c’è solo il raggiungimento dell’Età della ragione, il momento in cui l’uomo capisce d’esser condannato alla libertà; libero di scegliere e schiavo nella scelta. Il suo impegno letterario approderà a questi lidi, ma a una condizione: non far rimarginare le ferite.


(1) Questa frase fa da esergo anche alla poesia Dolore (contenuta in Dolcezze, 1904) di Sergio Corazzini, e da questa è tratta.
Melancholia fu il titolo proposto da Sartre, poi scartato dagli editori a favore de La nausée, per il suo primo romanzo.

(2) J.-P. SARTRE, La nausée, Gallimard, Paris 1938; trad. it. B. Fonzi, La nausea, Einaudi, Torino 2005, p. 14.
(3) Ibidem, p. 23.
(4) Ibidem, p. 34.
(5) Ibidem, p. 171.
(6) Ibidem, p. 59.
(7) Ibidem, ivi.
(8) J.-P. SARTRE, La nausea, Einaudi, Torino 2005, p. 138.
(9) Ibidem, p. 165.
(10) M. TWAIN, Eve’s Diary, Harper and Brothers, London e New York 1906; trad. it. B. Lanati, Il diario di Eva, Feltrinelli, Milano 2006.
(11) J.-P. SARTRE, La nausea, Einaudi, Torino 2005, p. 177.
(12) Ibidem, p. 238.
(13) Ibidem, p. 237.
(14) Ibidem, p. 238.
(15) J.-P. SARTRE, Le mur, in Le mur, Gallimard, Paris, 1939; trad. it. E. Giolitti, Il muro, in Il muro, Einaudi, Torino 2003, p. 24.
(16) J.-P. SARTRE, L’enfance d’un chef, in Le mur, Gallimard, Paris 1939; trad. it. E. Giolitti, Infanzia di un capo, in Il muro, Einaudi, Torino 2003, p. 182.
(17) J.-P. SARTRE, Il muro, in Il muro, Einaudi, Torino 2003, p. 18.
(18) J.-P. SARTRE, Erostrate, in Le mur, Gallimard, Paris 1939; trad. it. E. Giolitti, Erostrato, in Il muro, Einaudi, Torino 2003, p. 82.
(19) Ibidem, p. 67.
(20) Ibidem, ivi.


Stefano Scrima, L'Esistenza di troppo. Jean-Paul Sartre e il Romanzo della Nausea Esistenziale in "XÁOS. Giornale di confine", Ottobre 2012
URL: http://www.giornalediconfine.net/2012/stefano_scrima_sartre.htm

 
 
     

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