Filosofia e preposizioni
Una filosofia delle preposizioni
deve ancora essere scritta. Tuttavia, se qualcuno si avventurasse
per questo cammino, scoprirebbe che il nesso fra filosofia
e preposizioni è ben più stretto di quanto si possa credere.
Le preposizioni, come già aveva intuito Aristotele con le
sue "categorie", ci forniscono un sintetico inventario
dei nostri modi di essere in relazione con il mondo. Per
esempio, quando progettiamo qualcosa, noi "siamo-per",
quando facciamo il tifo per qualcuno o apparteniamo ad una
comunità, noi" siamo-con", quando ci interroghiamo
sulla nostra storia, noi "siamo-da", quando ci
amiamo, noi "siamo-di", quando non abbiamo deciso,
prima di scegliere, noi "siamo-fra" e così via.
Analisi linguistica e analisi logica, linguaggio e pensiero
si rispecchiano. Azioni, passioni, tempi, luoghi, proprietà,
qualità e quantità si dicono attraverso queste preziose
particelle della lingua che, a dire il vero, la sciatteria
del parlare quotidiano, talvolta, impiega a sproposito,
confonde e, al giorno d'oggi, sempre più frequentemente
sbaglia. Di qui la possibilità che, in certi casi, l'uso
di alcune preposizioni si allontani dal suo significato
originario ed entri nell'abitudine linguistica.
Contro
Sul significato della particella
"contro", tuttavia, non sembrano esservi dubbi.
"Contro" esprime opposizione, reazione, avversione,
ostilità, contrasto. "Esser-contro" è, quindi,
il modo di pensare e di vivere di chi dissente, di chi protesta,
di chi rifiuta. Insomma, per fare il verso ad una famosa
canzone di Vasco Rossi, di chi sa "dir di no".
Nelle società tradizionali, basate sul conformismo e sull'adesione
passiva ad una configurazione di valori prestabiliti, la
posizione di chi non acconsente non è mai stata comoda.
A volte è stata resa persino impossibile. I miti e le saghe
delle principali civiltà antiche, da Prometeo ad Adamo,
da Odisseo a Saul, da Enkidu a Loki, raccontano la ribellione
di chi "dice di no" in termini di condanna, di
sconfitta e di maledizione. Lo stesso nome del Maligno nella
tradizione ebraica, ossia "ha-satan", significa,
alla lettera, "colui che si oppone", "colui
che sta contro", "colui che è d'ostacolo".
"Anti-christos", cioè "contro-Cristo",
è il nome greco dell'avversario escatologico che guiderà
le schiere del Male nello scenario degli ultimi tempi, prima
della fine della storia. "Sono lo spirito che sempre
dice no": con queste parole Mefistofele si presenta
a Faust, nell'omonimo capolavoro di Goethe. Nella descrizione
della corte celeste con cui si apre il libro biblico di
"Giobbe" "Satan" è l'accusatore - il
pubblico ministero -, il cui compito, in vero assai poco
gradevole per chiunque, è quello di mettere alla prova il
giusto. E' questa, forse, l'origine più antica di quell'espressione
che, nel linguaggio comune, si impiega per descrivere chi
"parla contro", chi si assume il ruolo del "bastian
contrario", ossia chi fa l'"avvocato del diavolo".
Profeti, filosofi e intellettuali
Ma la tradizione biblica ci
descrive anche un altro esempio di vite orientate all'"esser-contro",
questa volta, tuttavia, connotate positivamente. Si tratta
di quelle figure eroiche e grandiose che in ebraico si chiamano
"nebiim", ovvero i "profeti". Tutte
le civiltà hanno i "saggi", che mangiano dalle
mani dei potenti e riproducono e rafforzano le strutture
del sapere tradizionale. Solo la civiltà ebraico-cristiana
ha i "profeti", ossia degli uomini che "parlano-contro",
che esortano, che denunciano, che accusano le forme del
potere stesso. "Su, va a Ninive, la grande città, e
grida contro di essa" è il comando di Dio a Giona.
La figura del profeta scuote il popolo dal torpore dell'inautentico,
dalle cattive abitudini, dalla falsità e dalle menzogne.
La sua azione è un "portar fuori", un "esodo"
dalla permanenza nella non verità e, insieme, un "mutare
direzione", un "convertire" rispetto alla
deriva, al procedere per inerzia dell'errore. Nel tipo del
"profeta" la civiltà occidentale sperimenta per
la prima volta il modello di un'esistenza orientata sul
"potere" esclusivo della parola. Un potere inteso
come "contro-potere" rispetto all'economia e all'organizzazione
materiale dello "status quo" della forza, una
parola che, fondandosi solo su se stessa, da voce ai servi
contro le consuetudini e il sapere dei padroni. Il "contro"
è, come suggerisce l'immagine del deserto, il luogo utopico
dei profeti, il "vuoto" radicale rispetto al "pieno"
della città a cui il messaggio del "nabi'" invece
è rivolto. Quella del profeta, ha scritto Klaus Heinrich,
autore di uno splendido libro "Sulla difficoltà di
dire di no", è un'autentica "protesta ontologica"
che si condensa nell'esercizio ostinato della potenza del
"no", del negativo, della negazione. Una negazione
che si esercita non sull'essere, ma su quelle negazioni
che, a loro volta, minacciano col non-essere la pienezza
e l'autenticità della vita. Il ruolo del profeta, come ha
ben visto Leo Strauss, possiede nella figura di Socrate,
il protofilosofo, il suo corrispondente greco. Anche Socrate
sta dalla parte della negazione. Il suo sapere, come lui
stesso ci ricorda nell'"Apologia", è un "sapere
di non sapere", è un "contro-sapere", è quella
"dotta ignoranza" a partire dalla quale egli può
interrogare i cittadini di Atene su ciò che essi credono
di conoscere, smantellando le false convinzioni su cui poggia
l'intera vita della città. Isaia e Socrate - i profeti e
i filosofi - sono i due tipi ideali da cui discende, attraverso
il fiume della storia, ciò che nella società moderna chiamiamo
l'"intellettuale". L'intellettuale, sostiene Edward
W. Said, è colui che "dice la verità" al potere.
Il vero intellettuale è, come accadde a Voltaire, un "outsider",
un contestatore, un esiliato, un "dilettante".
Illuminismo, critica e facoltà
di opporsi
La figura dell'intellettuale
nasce, quindi, con l'apertura di quello spazio d'autonomia
di pensiero e di vita rispetto alle istituzioni del potere
e del sapere che si suole chiamare "illuminismo".
L'illuminismo, diceva Kant, "implica molto meno di
quanto non immaginino coloro che ritengono che l'illuminismo
consista di conoscenze: è piuttosto un principio negativo
dell'uso della facoltà di conoscere", ossia un vaglio
dei suoi limiti. L'illuminismo è il "tempo della critica,
a cui tutto deve sottostare". La parola "critica"
ci riporta, attraverso l'etimologia, all'immagine del tribunale,
all'esame dei "pro" e dei "contro",
ad una concezione dibattimentale della verità, ossia come
risultato di un processo confutatorio, che era apparsa per
la prima volta in Grecia, al tempo dei Sofisti. La critica,
notava Michel Foucault, non è altro che "l'arte di
non essere eccessivamente governati", e il modo per
non essere governati "di più" è quello di mettere
il potere in contraddizione con se stesso. Il principio
di non contraddizione che sorregge l'analitica della verità
dell'impresa filosofica implica il "dire contro"
che trasforma la verità in verità critica. Oggi che i belli
spiriti della società globale sembrano quasi infastiditi
dall'essenza negativa della critica e che, dalla religione
delle merci alla merce delle religioni, sempre più forti
appaiono le seduzioni della verità oracolare dei vari persuasori
non troppo occulti, è bene ricordare che non c'è critica
- e, dunque, non c'è vera autonomia dell'individuo - senza
un "esser-contro", senza un opporsi, senza una
protesta. Il Novecento, che si era aperto fra i bagliori
di ribellione, ancora vividi, del contro-potere degli intellettuali,
chiamati a raccolta da Zola per l'"affaire Dreyfus",
si è chiuso con il declino dell'intellettuale, con il suo
assorbimento nelle strutture organiche del consenso alla
Megamacchina globale, nell'ossequio dei luoghi comuni del
pensare gregario, in quel "conformismo dell'anticonformismo"
che viene abbondantemente contrabbandato dai "media"
come espressione di libertà d'opinione. Così l'"essere-contro"
diventa un giro di valzer e gli intellettuali dei "ballerini"
che, come scriveva Kundera in un suo romanzo, piroettano,
compiaciuti e incoerenti, da un contrario all'altro, senza
rischiare più nulla. Perché "essere-contro" significa
avere il coraggio di stare fino in fondo dalla parte del
torto, dell'insuccesso, vuoi anche della sconfitta.
Dai bordi del mondo
Se dovessi redigere un manifesto
degli studi per la filosofia, di quelli che oggi la cosiddetta
riforma dell'Università pretende vengano stilati da ogni
corso di laurea della repubblica, non mentirei. La filosofia
non garantisce nessun profilo professionale. Neppure quello
del professore di filosofia che, accade sempre più spesso,
non ha nemmeno la laurea in questa disciplina. Nel "conflitto
delle facoltà", come già lo chiamava Kant, la filosofia,
per la sua povertà e inutilità strumentale, è destinata
a soccombere. Medici, ingegneri, avvocati studiano per qualcosa
che sopravanza i loro studi, mentre la filosofia è già ciò
per cui si studia. Tuttavia, l'inutilità non deve trarre
in inganno riguardo alla sua presunta inoffensività. I guerriglieri
della filosofia, infatti, imparano a maneggiare l'arma più
potente e radicale, quella del pensiero. Forse non è lontano
il giorno in cui, come successe ai tempi di Giustiniano,
l'imperatore chiuderà la scuola di Atene, cacciando i filosofi
fuori dai confini dell'impero. "Il pensiero critico",
scriveva Enrique Dussel, "sorge dalla periferia e finisce
sempre per rivolgersi verso il centro". Periferici
rispetto al centro dell'Ellade erano i pensatori presocratici
delle colonie ioniche e dell'Italia meridionale. Il pensiero
medievale emerge dalle frontiere dell'impero. Agostino viene
dall'Africa del nord, i padri greci dall'Egitto, dalla Siria
o dalla Palestina. All'epoca della rinascita carolingia
sarà la remota Irlanda a guidare il rinnovamento del pensiero
europeo. Non da Parigi, ma dalla provincia della Francia
verrà Cartesio, mentre Kant nascerà nel più lontano avamposto
dei cavalieri teutonici, Koenigsberg, l'attuale Kalliningrad
russa. Anche fare filosofia in Sardegna, per esempio, potrebbe
essere un modo di mettere a frutto l'eccentricità di quest'isola
assoluta, di impiegare la sua "geofilosofia" per
riflettere su un'identità futura, e non solo sulla memoria
passata, retrograda, antiquaria, istituzionalmente pacificata.
"Gli uomini lontani", proseguiva Dussel, "quelli
la cui prospettiva va dalla frontiera verso il centro, quelli
che devono decidere chi sono davanti all'uomo già fatto
e davanti ai loro fratelli barbari, nuovi, quelli che sperano
perché sono ancora fuori, tali uomini hanno la mente pulita
per pensare la realtà. Non hanno nulla da nascondere. Come
dovrebbero nascondere la dominazione se la soffrono?".
E concludeva, "l'intelligenza filosofica non è mai
così veridica, limpida, così precisa come quando parte dall'oppressione
e non ha nessun privilegio da difendere, perché non ne possiede
nessuno". La filosofia si attesta ai bordi del mondo,
pronuncia il suo "preferirei di no" là dove nessuno
può scalzarla. E' disciplina dell'eccentrico, dell'assurdo,
del paradossale. Ma proprio sulla linea del margine sta
il punto archimedico, il "contro", quel famoso
punto d'appoggio che ci consente di sollevare il mondo,
di rovesciare lo stato delle cose, di pensare oltre l'orizzonte,
di costruire il nuovo nell'azzurro.
A. Tagliapietra, Esser contro in "XÁOS. Giornale
di confine",
Anno I, n.1 2002, URL: http://www.giornalediconfine.net/n_precedente/art_1.htm |