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ANDREA TAGLIAPIETRA, "ESSER CONTRO"

 

 

 

Filosofia e preposizioni

Una filosofia delle preposizioni deve ancora essere scritta. Tuttavia, se qualcuno si avventurasse per questo cammino, scoprirebbe che il nesso fra filosofia e preposizioni è ben più stretto di quanto si possa credere. Le preposizioni, come già aveva intuito Aristotele con le sue "categorie", ci forniscono un sintetico inventario dei nostri modi di essere in relazione con il mondo. Per esempio, quando progettiamo qualcosa, noi "siamo-per", quando facciamo il tifo per qualcuno o apparteniamo ad una comunità, noi" siamo-con", quando ci interroghiamo sulla nostra storia, noi "siamo-da", quando ci amiamo, noi "siamo-di", quando non abbiamo deciso, prima di scegliere, noi "siamo-fra" e così via. Analisi linguistica e analisi logica, linguaggio e pensiero si rispecchiano. Azioni, passioni, tempi, luoghi, proprietà, qualità e quantità si dicono attraverso queste preziose particelle della lingua che, a dire il vero, la sciatteria del parlare quotidiano, talvolta, impiega a sproposito, confonde e, al giorno d'oggi, sempre più frequentemente sbaglia. Di qui la possibilità che, in certi casi, l'uso di alcune preposizioni si allontani dal suo significato originario ed entri nell'abitudine linguistica.

Contro

Sul significato della particella "contro", tuttavia, non sembrano esservi dubbi. "Contro" esprime opposizione, reazione, avversione, ostilità, contrasto. "Esser-contro" è, quindi, il modo di pensare e di vivere di chi dissente, di chi protesta, di chi rifiuta. Insomma, per fare il verso ad una famosa canzone di Vasco Rossi, di chi sa "dir di no". Nelle società tradizionali, basate sul conformismo e sull'adesione passiva ad una configurazione di valori prestabiliti, la posizione di chi non acconsente non è mai stata comoda. A volte è stata resa persino impossibile. I miti e le saghe delle principali civiltà antiche, da Prometeo ad Adamo, da Odisseo a Saul, da Enkidu a Loki, raccontano la ribellione di chi "dice di no" in termini di condanna, di sconfitta e di maledizione. Lo stesso nome del Maligno nella tradizione ebraica, ossia "ha-satan", significa, alla lettera, "colui che si oppone", "colui che sta contro", "colui che è d'ostacolo". "Anti-christos", cioè "contro-Cristo", è il nome greco dell'avversario escatologico che guiderà le schiere del Male nello scenario degli ultimi tempi, prima della fine della storia. "Sono lo spirito che sempre dice no": con queste parole Mefistofele si presenta a Faust, nell'omonimo capolavoro di Goethe. Nella descrizione della corte celeste con cui si apre il libro biblico di "Giobbe" "Satan" è l'accusatore - il pubblico ministero -, il cui compito, in vero assai poco gradevole per chiunque, è quello di mettere alla prova il giusto. E' questa, forse, l'origine più antica di quell'espressione che, nel linguaggio comune, si impiega per descrivere chi "parla contro", chi si assume il ruolo del "bastian contrario", ossia chi fa l'"avvocato del diavolo".

Profeti, filosofi e intellettuali

Ma la tradizione biblica ci descrive anche un altro esempio di vite  orientate all'"esser-contro", questa volta, tuttavia, connotate positivamente. Si tratta di quelle figure eroiche e grandiose che in ebraico si chiamano "nebiim", ovvero i "profeti". Tutte le civiltà hanno i "saggi", che mangiano dalle mani dei potenti e riproducono e rafforzano le strutture del sapere tradizionale. Solo la civiltà ebraico-cristiana ha i "profeti", ossia degli uomini che "parlano-contro", che esortano, che denunciano, che accusano le forme del potere stesso. "Su, va a Ninive, la grande città, e grida contro di essa" è il comando di Dio a Giona. La figura del profeta scuote il popolo dal torpore dell'inautentico, dalle cattive abitudini, dalla falsità e dalle menzogne. La sua azione è un "portar fuori", un "esodo" dalla permanenza nella non verità e, insieme, un "mutare direzione", un "convertire" rispetto alla deriva, al procedere per inerzia dell'errore. Nel tipo del "profeta" la civiltà occidentale sperimenta per la prima volta il modello di un'esistenza orientata sul "potere" esclusivo della parola. Un potere inteso come "contro-potere" rispetto all'economia e all'organizzazione materiale dello "status quo" della forza, una parola che, fondandosi solo su se stessa, da voce ai servi contro le consuetudini e il sapere dei padroni. Il "contro" è, come suggerisce l'immagine del deserto,  il luogo utopico dei profeti, il "vuoto" radicale rispetto al "pieno" della città a cui il messaggio del "nabi'" invece è rivolto. Quella del profeta, ha scritto Klaus Heinrich, autore di uno splendido libro "Sulla difficoltà di dire di no", è un'autentica "protesta ontologica" che si condensa nell'esercizio ostinato della potenza del "no", del negativo, della negazione. Una negazione che si esercita non sull'essere, ma su quelle negazioni che, a loro volta, minacciano col non-essere la pienezza e l'autenticità della vita. Il ruolo del profeta, come ha ben visto Leo Strauss, possiede nella figura di Socrate, il protofilosofo, il suo corrispondente greco. Anche Socrate sta dalla parte della negazione. Il suo sapere, come lui stesso ci ricorda nell'"Apologia", è un "sapere di non sapere", è un "contro-sapere", è quella "dotta ignoranza" a partire dalla quale egli può interrogare i cittadini di Atene su ciò che essi credono di conoscere, smantellando le false convinzioni su cui poggia l'intera vita della città. Isaia e Socrate - i profeti e i filosofi - sono i due tipi ideali da cui discende, attraverso il fiume della storia, ciò che nella società moderna chiamiamo l'"intellettuale". L'intellettuale, sostiene Edward W. Said, è colui che "dice la verità" al potere. Il vero intellettuale è, come accadde a Voltaire, un "outsider", un contestatore, un esiliato, un "dilettante".

Illuminismo, critica e facoltà di opporsi

La figura dell'intellettuale nasce, quindi, con l'apertura di quello spazio d'autonomia di pensiero e di vita rispetto alle istituzioni del potere e del sapere che si suole chiamare "illuminismo". L'illuminismo, diceva Kant, "implica molto meno di quanto non immaginino coloro che ritengono che l'illuminismo consista di conoscenze: è piuttosto un principio negativo dell'uso della facoltà di conoscere", ossia un vaglio dei suoi limiti. L'illuminismo è il "tempo della critica, a cui tutto deve sottostare". La parola "critica" ci riporta, attraverso l'etimologia, all'immagine del tribunale, all'esame dei "pro" e dei "contro", ad una concezione dibattimentale della verità, ossia come risultato di un processo confutatorio, che era apparsa per la prima volta in Grecia, al tempo dei Sofisti. La critica, notava Michel Foucault, non è altro che "l'arte di non essere eccessivamente governati", e il modo per non essere governati "di più" è quello di mettere il potere in contraddizione con se stesso. Il principio di non contraddizione che sorregge l'analitica della verità dell'impresa filosofica implica il "dire contro" che trasforma la verità in verità critica. Oggi che i belli spiriti della società globale sembrano quasi infastiditi dall'essenza negativa della critica e che, dalla religione delle merci alla merce delle religioni, sempre più forti appaiono le seduzioni della verità oracolare dei vari persuasori non troppo occulti, è bene ricordare che non c'è critica - e, dunque, non c'è vera autonomia dell'individuo - senza un "esser-contro", senza un opporsi, senza una protesta. Il Novecento, che si era aperto fra i bagliori di ribellione, ancora vividi, del contro-potere degli intellettuali, chiamati a raccolta da Zola per l'"affaire Dreyfus", si è chiuso con il declino dell'intellettuale, con il suo assorbimento nelle strutture organiche del consenso alla Megamacchina globale, nell'ossequio dei luoghi comuni del pensare gregario, in quel "conformismo dell'anticonformismo" che viene abbondantemente contrabbandato dai "media" come espressione di libertà d'opinione. Così l'"essere-contro" diventa un giro di valzer e gli intellettuali dei "ballerini" che, come scriveva Kundera in un suo romanzo, piroettano, compiaciuti e incoerenti, da un contrario all'altro, senza rischiare più nulla. Perché "essere-contro" significa avere il coraggio di stare fino in fondo dalla parte del torto, dell'insuccesso, vuoi anche della sconfitta.

Dai bordi del mondo

Se dovessi redigere un manifesto degli studi per la filosofia, di quelli che oggi la cosiddetta riforma dell'Università pretende vengano stilati da ogni corso di laurea della repubblica, non mentirei. La filosofia non garantisce nessun profilo professionale. Neppure quello del professore di filosofia che, accade sempre più spesso, non ha nemmeno la laurea in questa disciplina. Nel "conflitto delle facoltà", come già lo chiamava Kant, la filosofia, per la sua povertà e inutilità strumentale, è destinata a soccombere. Medici, ingegneri, avvocati studiano per qualcosa che sopravanza i loro studi, mentre la filosofia è già ciò per cui si studia. Tuttavia, l'inutilità non deve trarre in inganno riguardo alla sua presunta inoffensività. I guerriglieri della filosofia, infatti, imparano a maneggiare l'arma più potente e radicale, quella del pensiero. Forse non è lontano il giorno in cui, come successe ai tempi di Giustiniano, l'imperatore chiuderà la scuola di Atene, cacciando i filosofi fuori dai confini dell'impero. "Il pensiero critico", scriveva Enrique Dussel, "sorge dalla periferia e finisce sempre per rivolgersi verso il centro". Periferici rispetto al centro dell'Ellade erano i pensatori presocratici delle colonie ioniche e dell'Italia meridionale. Il pensiero medievale emerge dalle frontiere dell'impero. Agostino viene dall'Africa del nord, i padri greci dall'Egitto, dalla Siria o dalla Palestina. All'epoca della rinascita carolingia sarà la remota Irlanda a guidare il rinnovamento del pensiero europeo. Non da Parigi, ma dalla provincia della Francia verrà Cartesio, mentre Kant nascerà nel più lontano avamposto dei cavalieri teutonici, Koenigsberg, l'attuale Kalliningrad russa. Anche fare filosofia in Sardegna, per esempio, potrebbe essere un modo di mettere a frutto l'eccentricità di quest'isola assoluta, di impiegare la sua "geofilosofia" per riflettere su un'identità futura, e non solo sulla memoria passata, retrograda, antiquaria, istituzionalmente pacificata. "Gli uomini lontani", proseguiva Dussel, "quelli la cui prospettiva va dalla frontiera verso il centro, quelli che devono decidere chi sono davanti all'uomo già fatto e davanti ai loro fratelli barbari, nuovi, quelli che sperano perché sono ancora fuori, tali uomini hanno la mente pulita per pensare la realtà. Non hanno nulla da nascondere. Come dovrebbero nascondere la dominazione se la soffrono?". E concludeva, "l'intelligenza filosofica non è mai così veridica, limpida, così precisa come quando parte dall'oppressione e non ha nessun privilegio da difendere, perché non ne possiede nessuno". La filosofia si attesta ai bordi del mondo, pronuncia il suo "preferirei di no" là dove nessuno può scalzarla. E' disciplina dell'eccentrico, dell'assurdo, del paradossale. Ma proprio sulla linea del margine sta il punto archimedico, il "contro", quel famoso punto d'appoggio che ci consente di sollevare il mondo, di rovesciare lo stato delle cose, di pensare oltre l'orizzonte, di costruire il nuovo nell'azzurro.

A. Tagliapietra, Esser contro in "XÁOS. Giornale di confine",
Anno I, n.1 2002, URL: http://www.giornalediconfine.net/n_precedente/art_1.htm



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