HOME > ARCHIVIO > L'ALMANACCO DELLA CRUDELTÀ
ANDREA TAGLIAPIETRA
La gola del filosofo
Il mangiare come metafora del pensare
Homo
animal edax
Nel
frontespizio del primo volume dell'"Almanach des Gourmands" di Grimond
de la Reynière, stampato nel 1804 a Parigi, è raffigurata una strana
e singolare libreria. Si tratta della biblioteca del goloso. Qui, sui lignei e
seriosi scaffali a muro rappresentati nell'incisione che, alti e profondi, giungono
fino al soffitto e fanno pensare al facile anacronismo di un gigantesco e capiente
frigorifero, trovano posto, accostate in luogo dei volumi rilegati in pelle e
oro zecchino, provviste alimentari d'ogni tipo. Ci sono il porcellino da latte,
il cappone, i salumi e i paté, liquori, formaggi e bottiglie di vino, boccali
di frutta sotto spirito, vasi di verdure sott'olio e sott'aceto, budini farciti,
panettoni e dolci ripieni. Al centro della stanza, una tavola imbandita di leccornie
sostituisce lo scrittoio dell'erudito, mentre dal soffitto, a mo' di lampadario
in vetro di Murano, pende un enorme e gustoso prosciutto. Leggere è mangiare,
scrivere è cucinare. Parola e cibo, sapere e sapore sono, nella nostra
cultura, circondati da un'aria di famiglia che lo stesso linguaggio si affretta
a testimoniare. Noi abbiamo "appetito" di conoscenza, "sete"
di sapere o "fame" d'informazioni. Noi "divoriamo" un libro,
"facciamo indigestione" di dati, "abbiamo la nausea" di leggere
o di scrivere, non siamo mai "sazi" di racconti, "mastichiamo"
un po' di inglese, "ruminiamo" qualche progetto, "digeriamo"
a fatica alcuni concetti, mentre "assimiliamo" meglio certe idee piuttosto
che altre. Noi ci "beviamo" una storia soprattutto se nel narrarcela
sono state usate parole "dolci", invece di condirla con "amare"
considerazioni, con battute "acide" o "disgustose", o, peggio,
con allocuzioni "insipide" e "senza sale". Non a caso le storielle
più "appetitose" sono quelle infarcite di aneddoti "pepati",
di descrizioni "piccanti" e, vuoi anche, di paragoni "gustosi".
Ecco allora che a partire dall'analogia fra il nutrimento del corpo e il nutrimento
della mente è possibile riconsiderare il rapporto, in verità non
troppo sotterraneo, fra il cibo e il pensiero. Fra le cose che distinguono l'uomo
dagli altri esseri viventi vi è il particolare legame che egli, sin dall'inizio
della sua storia, ha istituito con il cibo. Gli animali si nutrono, l'uomo mangia
e, nel mangiare, non si accontenta di consumare gli alimenti, ma insieme li pensa,
ha, cioè, nei confronti dei cibi, un rapporto eminentemente simbolico.
Il detto "parla come mangi", al di là dell'invettiva del luogo
comune, rivela un fondo di verità difficilmente smentibile. La cultura
umana si specchia, infatti, tanto nelle parole del linguaggio che dalla bocca
escono, quanto in quegli alimenti e in quelle pietanze che nella bocca, invece,
entrano. Se l'atto biologico di mangiare è sempre anche un atto simbolico,
la prima sfera che il cibo incontra è quella religiosa. Nel sacrificio,
come ci insegna il mito greco di Prometeo, è in ballo la stessa ripartizione
delle risorse alimentari fra gli dèi e gli uomini. Allora, Prometeo non
è soltanto colui che consegna agli uomini il dono del fuoco, ma anche il
benefattore che, ingannando gli dèi con il fumo delle ossa, delle pelli
e del grasso delle vittime sacrificali, consente agli uomini di cibarsi delle
carni degli animali uccisi senza commettere sacrilegio. Nelle culture tradizionali,
dietro all'aspetto rituale del mangiare vi è sempre l'ombra del sacrificio.
Un sacrificio che stabilisce le regole alimentari, determinando i codici di ciò
che è puro e di ciò che è impuro, di ciò che è
lecito e di ciò che è tabù. Un sacrificio che doveva riguardare,
all'inizio, lo stesso impiego e, in seguito, la sostituzione della vittima umana
(remota testimonianza, forse, di un pasto cannibalico), come sembrano documentare
i miti paralleli di Ifigenia, nella cultura greca, e di Isacco, in quella ebraica.
Ma l'intrinseco simbolismo religioso del cibo si riflette sia nelle culture del
sangue e della carne, che nelle culture prevalentemente vegetariane, come quella
del riso. Già nel "Milione" Marco Polo raccontava dell'esistenza,
in Cina, di ben 54 tipi di riso. In giapponese "gohan", significa "riso
cotto", "pranzo" e "buon appetito", attestando la coincidenza
di quest'alimento con la sfera dell'alimentazione tout court. In ogni chicco di
riso si ritrova, così, l'anima della Dea Madre, che presiede alla fecondazione
e alla generazione degli uomini. Questi ultimi, per non offenderla, avranno l'accortezza
- a tutt'oggi ancora in vigore, in Oriente -, di cuocere il riso lontano dai campi
in cui è stato colto. Il rapporto con il cibo come fonte di vita spinge
l'uomo all'osservanza e al rispetto della natura. Anche quando, come nella cultura
eschimese, l'unica fonte alimentare, o quasi, è rappresentata dalla carne
degli animali, questo fatto è motivo di seria apprensione e di timore.
"La vita è esposta ad un grande pericolo", dicono gli inuit della
Groenlandia, "perché la nutrizione umana è basata sul consumo
di anime". In questa prospettiva, la comparsa del pensiero filosofico, anche
nella simbolica del cibo, sovverte laicamente il grande paradigma sacrificale
della religione. Dal punto di vista più generale la filosofia è
attività essenzialmente autofagica, autocannibalica.
Cibo
e filosofia
Nelle
antiche raffigurazioni iconografiche la filosofia era rappresentanta come un'orsa
colta nell'atto di divorarsi la zampa. Questa figura era simbolo dell'autosufficienza
della disciplina che, come recitava il motto che spesso si accompagnava all'immagine,
"ipse alimenta sibi", "trae da se stessa il suo proprio nutrimento".
Tuttavia, al destino autofagico della filosofia può fungere da divertente
appendice aneddotica l'esame di quello che già Michel Onfray chiamava "il
ventre dei filosofi". Guardare i filosofi dal punto di vista della pancia,
infatti, può riservare qualche divertente sorpresa. Per esempio, Platone
era ghiottissimo di fichi secchi e olive, che divorava anche all'Accademia, fra
una lezione e l'altra. Se Platone preferiva, per così dire, degli stuzzichini,
le abitudini alimentari di Aristotele dovevano essere, indubbiamente, più
ricercate dal momento che la tradizione ci dice che avesse una ricchissima collezione
di pentole. Le prime prescrizioni dietetiche in filosofia risalgono tuttavia a
Pitagora che, circa un secolo prima di Socrate e Platone, per i seguaci della
scuola pitagorica aveva prescritto una dieta prevalentemente vegetariana, a base
di verdure cotte e crude, sale, pane, acqua pura, vietando assolutamente il consumo
del pesce fragolino, del melanuro, della matrice, della triglia, del cuore degli
animali e delle fave. Epicuro, invece, pare debba la cattiva nomea dell'epicureismo
non solo al frutteto dove si incontrava con i suoi discepoli - il Giardino che
diede nome alla sua scuola -, quanto al suo debole per il formaggio cotto in una
pentolina, una specie di fonduta valdostana ante litteram. Diogene e i cinici
furono gli inventori del "fast food", perché per primi predicarono
la necessità di consumare i cibi per strada e in piazza, senza troppe cerimonie
né preparazioni, nutrendosi contemporaneamente (e quindi, si suppone, in
una forma che ricorda il moderno sandwich o il panino) del pane che faceva da
piatto e del companatico che esso conteneva, in genere una manciata di lenticchie
o di lupini, fichi secchi o olive. Di Zenone di Cizio, caposcuola degli stoici,
è nota la predilezione per i fichi verdi, il miele e il vino. Di quel Carneade
su cui s'interrogava il don Abbondio manzoniano, che fu uno scettico in seno alla
scuola platonica, non conosciamo i gusti alimentari, ma sappiamo che era solito
farsi imboccare da una schiava, perché, tutto assorbito dai suoi pensieri,
dimenticava persino di portare il cucchiaio alla bocca. Per venire a tempi più
recenti è nota l'assoluta predilezione di Kant per la senape, con cui insaporiva
i pranzetti che, a detta dei biografi, il filosofo era solito preparare per gli
allievi più cari. Ma il debole di Kant era il caffé, di cui, nonostante
temesse gli effetti nocivi, si concedeva ben due tazze ogni mattina. Fra i secondi
la predilezione di Kant andava senza dubbio al baccalà, di cui, anche quand'era
sazio, non disdegnava di "fare il bis", magari con il piatto "fondo"
ben pieno. A detta dei biografi, poi, Kant a tavola, lungi dall'intrattenere i
commensali con discorsi filosofici o sulla rivoluzione che, in quegli anni, era
all'"ordre du jour", preferiva discettare, con minuziosa precisione,
sulle pietanze e sulle loro ricette che, se invitato, non esitava a richiedere
insistentemente ai padroni di casa. Altra cosa, di certo, rispetto a quei fiocchi
d'avena di cui, a quanto pare, si nutriva quasi esclusivamente l'ascetico Wittgenstein.
Completamente digiuno di cucina era, al contrario di Kant, il buon marchese di
Condorcet, la cui scarsa confidenza con pentole e pignatte fu, a suo modo, fatale.
Durante la fuga dalla ghigliottina, infatti, il blasonato "philosophe"
del progresso infinito dell'umanità giunse sfinito ad un'osteria di campagna
e, per rifocillarsi, chiese allo stupito avventore un'omelette di ben dodici uova.
L'oste, insospettito, lo consegnò subito alle "cure" dei sanculotti.
Sulla predilezione dei filosofi per la bevanda dionisiaca per antonomasia ci sarebbe,
poi, molto da dire - Massimo Donà, di recente, ce ne ha dato ampio assaggio
con la sua "Filosofia del vino" -, cominciando da quel buon rosso (non
si sa se fosse un Bourgogne, in onore della Révolution, o un nostrano Barolo,
come anche poco prima di morire Hans Georg Gadamer confidava di preferire) che
Hegel stappava ogni 14 luglio, per ricordare la presa della Bastiglia, e ogni
31 ottobre, per commemorare l'inizio della Riforma protestante, o dal rosso bordolese
del quale Montesquieu in persona curava la vendemmia. Ma non avendone lo spazio,
ci limitiamo a ricordare quella del religiosissimo Kierkegaard, che associava
volentieri il vino al pollo (arrosto o lesso non ci è dato sapere). Più
vicina a noi va ricordata la passione di Martin Heidegger per il "Kartoffelsalat"
e, in negativo, l'assoluta imperizia di Ernst Cassirer in cucina. Entrandovi forse
per la prima volta durante un'influenza della moglie, il filosofo delle "forme
simboliche" mise a scaldare il latte sul fuoco con tutta la bottiglia, producendo
una disastrosa esplosione che, negli ambienti accademici tedeschi, fa ancora sorridere.
Cucina
e filosofia
Per
Francesca Rigotti, autrice di un prezioso e delizioso volumetto su "La filosofia
in cucina. Piccola critica della ragion culinaria", cucinare significa seprarare
e ricomporre, in forme ordinate e secondo rituali precisi, le materie prime che
compongono i cibi. Alla presenza del fuoco che, come lo spirito, "solvet
et coagulat", gli elementi si uniscono e si dividono, le cose si assimilano
o si separano fra loro. La cucina non è un universo caotico, in cui tutto
e il contrario di tutto possono essere mischiati, come in un unico calderone ove
cuoce il terribile minestrone del brodo universale. La cucina, scrive Rigotti,
è, invece, un "sistema chiuso", dotato di rituali e regole precise,
che vanno rispettate, oppure violate, ma solo dopo esser state ben apprese. Queste
regole e questi rituali si chiamano ricette. Le ricette sono, in cucina, ciò
che per Platone, in filosofia, erano le idee, ossia modelli intellettuali, dotati
di una loro forma e di una loro conoscibilità specifica. Mediante le ricette
i piatti acquistano l'universalità dell'originale: sono, cioè, identificabili
e riproducibili. Guardando alle ricette così come il demiurgo guarda alle
idee, il cuoco può sfornare un'illimitata teoria di copie alimentari, assicurando
una stabilità e una riconoscibilità dei piatti e delle portate.
Fra gli appunti di Kant che precedono la stesura della "Critica della ragion
pura" ve n'è uno che afferma che "nel gusto ognuno di noi ha
il modello o l'idea originale in testa". Ma il fondamento che cucina e filosofia
hanno in comune, sin dalla più antica metafisica greca, è quello
che la totalità di qualcosa non coincide con l'enumerazione delle parti
che la compongono. Così come il risultato di un piatto, per esempio un
timballo o un soufflé, è superiore alla semplice addizione dei suoi
ingredienti, anche il tutto è superiore alla mera somma delle parti. "L'uva
passa", scriverà Wittgenstein in un efficace aforisma culinario dei
suoi "Pensieri diversi", "può anche essere quanto vi è
di meglio in una torta; ma un cartoccio di uvette non è migliore di una
torta; e chi ce ne offre un cartoccio pieno non per questo sarà in grado
di cucinarci una torta - e tantomeno di fare qualcosa di meglio". In greco
il cuoco si dice "màgheiros", "colui che impasta",
da una radice "mag" che risuona nel nostro "mangiare", ma
soprattutto nel tedesco "machen" e nell'inglese "to make",
ossia nel più generico "fare". Se i manuali di storia della filosofia
ci presentano il primo grande dilemma del pensiero occidentale consumarsi intorno
al problema dell'uno e del molteplice, con la tenzone fra i cuochi-filosofi di
scuola eleatica, come Parmenide, o di scuola ionica, come Eraclito, sulla questione
non esiterà a schierarsi neppure la cucina comune. Ci sono, infatti, piatti
pluralisti per antonomasia, come, per fare un esempio, la macedonia di frutta,
la paella, il cous-cous o una buona insalata mista, mentre nella trippa, nella
cassoeula, nel passato di verdura, nelle tortillas o nella frittata di cipolle,
gli elementi del molteplice si fondono gli uni con gli altri, mescolando sapori
ed odori in unica ed armonica sintesi. Inutile dire che in cucina come in filosofia
l'Occidente ha sempre preferito la soluzione monista e la culinaria magnifica
l'assimilazione, piuttosto che la separazione. Sarà forse per questo che
Jean-Paul Sartre, nel descrivere il difetto prevalente del pensiero occidentale,
parlerà di "filosofia alimentare", di "filosofia digestiva"
che deglutisce e assimila le cose, privandole della loro corposità. Contro
questo paradigma del pensiero Sartre indicherà la fenomenologia di Husserl,
antidigestiva per eccellenza, che ci strappa dalla "nera intimità
gastrica" degli stomaci di coloro che intendono la conoscenza come possesso,
consentendo di vedere "le cose stesse" all'aperto, fuori dalla coscienza.
Digestiva per eccellenza è, invece, la filosofia di Hegel, che nel processo
dialettico e nella conoscenza del soggetto vede in opera lo stesso meccanismo
della digestione dei cibi, così com'era stato riassunto da Spallanzani
e dalle osservazioni della moderna fisiologia medica: "l'organismo assorbe
immediatamente, in quanto potenza universale, il cibo ingoiato, ne "nega"
la sua natura "relativamente" inorganica e lo pone come identico a sé,
cioè lo as-simila". In tempi di cibi transgenici e polpettoni fast-food,
questa assimilazione-incorporazione dell'oggetto-cibo al soggetto-mangiatore non
può non destare qualche preoccupazione. Di qui la "nausea" del
filosofo, come ci insegnerà il fortunato romanzo di Sartre, che oppone
al mondo vischioso, molle e dolciastro dell'esistenza, simile ai Big Mac e all'Apple
Pie che ci spacciano i McDonald's, la coriacea durezza della coscienza, la sua
croccante semplicità. Croccante come i cracker di Wittgenstein, che interrompevano
i frequenti digiuni dell'autore del "Tractatus logico-philosophicus".
Sì, perché filosofia e culinaria possono anche opporsi radicalmente,
come sosteneva Platone nel "Gorgia", in quanto, mentre la filosofia
ha per mira il benessere dell'anima mediato dalla conoscenza, la culinaria mira
solo al piacere del corpo e procede per tentativi. Essa è paragonabile,
quindi, a tutta una serie di pseudo-arti, come la ginnastica, la cosmetica e soprattutto
la retorica. Arti senza conoscenza, che lusingano i nostri sensi, ma che spesso
sono controproducenti per la nostra salute. Così la filosofia sta alla
retorica come la dietetica medica sta alla gastronomia e come la politica sta
alla demagogia: in poche parole, come l'anima razionale sta all'oscurità
del ventre. Il filosofo ghiottone è, quindi, quasi una contraddizione in
termini, ed è tutta qui l'origine della cattiva fama che, nel Medioevo,
dovette scontare Epicuro, semplicemente per essersi limitato ad affermare che
"principio e radice di ogni bene è il piacere del ventre".
Golosità
e filosofia
Benché
Dante li sprofondi nel terzo cerchio dell'Inferno, prostrati nel fango e sferzati
da una pioggia fetida mista d'acqua, grandine e neve, i golosi non paiono, agli
occhi della sensibilità moderna, imputabili di una così grave mancanza.
La golosità, da peccato capitale meritevole di eterna pena è divenuta,
per gli uomini dell'inizio del terzo millennio, il condimento veniale di tutte
le età della vita. Semmai, la "dannosa colpa della gola", come
la chiamava l'Alighieri nella "Divina Commedia" non è più,
al giorno d'oggi, un errore morale, quanto un'infrazione dell'ordine estetico.
Agli imperativi etici delle società della fame e della penuria, la moderna
civiltà dei consumi ha sostituito, da tempo, le prescrizioni, talvolta
altrettanto ferree e vincolanti per le esigenze della moda e del pubblico apparire,
della dietetica. Il pensiero medievale giudica la gola una forma particolare di
intemperanza dei sensi. Se la lussuria è il peccato della carne inerente
all'eccesso nella sfera sessuale, la golosità è il peccato della
carne che riguarda l'eccesso nell'ambito alimentare. Si tratta di una colpa che
avvilisce l'uomo alla condizione bestiale, appiattendolo a livello della semplice
materia. A differenza del lussurioso, che ha bisogno del prossimo almeno come
oggetto di piacere, il goloso sembra ignorare ogni altra umanità, concentrandosi
egoisticamente sul referto di quei sensi - il tatto, l'odorato e, ovviamente,
soprattutto il gusto - che lo mettono in relazione con il cibo.
Detto ciò,
tuttavia, i moralisti del Medioevo si videro alle prese con una difficoltà
aggiuntiva rispetto al caso esemplare della lussuria, contro la quale, forti dello
stato celibatario di monaci e chierici, potevano sempre predicare la continenza.
Al di là della pratica eccezionale del digiuno, nella sfera alimentare
emerge, infatti, l'esigenza ineludibile di discernere, data la necessità
fisiologica del nutrimento, fra bisogno e desiderio. Come scriveva Tommaso d'Aquino
nella "Summa Teologica", "poiché al mangiare è connesso
necessariamente il piacere, non si riesce a distinguere ciò che è
richiesto dalla necessità da ciò che vi aggiunge il piacere".
Nell'atto di mangiare, scrive san Tommaso, noi soddisfiamo due tipi di appetito,
l'"appetito naturale", a cui appartengono le sensazioni primarie della
fame e della sete e l'ambito fisiologico del bisogno, e l'"appetito sensitivo",
che presiede al desiderio dei cibi e dei gusti, e i cui stravizi vanno a costituire
il peccato della gola. La distinzione formulata da san Tommaso permette di separare
le sorti del goloso da quelle dell'ingordo. Se l'ingordigia è l'eccesso
quantitativo della fame e, quindi, l'insaziabilità dell'appetito naturale,
la golosità ha a che fare, piuttosto, con l'affinamento qualitativo dei
sensi. La gola non si appaga per la materialità del cibo, ma per l'esaltazione
sfrenata delle sensazioni del palato che sfuggono al controllo e alla moderazione
della ragione. L'autore della "Summa Teologica" parrebbe incline a considerare
la gola un peccato veniale, anche se le sue conseguenze possono essere mortali.
È questa, invece, l'opinione di san Giovanni Crisostomo, che all'intemperanza
del mangiare riconduce lo stesso peccato originale. Cosa fu, infatti, la colpa
di Adamo, se non il desiderio di assaggiare un frutto, quello dell'albero della
conoscenza del bene e del male, che Dio gli aveva proibito? Dunque, l'intemperanza
alimentare può, per i suoi effetti secondari, trasformarsi nel più
grave dei peccati. Prova ne è che, talvolta, essa viene punita da Dio con
il castigo immediato della malattia, dal momento che la golosità spesso
nuoce alla salute del corpo. Dalle remote pagine degli autori medievali emerge,
anticipata nell'abbozzo di questa specie di giustizia immanente, la traduzione
del peccato etico della gola nella colpa dietetica - medica ed estetica - dei
moderni. Essere golosi è un modo di stare al mondo che si compone di godimenti,
desideri, sensazioni, ma soprattutto di parole, rappresentazioni e fantasmi. Nella
bocca cibo e parola, si diceva, s'incrociano in un complesso intrico di ordini
simbolici, di echi e di rimandi. Come non dare ragione a Gisèle Harrus-Révidi
quando, nella sua "Psicanalisi del goloso", ella rileva l'estrema elaborazione
linguistica, la raffinata capacità descrittiva del "gourmet",
l'inevitabile pratica della parola, la letterarietà intrinseca presupposta
alla nascita della gastronomia. Il piacere del goloso, nota la Harrus-Révidi,
è un piacere simbolico, che si sviluppa in due direzioni. La prima direzione,
quella dell'arte culinaria sofisticata, è "estetica" e si esprime
in termini di riflessione teorica e giudizio di valore sul livello di qualità
del piacere del palato. È l'inclinazione del "gourmet" che, come
scriveva Brillat-Savarin nella sua celebre "Fisiologia del gusto", permette
di "cogliere il particolare sapore della coscia sulla quale la pernice si
è appoggiata nel sonno". La seconda direzione è "affettiva"
e riguarda quel gusto inimitabile, legato alla quotidianità e all'ordine
dei rapporti affettivi, che Proust sintetizzava nel ricordo emblematico del dolce
della "madeleine" e del suo profumo. La figura del goloso ci permette
così di individuare nel nesso fra il cibo e la parola, fra il piatto e
la sua immagine fantasmatica, la nostalgia figurale di un rapporto diretto, di
un contatto materno, immemoriale e originario, con il nutrimento e la sua rassicurazione.
Dietro tutte le utopie sociali e politiche, dietro ogni terra promessa dove, non
a caso, scorrono sempre latte e miele, c'è l'utopia alimentare di quell'identità
assoluta e perfetta che ripristina l'unione con il seno materno, con il cibo tradizionale,
con i buoni sapori genuini. La vocazione della filosofia ha, a ben vedere, molte
tangenze con questa duplice declinazione, estetica e affettiva, della golosità
quale ricerca di sublime autosufficienza e insieme di assoluta originarietà:
di raffinato gioco linguistico e di scavo nell'ineffabilità dell'immemoriale.
Anche quando è spinta verso ascetici e continenti propositi, la gola del
filosofo continuerà a nutrirsi di cibi, seppure solo "in figuris",
come nelle metafore del "pane della verità", delle "parole
di latte", dell'"uovo cosmico", dell'"in vino veritas"
e, vuoi anche, per gli amanti dei superalcolici, della fenomenologia dello "spirito".
Allora, il pericolo sarà, semmai, come già aveva intuito Aristotele
nell'"Etica nicomachea", che, per la prossimità della gola con
la parola, il vizio si trasformi per contiguità, e la golosità del
filosofo si traduca nell'ingordigia, ovvero nell'irrefrenabile loquacità
del chiacchierone.
A. Tagliapietra, La gola del filosofo. Il mangiare come metafora del pensare, in "XÁOS. Giornale di confine", Anno IV, N.1 Marzo -Giugno 2005/2006 URL: http://www.giornalediconfine.net/n_4/1.htm