Il libro di Andrea Tagliapietra
affronta il tema della menzogna attraverso la storia del
pensiero occidentale, un argomento spinoso, non solo per
la sua vastità e ampiezza, ma anche per i risvolti
concettuali e teoretici. Il saggio, infatti, non si limita
ad introdurre in una tabella i filosofi che parlano o trattano
della bugia, ma riflette sul concetto stesso di menzogna,
sul suo inevitabile rapporto con la verità sulle
difficoltà inerenti ad un sistema comunicativo che
bandisca, in maniera assoluta, la bugia, sulla capacità
d'immedesimazione nell'altro da parte del bugiardo. Alcuni
di questi temi, come quello dell'identità e del riconoscimento
di se stessi e degli altri, erano già comparsi in
altri lavori precedenti (cfr. La metafora dello specchio,
Feltrinelli, Milano 1991 e lo scritto su I. Kant, B. Costant,
La verità e la menzogna, Milano 1996), ma in questa
nuova trattazione il discorso introduce nuove problematiche,
rivelando sia la menzogna che ha a che fare con le cose,
la verità o meno di un discorso, sia quella sui noi
stessi.
Per raccontare una bugia devo necessariamente sapere la
verità (o una verità) e cercare di occultarla
a chi mi sta di fronte o, nel caso limite, a me stesso,
inventando una storia. Questa capacità di creare
qualcosa di simile alla realtà, ma allo stesso tempo
di diverso, fonda i rapporti sociali, in quanto non è
sufficiente la pura elaborazione, è necessario anche
che io comunichi a qualcuno questa invenzione. Le motivazioni
di tale gesto possono essere fondamentalmente due: una bugia
fine a se stessa (per gioco), o per ottenere qualcosa di
più (per ingannare). Nel primo caso si ha la dimensione
letteraria, i romanzi, le avventure di personaggi inventati
che vivono in un universo così vicino e allo stesso
tempo lontano da quello della nostra realtà quotidiana,
in una parola: verosimile. Il secondo è l'ambito
dell'inganno per avere un vantaggio personale, un avere
di più che la sola nostra dotazione naturale non
sarebbe in grado di garantire.
Emblema di quest'atteggiamento nei confronti della vita
è la figura di Ulisse. Durante le sue peregrinazioni
in giro per il mediterraneo, viene delineato un individuo
ambiguo che non mente solo per salvare la propria vita e
quella dei compagni, come potrebbe sembrare ad un primo
sguardo, ma anche per il semplice gusto della menzogna.
Dall'analisi di questo mito emerge, quindi, la possibilità
che il dispositivo della menzogna non si arresti sulla semplice
posizione dello stato di necessità, mento per non
soccombere, ma rivela, invece, il bordo di un precipizio
oscuro "il continuo voler-avere-di più che,
tuttavia, nessuna necessità è in grado di
mascherare" (AndreaTagliapietra, Filosofia della bugia,
Mondadori Milano 2001, pag. 126).
Tuttavia, non è solo Ulisse a mentire. La bugia compare
in un luogo apparentemente insospettabile: il giardino dell'Eden.
Mente Eva, mente Adamo ma anche Dio, in qualche modo, non
dice la verità o, quantomeno, non dice "tutta"
la verità che potrebbe dire. Il precetto biblico:
" Tu potrai mangiare di tutti gli alberi del giardino,
ma dell'albero della conoscenza del bene e del male non
devi mangiare, perché quando tu ne mangiassi, certamente
moriresti" (Op. cit. nota 3 pag.127) in realtà,
non si avvera immediatamente; l'uomo, quindi, non muore
per aver mangiato il frutto dell'albero proibito ma perché,
una volta caduto nella colpa, non mangia più il frutto
dell'albero della vita e, di conseguenza, diviene mortale.
Questa piccola imprecisione, che potrebbe anche apparire
un'omissione, rivela il tratto di un Dio-verità che
chiede implicitamente fedeltà incondizionata: "
Nella scena dell'Eden ciascuno dei protagonisti rifiuta
il dono della fiducia e della reciprocità con l'altro,
isolandosi in un se stesso che, privo dell'alterità
e dello scambio, non è in grado di assumere la pienezza
consapevole della propria identità. (Op. cit. pag.135).Nei
capitoli successivi il discorso s'infittisce in quanto entra
in scena Socrate ed il problema della sincerità.
La "parresia", in altre parole letteralmente il
"dire tutto", essere quindi sinceri fino in fondo,
s'innesta indissolubilmente con la vita, con il proprio
rapporto con gli altri e, soprattutto, con il potere. Socrate
viene condannato a morte dalla sua stessa città,
dai suoi stessi concittadini; avrebbe potuto fuggire, trovare
facilmente una scappatoia ma non ha voluto farlo. Questa
azione, infatti, avrebbe contraddetto tutto ciò che
fino a quel momento Socrate aveva detto e fatto. Il dire
la verità del filosofo, quindi, presuppone la messa
in gioco della vita come garanzia. Non basta dire la verità,
bisogna anche metterla in pratica; la veridicità
si configura, allora, come il presupposto perché
quella verità "sia", cioè la dimostrazione
che quella verità ha a che fare con la vita fino,
in questo caso, a coincidervi. Platone rifletterà
costantemente sui motivi che avevano portato alla morte
del maestro e la stessa struttura dei dialoghi può
far capire come non sempre si possa dire tutta la verità,
ma che sia necessario scrivere tra le righe, adottare un'altra
strategia. Anche Aristotele, in qualche modo, inserisce
la menzogna e quindi la veridicità in un discorso
che si inserisce nella vita ed ha uno stretto contatto con
essa. Nel suo pensiero, infatti, vengono agganciate "
l'amicizia per la verità" e la sincerità
in un dispositivo equilibrato che rifiuta gli estremi: bisogna
essere veritieri ma nel modo corretto, né sotto stimando,
l'atteggiamento dell'ironico che dice di meno di quanto
in realtà è, né sopravvalutando, il
millantatore, colui che dissimula in vista di un fine particolare.
Il centro, lo stare nel mezzo, assume ancora una volta un
ruolo fondamentale: solo così si può essere
cioè che si è veramente, senza aumentarsi
né diminuirsi i meriti. Riaffiora, quindi, uno dei
temi centrali del libro, quell'avere-di-più dell'uomo
che desidera un'infinità di cose e finisce per perdersi
dentro questo vortice portando al nulla. La soluzione antica
sarà quella di contrapporre l'illimitato dell'avere
al limite dell'essere, soluzione che troverà un completamento
effettivo nella posizione del saggio stoico.
Altro grande problema, quindi, è quello dell'autenticità,
come sia possibile essere sempre se stessi, dire ciò
che si pensa, fare ciò che si dice, essere, appunto,
ciò che si è; nel medioevo Agostino rifiuterà
ogni tipo di menzogna, ad eccezione forse di quella per
gioco, (l'interlocutore in questo caso è consapevole
dell'inganno) in quanto l'uso della verità è
un uso egoistico, mi nascondo agli altri, ma, soprattutto,
interrompo la comunicazione con Dio: non godo della verità,
ma mi serve per ottenere un vantaggio personale. Comincia
a fari strada, inoltre, il concetto d'intenzionalità
nel mentire, arricchendo la complessità della bugia,
rispetto alla dimensione antica, in quanto la struttura
mente-parola diventa struttura-mente-parola, cercando una
distinzione tra colui che semplicemente sbaglia e colui
che dice il falso. Bisogna sempre essere sinceri, anche
nel caso limite in cui degli ipotetici assassini ci chiedessero
dove fosse rifugiato un nostro amico per ucciderlo (anche
se, in questo caso, Agostino ammette che, pur dovendo dire
sempre il vero, non sia necessario dire tutta la verità
che si conosce).
Questa piccola eccezione rivela come sia molto difficile
essere sinceri e, di conseguenza autentici, sempre e comunque
in ogni situazione, indirizzando la questione su una possibile
insolubilità.
L'autore, passando per Montaigne, Cartesio e Rousseau approderà
a Kant, in cui le due linee (quella della sincerità
e dell'autenticità) si riannoderanno in maniera totale;
tuttavia, l'autore del libro chiarisce come questa possibilità
sia sostanzialmente impossibile, in quanto si vuole coniugare
il principio d'identità o di non contraddizione anche
alla sfera dell'agire quotidiano, in una soluzione d'assoluta
trasparenza che risulta, però solamente formale.
Il problema, infatti, si concentra sul dovere di dire sempre
la verità, ma in realtà non tutto ciò
che si ritiene vero poi è realmente vero. In sostanza,
la veridicità assoluta si trasforma in una verità
che in quel momento a me sembra tale, ma che potrebbe anche
non essere così, rivelando come il soggetto possa
parlare di una cosa ma in realtà intenderne un'altra.
E questo non è propriamente quello che si dice "dire
sempre la verità". Kant promette, quindi, un'assoluta
coincidenza tra sincerità ed autenticità che,
tuttavia, può esistere solo in una dimensione formale,
in cui il contenuto è solo promesso e non poi mantenuto.
La conclusione che viene tratta è l'impossibilità
di concepire l'autenticità come semplice e pura identità:
io sono uguale a me stesso.
Tale concetto verrà sottolineato nella trattazione
riservata a Sartre, che distingue due ambiti ben precisi:
il modo di essere della cosa, cioè il modo dell'in
sé, al quale corrisponde il principio di non contraddizione,
dell'essere ciò che si è; il modo d'essere
dell'esistenza, cioè il modo del per sé, al
quale corrisponde il principio di contraddizione, dell'essere
ciò che non si è, oppure del non essere ciò
che si è. Dire, quindi, essere come si è,
significa far scivolare il principio di non contraddizione
nell'esistenza, ma, così facendo, la malafede dovrebbe
essere impossibile, perché noi siamo sempre quelli
che siamo, non si potrebbe dare altrimenti. Anche nel caso
in cui questo fosse una tendenza e non una coincidenza immediata,
non sarebbe comunque possibile in quanto noi apparteniamo
alla dimensione della contraddizione. È ipotizzata
una dimensione in cui non sia la sincerità la figura
più propriamente conforme all'ideale d'esistenza
umano, quanto piuttosto quella della malafede, dove in realtà
noi siamo ciò che non siamo in quanto solo in questo
modo possiamo salvare la nostra libertà ed essere,
in questa modalità, "autentici".
L'autore, quindi, analizzando le varie figure della menzogna,
dimostra la problematicità della verità, non
solo astratta, ma che coinvolge anche la nostra vita; la
dimostrazione dell'originaria dualità dell'esistenza,
la cui negazione ha portato alla estremizzazione del soggetto
isolato e all'incapacità di aprirsi veramente all'altro.
Saverio Zuppani, Filosofia della Bugia, di Andrea Tagliapietra,
in "XÁOS. Giornale
di confine", Anno I,
n.3 2002-2003, URL: http://www.giornalediconfine.net/n_3/art_24.htm
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