Alla prudenza invita l'autore del saggio in questione. Alla
prudenza e alla sobrietà nell'apprestarsi alla lettura
di questa opera; come se già nella premessa abbia
voluto scoraggiare il lettore poco attento e mettere in
guardia colui che ha un minimo di dimestichezza con la materia.
Eppure la fluidità dei primi capitoli, la scrittura
semplice ed asciutta (a riprova che si può scrivere
di filosofia in Italia evitando certi stili gonfi di tecnicismi
e di termini iperdifficili, che sono per lo più inutili
e pleonastici, se non per l'autocompiacimento dell'autore
stesso) indurrebbe codesto saggio ad una facile assimilazione.
In effetti l'autore sviluppa una struttura nella quale le
parti armoniche, quelle dove anche argomenti di difficile
comprensione acquistano una sorprendente familiarità
alla lettura, subiscono improvvise accelerazioni per inerpicarsi
in vette che solo a pochi è dato contemplare. Solo
a chi riesce di non smarrirsi questo saggio si apre, anche
perché esso, curiosamente, vive oscillando tra la
meta e il cammino che per essa si intraprende. In questo
lavoro non si circumnaviga nel pensiero di un singolo autore
per poi farlo interagire nel confronto con altri sistemi
di pensiero- come è il caso dei tre lavori precedenti
del Nostro- ma bensì si abbracciano una serie di
motivi e argomentazioni, che chi ha la fortuna di avere
a disposizione gli altri testi dell'autore troverà
quest'ultimo non un corpo estraneo, ma l'ampliamento dei
percorsi e della tematiche precedenti. La proposta filosofica
dell'autore prosegue dunque costeggiando un territorio affascinante
e pericoloso come l'estetica moderna. Ma non di non una
storia dell'estetica si tratta, non è una vaga ricognizione
sui momenti che hanno caratterizzato l'estetica nei secoli
successivi al Medioevo; l'intento non è un passare
in rassegna, ma bensì un trapassare l'immaginario
estetico occidentale alla luce dei motivi su cui esso si
fonda, o meglio e scusandomi per il bisticcio di parole
: alla luce di ciò che dà luce all'opera d'arte.
Già nella premessa si mettono in chiaro le cose :
"Il presente studio abusa del lavoro teorico di due
metafore : l'Eclair e la Lichtung"; si cerca quindi
di delineare il visibile pittorico intorno "a due specie
di categoriali filosofici", ovvero "due economie
del visibile che hanno alle spalle due mappe genetiche".
L'autore penetra con forza nei tessuti storico-temporali
cercando di svelare le trame più nascoste in cui
si annidano gli ordinamenti del visibile che imperano in
una civiltà. Il crollo delle architetture medioevali
sotto i colpi della critica all'aristotelismo da parte di
Campanella e dei naturalisti, la fine della res publica
christiana e l'affermarsi degli stati nazionali porta al
prosciugamento della Claritas come culmine dei trascendentali,
l'opera d'arte vive una nuova stagione: con la scoperta
della prospettiva e l'uso dei mezzi-toni pittorici si ha
un ritorno all'opera intesa come mimesis, un ritorno a cui
la grecità non è estranea. D'altronde lo stesso
Tetrarca, colui che inaugura la modernità, col metodo
filologico tende a equiparare i Padri della Fede con i classici
del mondo pagano; si diffonde il culto ermeneutico. La modernità
vive la stagione del genio, Cartesio gli fornisce un nuovo
soggetto.
All'autonomia dei testi rispetto ai loro autori nel Medioevo
si contrappone il culto della personalità dell'opera,
all'occhio che oscilla senza presa nella visione di un'icona
bizantina si sostituisce l'occhio immobile nella calda e
seducente contemplazione dell'opera moderna. A tutto ciò
si unisce il grande momento della Riforma; il Medioevo che
cercava di salvaguardare le delicate vertenze trinitarie
con la mediazione ecclesiale tramonta definitivamente sotto
le spinte sempre più violente che dal XIV secolo
sfoceranno nel luteranesimo: il fedele è solo col
testo sacro. Il pulchrum sarà sovrastato dal verosimile,
armonica fusione di finito e infinito che si affida a una
nuova matrice del visibile, una luce che il Medioevo non
conosceva: quella del concetto. La dorsale moderna, che
conoscerà un momento di frattura nel barocco, vive
nella potenza della Lichtung, quel polo del visibile che
l'autore individua nel binomio Hölderlin-Heidegger,
nella quale "le cose sono nel bordo-limite che delimita
da un fondo", matrici che generano confini, confini
che generano nazioni. Dialettica del limite, che intravede
la sua fine in Hegel, "la sua filosofia dell'arte è
la geniale maturità di un'intera tradizione".
Ma non è la fine dell'arte perché "ciò
che si conclude nei primi decenni del Novecento è
infatti il ciclo dell'Opera che inizia col declino medievale"
ed essa "può avere altri ordinamenti di Vero
e di Bello". Ordinamenti neo-medioevali e direzioni
americane. Essa si apre secondo una luce che segue un'altra
tradizione: quella del binomio Baudelaire-Benjamin, quella
dell'Eclair; essa è un bagliore, dove " non
sembra esserci complicità tra la luce e il buio,
tra l'apparizione e il fondo dell'apparire, domina l'astratto.
Levinas afferma: "il volto è astratto";
proprio da Levinas l'autore prende le mosse per abbozzare
un eventuale conclusione. Nell'ultimo capitolo (il più
lungo dell'intero saggio) scioglie i fili che si erano intrecciati
lungo tutto il lavoro. Levinas (accompagnato dalla critica
di Husserl da parte di Derida e dalla metafora del coniglio-gavavai
di Quine) si presenta come una radicale critica allo schematismo
kantiano, colpevole di mettere a rischio, con la logica
del concetto, la possibile intesa tra comunicanti. La tradizione
della differenza, del limite, che nel Novecento ha avuto
in Heidegger (che in questo saggio è visto in un'ottica
differente rispetto alle più fortunate interpretazioni
italiane) l'ultimo grande difensore, escluderebbe ogni alterità,
pretenderebbe di porre ulteriori paletti in spazi senza
confini sicuramente più attuali. Spazi nomadi in
cui l'arte ha una diffusione ben oltre la categoria del
ceto degli artisti: è arte di massa, qualcosa che
ha assunto una dimensione collettiva, proprio per questo
"la forma estetica produce un lavoro etico".
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