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ANDREA TAGLIAPIETRA, "IL GIALLO DELLA FILOSOFIA"

 

A. Tagliapietra, "Il giallo della filosofia"", in "XÁOS. Giornale di confine", Anno I, n.3 2002-2003, URL: http://www.giornalediconfine.net/n_3/art_1.htm

 

L'interrogatorio. Domanda e risposta

Fare domande non è facile. Ci deve essere una tensione che dalla domanda ci conduce alla risposta e poi, da questa, ad un'altra domanda, e così via, fino alla fine dell'inchiesta. Sembra che chi interroga debba sempre aver presente, come un bersaglio, ciò che vuole dimostrare, e che questa consapevolezza lo guidi nella formulazione di ogni quesito. "Porre una domanda", scriveva Elias Canetti in "Massa e potere"(1960), "significa "agire per penetrare"". La domanda, nell'inchiesta, diventa implacabilmente, forse inevitabilmente, un mezzo di potere che affonda, affilato come un coltello, nel corpo dell'interrogato. Interrogare è, allora, questione di chirurgia, è lavoro di bisturi e di precisione. Consiste, direbbe il Socrate del "Fedro", "nella capacità di smembrare l'oggetto", "seguendo le nervature naturali, guardandosi dal lacerarne alcuna parte, come potrebbe fare un cattivo macellaio"(Fedro 265e). Così, nei racconti "gialli", la scena crudele del delitto si sdoppia nella scena, più sottilmente crudele, dell'interrogatorio, dove l'antico carnefice, l'autore del delitto, si trasforma, a sua volta, nella vittima. Il "giallo" come genere letterario, osservava Ernst Bloch nella "Considerazione filosofica del romanzo giallo"(1960; poi in "Volti di Giano"- 1965), nasce con la "procedura indiziaria" del procedimento giudiziario moderno, che ha bisogno di indizi e prove per arrestare, giudicare e punire. Tuttavia, ciò che questa procedura va a sostituire è l'antica "regina probationis", la confessione estorta con la tortura: "tramite l'indizio si raggiunse un livello di civiltà maggiore rispetto alla tortura, e tale da procurare una ben diversa "tensione"". Ciononostante, la tensione dell'inchiesta, il "lavoro dell'indagine", ereditano qualcosa da quell'"inconcepibile crudeltà" che è l'"indagine dolorosa" della tortura. Qui, prosegue Bloch, la tensione, "lacerando, con arti altrettanto lacerati, la rete delle menzogne", fa dire all'imputato "cose che nessun altro poteva sapere all'infuori del colpevole e del giudice". Nell'interrogatorio, gli fa eco Canetti, il chirurgo, penetrato negli organi interni, "mantiene in vita la sua vittima, per sapere qualcosa di più preciso su di essa. Si tratta qui di un particolare tipo di chirurgo, che opera ricorrendo deliberatamente all'"eccitazione" dolorosa locale: egli stimola certe parti della vittima per conoscerne con maggior sicurezza le altre". Se fossimo trasparenti come il cristallo, se i nostri pensieri non avessero carne e linguaggio, non servirebbe affatto chiedere. Ma a chi fa domande, all'inquisitore che incalza, esigendo risposte brevi e concise, si oppone, solida e passiva, l'opacità del corpo. La prima forma di resistenza del corpo è la sordità di chi non sente la domanda. La sordità non è ancora il rifiuto consapevole, il diniego del silenzio. Chi è sordo, chi non sente le domande, sta ancora al di qua dell'interrogatorio e della sua scena crudele. Infatti, egli pensa di potersi sottrarre, ritiene di avere la forza di eludere la domanda. La sordità, il fingere incomprensione o indifferenza, sono, del resto, il modo più frequente con cui, chi ha potere, cerca di sfuggire al potere che è proprio dell'inchiesta. In questo caso, il potere lascia che le domande rimbalzino sul suo corpo come su un muro di gomma. Il silenzio, invece, il rifiuto di rispondere, presuppone già un'asimmetria. Chi è più forte interroga il più debole, ma questi ha ancora la facoltà di negarsi al gioco dell'interrogatorio, di tacere, opponendo all'inquisitore lo scudo del segreto.

Forme del segreto

Cos'è il segreto? Forse coglieremmo un aspetto sin troppo superficiale del segreto se noi ce lo raffigurassimo soltanto come una frase non detta o una testimonianza negata, analogamente a ciò che s'intende quando si parla di "segreto professionale" - del prete, del medico, dello psicoanalista o dell'avvocato -, o vuoi anche di "formula segreta", di "segreto di fabbricazione", di "segreto militare" e di "segreto di Stato". Tutte queste "forme pubbliche" del segreto, consapevoli o inconsapevoli, consce o inconsce, hanno a che fare con la decisione di dire o di non dire, più che con il contenuto di ciò che si dice. Esse possono persino diventare materia di legge, come avviene nelle cosiddette legislazioni sulla "privacy" (per esempio quella che, pochi anni fa, è stata introdotta anche in Italia,
istituendo la figura del garante della privacy). Tuttavia, se in questo caso è l'autorità della legge che ingiunge l'osservanza del segreto a chi non avrebbe, altrimenti, alcun dovere del silenzio, in generale il segreto si manifesta nelle sfere private della confidenza e della fiducia. Il segreto, allora, è misurato dal patto che assicura il rispetto della convenzione del silenzio. Il giuramento assicura il segreto, secondo una garanzia di fedeltà speculare alla formula-principe della testimonianza: "giuro di dire tutta la verità, nient'altro che la verità". "Giuro di non
dire niente", infatti, è la frase che espone il segreto a quel gioco di lealtà e tradimento su cui già ironizzava un famoso motto di spirito di Benjamin Franklin: "tre persone possono tenere un segreto se due di loro sono morte". Ma ciò che noi chiamiamo segreto rinvia forse a qualcosa di più essenziale, che sfugge alle opposizioni tra pubblico e privato, tra memoria e dimenticanza, tra rivelazione e simulazione. Questa irriducibilità del segreto a quanto si decide di dire o non dire è ciò su cui si sofferma, da qualche tempo, la riflessione di uno dei maggiori filosofi contemporanei, il francese Jacques Derrida (cfr.: "Il segreto del nome"(1993) e, scritto con Maurizio Ferraris, "Il gusto del segreto"(1997)). Il segreto, scrive Derrida, "non è un'interiorità privata che si dovrebbe disvelare, confessare, dichiarare, cioè di cui si dovrebbe rispondere, rendendone conto". Anche nel caso del diritto al segreto, vale a dire nei casi sovrammenzionati del "segreto professionale" o del "segreto di Stato", presi in considerazione dai codici e dalle legislazioni, siamo di fronte, in realtà, ad un "diritto condizionale" per cui "il segreto è condivisibile e limitato alle condizioni date". Ciò significa che il segreto costituisce semplicemente un problema, il cui contenuto può - o persino deve - essere dichiarato non appena si diano altre condizioni rispetto a quelle previste
dal patto di segretezza iniziale. Eppure, accanto a questa dimensione del segreto, ve n'è una ulteriore. In essa,"si tace, non per conservare una parola in riserva o in disparte, ma perché il segreto resta straniero alla parola". Questa estraneità, quest'assoluta alterità del segreto ha una storia che, nella cultura occidentale, fa riferimento, da un lato, al Nome impronunciabile di Dio della tradizione ebraica, e, dall'altro, alle conclusioni della teologia negativa della tradizione platonica, prima, e cristiana, poi. In questi due ambiti, infatti, viene condotta una meditazione serrata su cosa accade quando si dà un nome.

Nome proprio e identità

L'analisi dell'atto del nominare rivela, in controluce, l'idea di un ordine e di una razionalità che vuole avere ragione del singolare e dell'irriducibile. Ciò che la tradizione occidentale pensa a proposito del Nome impronunciabile di Dio o dell'improprietà di ogni attributo positivo del divino è estendibile a qualsiasi nome proprio. Essa rappresenta la resistenza di ciò che è unico alla logica dell'equivalenza e della traducibilità assolute. Se, infatti, noi pensiamo a un nome, non possiamo fare a meno di immaginare una pluralità di oggetti, ovvero una classe in cui, in ultima analisi, l'unicità va perduta, mentre cresce l'omonimìa. "Giovanni", "Sebastiano", "Chiara" o "Alessandra", in quanto "nomi", consentono la moltiplicazione dell'omonimìa (quanti "Giovanni", "Sebastiano", "Chiara" o "Alessandra" ciascuno di noi conosce!). In quanto son "propri", invece, rappresentano la fine dell'interscambiabilità del linguaggio, l'unicità dell'individuo che non può essere ulteriormente significata e che, dunque, rimane ostinatamente segreta, racchiusa nella comunità degli affetti o nella concentrazione singolare del silenzio. Chi tace è depositario di un tesoro: il tesoro è in lui, costituisce il potere
della sua singolarità. C'è un limite strutturale alla panotticità dell'immagine, all'esprimibilità dei linguaggi e alla trasparenza della comunicazione. Si tratta di una macchia d'opacità, di un fondo di resistenza che resta sempre intraducibile, ma che, per altri versi, funge da garanzia suprema di libertà. Infatti, solo se non tutto può e deve essere condiviso, c'è spazio per l'autonomia del singolo. "Ho il gusto del segreto", suggeriva Derrida, "ho un moto di timore o terrore davanti a uno spazio politico, per esempio, a uno spazio pubblico, che non dia spazio al segreto. Per me, esigere che si metta tutto in piazza e che non ci sia foro interno è già il
farsi totalitaria della democrazia. Se non si mantiene il diritto al segreto si entra in uno spazio totalitario". In questo spazio totalitario, la prima domanda riguarda l'identità. Ogni rilevamento poliziesco inizia con la dichiarazione delle "generalità". Per Canetti è, questa, la richiesta più arcaica, che rivela "il dubitoso rapporto con la preda: Chi sei? Ti si può mangiare?". Con il possesso del nome (o la sua attribuzione mediante l'atto del nominare) si manifesta il potere assoluto di chi ottiene la rivelazione del nome su chi viene costretto a confessarlo. Si tratta di un potere di vita o di morte. Nella favola, splendidamente raccontata dalla musica di Puccini, il principe Calaf, "scioglitore di enigmi", vince Turandot indovinandone il nome e proponendo alla crudele principessa il controenigma del segreto del suo stesso nome. Come recita la celeberrima romanza, cavallo di battaglia di molti tenori: "il mio mistero è chiuso in me,/ il nome mio nessun saprà!". Se il segreto sta nel nucleo più interno del potere, metafora di ogni segreto - e, quindi, di ogni potere -, è l'interiorità del corpo. Quel corpo che l'azione criminale del delitto ferisce, penetra e sventra, quel corpo che l'azione inquisitoria del detective disseziona, apre e analizza.

Medicina e "arte della deduzione"

La parentela fra il romanzo giallo e la medicina non è certo scoperta di oggi. La storia della letteratura poliziesca, infatti, è zeppa di medici, che indagano in prima persona o che affiancano i detective professionisti come consiglieri, collaboratori ed amici. Conan Doyle era laureato in medicina e la sua più riuscita creatura letteraria, Sherlock Holmes, non era certo digiuna di nozioni della scienza di Ippocrate. Il primo incontro fra il dottor Watson, che medico lo era stato sul serio, per la precisione chirurgo del corpo dei fucilieri britannici in Afghanistan, e il principe degli investigatori - siamo nelle prime pagine di "Uno studio in rosso", del
1887 - avviene nel laboratorio di chimica dell'ospedale di Londra. Holmes, racconterà in seguito il dottor Watson, aveva buone cognizioni d'anatomia ed era un chimico di prim'ordine, anche se non aveva mai seguito sistematicamente dei corsi di medicina. Medico e laureato in legge è, invece, il professor John Thorndyke, protagonista dei romanzi e dei racconti di R. Austin Freeman, fra i primi - il romanzo d'esordio della serie fu "L'impronta scarlatta" del 1907 - a far uso dei metodi della medicina forense e inventore del giallo a "indagine inversa", nel quale l'identità del colpevole è nota sin dall'inizio, sicché l'interesse del lettore si concentra sulla catena di ragionamenti che il detective adopera per smascherarlo. Un altro illustre medico mancato del genere poliziesco è il grande commissario Maigret. Iscritto a medicina all'Università di Nantes, il giovane Maigret è infatti costretto ad abbandonare gli studi dopo due anni, a causa della morte del padre che lo lascia senza i mezzi economici per proseguire. Come Simenon, che aveva frequentato sporadicamente le lezioni di medicina criminale nella nativa Liegi, anche il buon commissario pensa, talvolta, alla carriera interrotta di medico e, in particolare, allo psichiatra che avrebbe voluto diventare. Ma il rapporto fra il giallo e la medicina non si limita alle coincidenze biografiche dei suoi autori e dei suoi personaggi, né all'ampio bagaglio di nozioni tecniche di cui gli scrittori del genere hanno fatto uso per escogitare scenari criminali e delitti sempre più sofisticati. In realtà la letteratura gialla sembra aver mutuato dall'arte della medicina il suo stesso metodo, ossia quella "detection", quell'investigazione analitica basata sul paradigma indiziario che ha nella semiotica medica il suo massimo campo di sviluppo scientifico. Come la medicina, che diagnostica malattie inaccessibili all'osservazione diretta partendo da sintomi superficiali che sembrano irrilevanti o confusi agli occhi del profano, così anche l'indagine poliziesca parte spesso da piccoli dettagli trascurati, apparentemente insignificanti, per risalire, passo dopo passo, alla fonte nascosta del male, all'autore del crimine. Di conseguenza, non c'è da meravigliarsi che la nascita del genere "giallo", intorno alla metà dell'Ottocento, nelle pagine di Poe, Gaboriau e Conan Doyle, coincida con l'affermarsi del prestigio epistemologico e sociale della medicina e con il consolidamento del paradigma indiziario della semiotica. Un paradigma che, pur fondandosi sul metodo positivista di Comte e di Darwin, ossia sulla raccolta sistematica dei fatti e sulla loro classificazione, abbisogna di una procedura logica - "l'arte della deduzione" come la chiamerà Sherlock Holmes -, che ci consente, dalla mera congerie delle osservazioni, dalla medicale registrazione dei sintomi, di giungere alla conclusione dell'inchiesta, ossia alla scoperta del colpevole, alla diagnosi del male. Ma "l'arte della deduzione" ci porta dritti dritti alla sua prima e più autorevole trattazione scientifica, vale a dire alle pagine degli "Analitici primi" di Aristotele. Aristotele, uno dei padri del pensiero occidentale, che, non a caso, prima di essere filosofo, era figlio di un medico e medico lui stesso.

"Giallo" e filosofia

«L'essenza del "giallo"», scriveva Cecil Chesterton, in un saggio, concepito assieme al più celebre fratello Gilbert, dal titolo "Il racconto a sensazione come opera d'arte"(1906), "è la presenza di fenomeni visibili con una spiegazione nascosta; ed è questa, a pensarci bene, l'essenza di tutte le filosofie". Qualcosa turba la nostra quiete e questo è l'inizio. Tuttavia, ciò che ci inquieta è assolutamente sconosciuto, ciò che ci inquieta è il mistero stesso. In questo senso la letteratura gialla e la filosofia hanno molto in comune. Sia il giallo che la filosofia procedono dal caos dell'ignoto verso l'ordine della conoscenza. Sia il giallo che la filosofia ricercano regole e "prove" in grado di fondare la verità delle loro tesi. Sia il giallo che la filosofia articolano, passo dopo passo, un ragionamento che connette premesse indiziarie a conclusioni di giudizio. Allora, vi è, dapprima, la
pura tensione dell'indovinare, il desiderio, anzi, la brama, di risolvere l'enigma. La seconda tappa è il momento dello smascherare e dello scoprire, il meccanismo dell'inchiesta vera e propria. La terza è la garanzia che ogni scoperta sia una sorpresa. L'inatteso, il non previsto, il colpo di scena, sono gli ingredienti obbligatori del romanzo "giallo". Prima della prima parola, prima del primo capitolo, è successo qualcosa che nessuno conosce. Tutto inizia da un punto oscuro a partire dal quale si dipana l'intera sequenza degli eventi. Ma questo, a ben pensarci, è anche il destino della filosofia. "Non c'è dubbio che ogni nostra conoscenza inizi con l'esperienza" recita la prima riga della "Critica della ragion pura" di Kant. "La filosofia non ha il vantaggio, del quale godono le altre scienze,
ossia di presupporre i propri oggetti", gli fa da controcanto la prima riga dell'"Enciclopedia delle scienze filosofiche" di Hegel. Il problema dell'inizio è l'enigma del buio che precede l'inizio, è l'ombra del mistero. Il metodo dell'indagine ha lo scopo di trasformare l'estraneità dell'investigatore - che, come suggeriva Chesterton, è sempre fuori dall'evento -, consentendogli di "fare esperienza", ossia di entrare nel mondo, là dove stanno il crimine e la colpa.

Deduzione, induzione, abduzione

Sulla natura di questo metodo molto è stato scritto, accostando, di volta in volta, i vari protagonisti della storia della letteratura gialla agli esponenti di scuole filosofiche diverse. C'è chi persino è giunto a sostenere, su una nota rivista filosofica, che Sherlock Holmes sarebbe stato un "eminente filosofo della scienza". D'altra parte, quando lo stesso Holmes, nel corso delle sue indagini, afferma che bisogna sempre dare la priorità ai fatti, sembra un seguace dell'anarchismo metodologico di Paul Feyerabend, mentre quando suggerisce che "spesso l'immaginazione è la madre della verità", ci sembra sentir parlare sir Karl Popper in persona, con la sua tesi della priorità creativa delle teorie nell'ambito del sapere
scientifico. In realtà si dovrebbe parlare, almeno per il "giallo", della coesistenza di molti metodi investigativi, tenuti assieme dalla scelta comune di privilegiare il valore positivo dei fatti. Thomas Sebeok e Umberto Eco, in un libro di qualche anno fa ("Il segno dei tre. Holmes, Dupin Peirce"(2000)), sostenevano che il referente filosofico più vicino, non solo cronologicamente, alla grande epopea del racconto investigativo va cercato nel pensiero di Charles Sanders Peirce, filosofo americano vissuto dal 1839 al 1914 e ritenuto, a buon diritto, il fondatore della semiotica moderna. Peirce distingueva il metodo della semiotica sia dalla "deduzione" classica che, com'è noto, procede dalle premesse generali fino ai casi particolari, sia dall'"induzione" che già Francesco Bacone, all'inizio del XVII secolo,
indicava come "il" metodo della rivoluzione scientifica. Ma l'induzione, osservava Peirce, prende lo spunto da un'ipotesi che sembra imporsi senza avere, all'inizio, alcun particolare fatto in vista, mentre, spesso, per giungere a scoperte veramente innovative e, insieme, perfettamente aderenti ai fatti, anche quell'ipotesi può costituire vuoi un lusso, vuoi un vero e proprio ostacolo. Ecco allora emergere la necessità di quella che Peirce chiamava "abduzione" e che consiste nel prendere lo spunto dai fatti, senza avere, da principio, alcuna particolare teoria in vista. L'"abduzione" è ciò che Sherlock Holmes chiamava "retroduzione" o "ragionamento analitico". Essa consiste nel rovesciare il processo mentale per cui la maggior parte delle persone, data una sequenza di eventi, sa giungere da sé ai risultati. Qui si tratta, invece - spiega Holmes al dottor Watson nel primo dei romanzi della saga dell'inquilino di Baker Street -, a partire da un risultato già dato, di rielaborare a ritroso la successione dei passi che hanno portato a quel risultato. L'abduzione rinuncia ad ogni teoria preliminare, sicché solo la considerazione dei fatti, ovvero l'immersione nella pura atmosfera dell'evento, suggerisce infine l'ipotesi. "Io non ho un metodo", "io non penso a nulla", verrebbe da dire, parafrasando l'infastidito intercalare del commissario Maigret quando è sul punto di intuire l'elemento chiave di un'indagine. In effetti, il grande castello razionale dell'investigazione sembra, a questo punto, poggiare sull'arazionalità del caso, sul colpo di fortuna che fa scattare l'unica scintilla in grado di ricomporre il
frammentario puzzle dei fatti.

Maigret e la spugna

Maigret è come una spugna: si lascia impregnare dall'atmosfera che circonda ogni delitto usando al meglio il referto dei cinque sensi. Maigret, leggiamo in "L'ispettore Cadavre"(1944), "ritto in mezzo alla strada umida e fredda, non stava pensando, né seguiva il filo di un'idea. Era qualcosa di simile a una spugna... Così avrebbe detto Lucas, che lavorava spesso con lui e lo conosceva meglio di chiunque altro. "C'è un momento, nel corso di un'inchiesta," raccontava l'ispettore, "in cui il capo si gonfia
all'improvviso come una spugna. Si direbbe che faccia il pieno". Ma il pieno di che? Al momento, faceva il pieno di nebbia e di oscurità. Non era più un paese qualsiasi, quello in cui si trovava. E nemmeno lui era un signore qualsiasi, capitato lì per puro caso. Era una sorta di Padreterno, e conosceva quel luogo come se ci vivesse, o meglio, come se fosse stato lui a crearlo. Conosceva la vita che si svolgeva in ognuna di quelle casette nascoste nel buio, gli pareva di vederne gli abitanti che si rigiravano nei loro letti umidicci, seguiva il filo dei loro sogni, intravedeva una mamma assonnata che nella penombra porgeva un biberon tipeido al suo bimbo, sentiva i dolori lancinanti di un'ammalata e prevedeva i risvegli improvvisi della droghiera sonnambula". Dotato di un'incredibile pazienza il commissario, osserva, tocca, annusa, ascolta, assaggia, fino ad entrare in totale simbiosi con l'ambiente della vittima. "Saprò chi è l'assassino, quando conoscerò bene la vittima", è una frase consueta di Maigret, che leggiamo spesso nei 76 romanzi e 49 racconti che lo hanno come protagonista.

I "feticci" di Maigret

Una delle ragioni del successo di Maigret risiede, indubbiamente, nella forte caratterizzazione del personaggio. La sua pipa, innanzitutto, che disegna gli stati d'animo del proprietario, che si dispone sulla scrivania del suo ufficio al Quai des Orfièvres secondo le più disparate geometrie, che si moltiplica durante l'estenuante rito dell'interrogatorio finale, che fagocita nervosamente tabacco mentre Maigret succhia, come un vampiro, l'essenza di un ambiente, l'atmosfera di una casa o di un villaggio. Del resto, i più bei "casi" del commissario sono delle vere e proprie indagini sociologiche, degli autentici spaccati di vita della provincia
francese. Perché Maigret, il commissario capo della brigata criminale di Parigi, è, in realtà, il commissario di Francia, anzi di quell'angolo d'Europa che comprende la Bretagna e la Normandia, il Belgio, l'Olanda e la Germania del nord, ma anche la Provenza e, nelle ultime inchieste, la Svizzera, dove Simenon, da vecchio, aveva fissato la sua residenza. Altro immancabile feticcio di Maigret è il cappotto nero, che ingigantisce e accentua la sua corporatura massiccia e imponente. D'altra parte, Maigret è una buona forchetta - lo sa bene sua moglie, sempre intenta a preparargli "quelque ragout odorant" -, e non c'è ristorante o brasserie di Parigi e
della provincia, a cominciare dall'immancabile Brasserie Dauphine, che non abbiano ricevuto una sua visita. Ma, soprattutto, al commissario piace bere. Una delle frasi caratteristiche dei suoi romanzi è "il s'est mis à boire", "si mise a bere", e questo bere riguarda, ovviamente, ogni tipo di bevanda alcolica dal pastis e dal calvados degli aperitivi, fino alle innumerevoli birre che sottolineano le pause di riflessione delle inchieste, ai vini di Francia che conosce da vero intenditore. Nel piccolo armadietto del suo ufficio, una bottiglia di cognac, assolutamente fuori ordinanza, scioglie il dramma di un interrogatorio o riscalda il commissario dopo l'esperienza
delle fredde brume della Senna. L'alcool fluidifica la percezione del mondo e delle relazioni sociali, avvicina il commissario ai suoi interlocutori, gli consente di immergersi nel luogo, di superare l'estraneità, di fondersi
con l'evento. Non sappiamo se Maigret sia, come scriveva alla comparsa del personaggio, nel 1932, il nostro Alberto Savinio, il primo detective borghese, per cui, leggendo le sue imprese, "non si resta col fiato sospeso". Una cosa, tuttavia, è certa. Maigret non spettacolarizza l'indagine. Non ci sono inseguimenti, né spari e le scene dei delitti sono piuttosto castigate, anche se l'erotismo simenoniano vi fa spesso capolino, con il fugace abbozzo delle donnine facili e "appetitose" - aggettivo simenoniano - della ville lumière. Tutto, in realtà, procede lentamente, perché l'inchiesta non si dilata nel tempo, ma nello spazio. Sarà forse per questo che le fortune cinematografiche del personaggio sono attualmente in ribasso, perché allo spettatore piace giudicare e assai meno giudicarsi. Invece, la trama di un "Maigret" è come la vita, costellata di assurdità, più che di atti d'eroismo, sicché, di fronte al delitto, la domanda è sempre la stessa: "che cosa avreste fatto, voi?".

La "fermentazione" di Maigret, le "crisi" di Wolfe

Nell'indagine Maigret si rifiuta di formulare qualsiasi ipotesi preliminare. Quando qualcuno dei suoi collaboratori, siano essi il fido Lucas, gli anziani ispettori Torrence e Janvier o il giovane Lapointe, o, vuoi anche la premurosa Signora Maigret, all'inizio del "caso", si azzarda a chiedergli "cosa ne pensa, capo?", Maigret risponde inevitabilmente "io non penso mai". Come il Socrate descritto da Platone nel "Simposio", Maigret ha dei momenti di assenza. Nel bel mezzo di un'inchiesta, il commissario si ferma. La sua indagine sembra arrivata ad un punto morto. "In quei momenti sembrava gonfiarsi oltremisura, divenire ottuso e goffo, come insensibile, come cieco e muto, un Maigret che il passante o l'interlocutore ignaro avrebbero potuto scambiare per un mezzo scemo o per uno sprovveduto". Spesso, nella trama dei "gialli" simenoniani, questo "blocco" ha un'immediata ricaduta psicosomatica. Il commissario si ammala, ha il raffreddore, ha l'influenza.
Oppure è ferito, come nello splendido episodio de "Il pazzo di Bergerac"(1932) - un'intera indagine condotta rimanendo immobilizzato nel letto di un albergo. E' un tratto che accomuna Maigret ad un altro grande investigatore della storia della letteratura gialla, Nero Wolfe di Rex Stout. Le "crisi" di Wolfe, come quelle di Maigret, paiono capitare quasi per caso, nel bel mezzo dell'indagine. "Non ho mai capito le crisi di Wolfe", dice il fido collaboratore-narratore del detective newyorkese Archie Goodwin ne "La traccia del serpente"(1934). "Qualche volta sembrava chiaro che erano dovute solo a un normale scoramento, ma altre volte non c'era alcuna spiegazione. Tutto procedeva col vento in poppa, e mi sembrava che fossimo pronti per fare i bagagli e metterci in marcia quando, senza nessuna ragione, lui perdeva ogni interesse. Si tagliava fuori e non c'era nulla che io potessi dire che lo scalfisse minimamente. Poteva durare un pomeriggio come due
settimane, e poteva anche succedere che si tirasse davvero fuori e che si rimettesse in moto solo se succedeva qualcosa di nuovo". Durante le sue "crisi" Nero Wolfe si ritira nel suo letto, nutrendosi di pane e zuppa di cipolle, oppure si rifugia in cucina, sperimentando raffinate ricette gastronomiche con il cuoco Fritz. Si tratta di un esercizio di distacco dal "caso" e dalla congerie dei fatti su cui si sta indagando. Si sospendono i pensieri e le deduzioni affinché, nel "vuoto" così prodotto, si manifesti l'indizio-chiave, il nodo che tiene insieme l'evento: ciò che il pensiero stesso impediva di scorgere. Sia Wolfe, che è più vicino alla grande tradizione anglosassone del detective onnipotente, maestro della logica analitico-deduttiva che lo accomuna ai vari Holmes, Poirot, Miss Marple, ecc., che Maigret, con il suo pensiero continentale, che mescola inconfessabili dosi di Sartre e di Bergson, hanno bisogno di fermarsi e di non pensare. Di assimilare il mondo: mangiare la zuppa di cipolle, bere qualche bicchiere in più. "Maigret sapeva", leggiamo in "Maigret e la vecchia signora"(1949), "che, prima o poi, in ogni inchiesta arrivava un momento come quello, e che ogni volta, come per caso - o per istinto? -, gli capitava di esagerare un po' con il bere. Era quando l'inchiesta, come diceva tra sé, "si metteva a fermentare". All'inizio non aveva in mano altro
che fatti concreti, quelli scritti nei rapporti. Poi veniva a trovarsi in presenza di persone che fino al giorno prima non aveva mai visto né conosciuto e le osservava come si fa con le fotografie di un album. Bisognava avvicinarle il più in fretta possibile, rivolgere domande, credere o non credere alle risposte, evitare di trarre conclusioni affrettate. Persone e cose acquistavano contorni più netti, ma restavano un po' distanti, non ben individuabili, anonime. Poi, a un dato momento, quasi senza motivo, tutto "si metteva a fermentare". I personaggi implicati diventavano al tempo stesso più sfumati e più umani, più complessi soprattutto, e si doveva fare attenzione. Maigret cominciava cioè a vederli dal di dentro, procedeva a tentoni, con un certo disagio, e con la sensazione che sarebbe bastato un altro piccolo sforzo perché tutto si chiarisse e la verità affiorasse da sola".

Comprendere il nonsenso del mondo

La verità non viene "prodotta" dal pensiero, dal calcolo, dal ragionamento. La verità "si dà". Essa affiora, cioè, solo in seguito a una messa tra parentesi, a una "epoché" del nesso fra il pensiero e i fatti, a un "vuoto di sé", a un'ascesi della volontà classificatoria e isolante della razionalità calcolatrice, che, in questo modo, approda alla sospensione della sua indifferenza. Così, per mezzo di una vera e propria "pratica di immedesimazione", che ha nell'alcool, nei suoi usi e nelle sue metafore, la rivelazione dell'antico retroterra dionisiaco, il commissario Maigret si fa impossessare e poi invadere dalla complessa alterità e molteplicità del mondo. Per questo Maigret si rifiuta di giudicare i criminali a cui deve dare la caccia. Nella maggior parte dei casi cerca di capirli, di penetrare a fondo nella vita dei colpevoli fino ad arrivare, in qualche modo, a giustificarli. La sua prima domanda non è "chi ha commesso un crimine?", bensì "perché è stato commesso?". Un giorno, conversando con l'amico Pardon, medico del male dei corpi così come il commissario è medico del male della società, Maigret confessa che non avrebbe mai potuto fare il magistrato, perché "sono sicuro che non avrei mai preso su di me la responsabilità di giudicare un uomo"("Maigret sotto inchiesta" - 1964). Insomma, non è il delitto quello che conta, ma la determinazione dell'ambiente. E' l'ambiente che condiziona l'uomo e, quando le circostanze ambientali raggiungono il "limite", il "punto di non ritorno", chiunque potrebbe essere il colpevole. Fondendosi con l'atmosfera di un crimine, il commissario ricalca i passi dell'autore del delitto. Ma la scoperta del colpevole, il "dénouement" finale, si accompagna, nell'indagine condotta con questo metodo, alla scoperta dell'intrinseca necessità del fatto compiuto. Si è detto che il fascino del romanzo "giallo" e la sua stessa vocazione "filosofica" hanno a che fare con il contrasto fra la luce e l'ombra, fra la
rivelazione e il segreto, fra l'ordine e il caos. La grande fortuna del "giallo" analitico-deduttivo ha rispecchiato, almeno all'inizio, la fede illuministica nella capacità della ragione di dissipare le ombre del mistero che avvolgono il mondo. Il meccanismo catartico del "giallo" classico, fondato sulla spiegazione che placa l'inquietudine della sorpresa, trasmetteva al lettore una fiducia rassicurante nella possibilità che il rischiaramento, così efficacemente prodotto nel microcosmo circoscritto dell'inchiesta, potesse essere esteso positivisticamente alla totalità del mondo. "Ma la terra interamente illuminata" - verrebbe da dire, citando la
"Dialettica dell'illuminismo"(1947) di Horkheimer e Adorno - "splende all'insegna di trionfale sventura". Oggi, infatti, questa volontà assoluta di sapere, ossia il programma di una razionalità isolante, che intende spiegare per intero il senso del mondo, sta distruggendo per esaurimento il suo stesso oggetto. La catastrofe del caos si riproduce negli effetti, ostinatamente definiti collaterali, della mobilitazione totale della tecnica e il mondo, anche qualora fosse perfettamente spiegato, non apparirebbe per questo meno insensato. Anzi, l'accumulo del "database" delle spiegazioni efficaci e parziali accresce il nonsenso complessivo. Perché il senso del
mondo non è un problema tecnico di cui si può ricercare la soluzione così come il detective cerca il colpevole. Allora, forse ha ragione il commissario Maigret che, in conclusione di ognuna delle sue indagini, ci ricorda, fumando l'ennesima pipa, che le domande più importanti sono quelle a cui non si può dare risposta.