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MARTINO CAMBULA, "Punti di confine tra modernità e post-modernità in R. Guardini, L. Wittgenstein, E. Levinas"

 

M. Cabula, Punti di confine tra modernità e post-modernità in R. Guardini, L. Wittgenstein, E. Levinas, in "XÁOS. Giornale di confine", Anno I, n.2 luglio - ottobre 2002, URL: http://www.giornalediconfine.net/n_2/art_4.htm

 

Nel quadro del dibattito contemporaneo, che si configura come un'opposizione o, per usare la formula di Paolo Rossi, - come un 'Paragone degli ingegni 'moderni' e 'postmoderni'[1]- l'opera di Guardini "contro" la modernità si svolge in prevalenza all'interno di una prospettiva teologica. L'uomo moderno è un dio fallito e sconfitto dagli eventi storici ch'egli stesso ha prodotto, perché si è staccato dalla sua radice che è Dio: questa la sua diagnosi, lucidamente protocollata e descritta nell'opera breve ma densa e intensa del 1950 'Das Ende der Neuzeit. Ein Versuch zur Orientierung' ('La fine della modernità. Saggio per un orientamento'). L'idea di Dio lungi dall'essere generata dalla paura - come sostiene la critica razionalistica tradizionale delle religioni - una volta cancellata dalla cultura e dalla vita, lascia l'uomo in una solitudine (ontologica) radicale che produce paura e angoscia. Non è dunque la paura che induce l'uomo a creare (la presenza di) Dio, ma è l'assenza e l'eclissi di Dio nella modernità a creare la condizione umana della paura esistenziale.
Guardini, dunque, non fa parte della maggioranza dei filosofi postmoderni del nostro secolo che - a giudizio di Paolo Rossi "stanno svolgendo un processo a carico di Galileo (e della scienza moderna) assai più radicale di quello a cui egli fu sottoposto in vita".
Guardini non mette in discussione la natura e il valore conoscitivi della ragione umana, sia essa filosofica, sia essa scientifica, politica o tecnologica. Ma avverte che la ragione non è la ragione strumentale, ma è "il lume della ragione", finalisticamente orientata, comune a tutti gli uomini; e inoltre che essa è un potere conoscitivo: finito, non-assoluto, non-individualistico, dialogico, contemplativo e non puramente utilitaristico, necessario ma non sufficiente a capire il mondo, la vita e noi stessi.
L'antecedente tematico di queste idee è Pascal: l'uomo senza Dio è infinitamente piccolo e misero; l'uomo con Dio ritrova l'autenticità di se stesso. Pascal è senza dubbio un "moderno": egli rappresenta quella dimensione della modernità che non si è staccata dalle sue radici cristiane. Guardini direbbe che questa è la "buona" modernità, mentre la modernità razionalistica e immanentistica, con i suoi effetti distruttivi sulla cultura e sulla prassi, è la modernità tradita, o la perversione della modernità, disseccatasi perché si è voluta costituire come un "albero" (l'immagine è già in Cartesio) sradicato dal terreno del cristianesimo e trapiantato nel terreno della pura immanenza nella realtà sensibile e sperimentabile. Parlerei a questo proposito per Guardini di una forma di pensiero negativo, cioè rivolto e teoreticamente impegnato a negare, evocando Sant'Agostino, S. Tommaso, Pascal, che il mondo sensibile e sperimentabile, o il mondo della vita terrena, esaurisca la totalità dell'essere e dell'esistenza dell'uomo. Guardini, insieme ad altri filosofi contemporanei, sia di ispirazione cristiana (Gilson, Del Noce, Fabro, Rahner, ecc.), sia di provenienza ebraica (Rosenzweig, Simon Weil, Levinas), individua acutamente uno dei tratti dei tratti essenziali e negativi della modernità nel postulato implicito e non dimostrato della chiusura al "soprannaturale". Può la ragione umana, consapevole dei propri limiti conoscitivi, identificare la totalità dell'essere con l'essere immanente alla coscienza? Si può escludere a priori la possibilità del "soprannaturale", magari in nome di quella che Nietzsche chiama "la fedeltà alla terra"?
Contro gli ideali moderni dell'autosufficienza e dell'"autoredenzione" (S.Weil), dell'identificazione dell'empirico con la totalità dell'essere, proprio a partire dal punto di vista empirico, concorda con Guardini anche Wittgenstein: "Noi sentiamo che se pure tutte le possibili questioni della scienza ricevessero una risposta, i problemi della nostra vita non sarebbero nemmeno sfiorati". (Tract., prop. 652).
Concorda anche Levinas sull'incompiutezza strutturale della coscienza empirica: "I modi della coscienza che accede agli oggetti sono essenzialmente dipendenti dall'assenza degli oggetti. Dio stesso non può conoscere una cosa materiale se non girando intorno ad essa. L'essere guida l'accesso all'essere. L'accesso all'essere appartiene alla descrizione dell'essere"[2]. Descrivere l'essere è aprirsi all'ulteriorità. Il riferimento, come si vede, è a Husserl; ed è importante perché segnala da una prospettiva ontologica i limiti della conoscenza.
Il conoscere, in qualche maniera, si esaurisce nel 'descrivere'; e il descrivere è un 'trascrivere' le cose in segni linguistici i cui referti immediati sono le proprietà esteriori (qualità secondarie e primarie) dell'oggetto 'intenzionato' dalla coscienza. Ciò equivale ad affermare che il conoscere è come un "navigare" attorno ad un'isola coperta di nebbia - secondo la metafora kantiana -, senza mai approdarvi.
Dunque è diffusa nella filosofia contemporanea, in dipendenza dall'antecedente epistemologico del criticismo kantiano, la convinzione che conosciamo gli oggetti in 'absentia', attraverso la mediazione del segno descrittivo, vincolato ai criteri di visibilità e di similarità reciproca degli oggetti stessi. L'essenza delle cose sfugge e si assenta dalla descrizione: come, ad esempio, la socialità di Durkheim e la spiritualità degli abitanti di una città, che realmente sono assenti dalla più esatta descrizione topografica e topologica di esse. Ai suoi studenti, Wittgenstein non si stancava di "vietare" - per così dire - le essenze: "Chiedetemi l'uso delle parole, non l'essenza" dell'oggetto a cui esse si riferiscono. Vorrei sottolineare un dettaglio anche nel testo di Levinas: il riferimento all'estensione e alle modalità dell'intelligenza di Dio nel conoscere le cose: "Dio stesso non può conoscere una cosa materiale se non girando intorno ad essa".
Non è un paradosso, se già Tommaso d'Aquino, sosteneva che "scientia Dei non est de singularibus", cioè non termina alla singolarità dell'oggetto individuato dalla sua materia quantitativamente misurabile.
Termina invece alla forma esteriore: come se si dicesse che Dio conosce la figura dello status, ma non il marmo (materia) di cui essa è fatta. Infatti ciò che interessa ed è rilevante per l'atto conoscitivo è il significato che esso assume per la coscienza "che lo intenziona". L'idea e il principio medievale, elaborato da S. Tommaso, dell'intenzionalità della coscienza, cioè del fatto che la coscienza è tale perché è sempre "coscienza"-di: di un oggetto o di una cosa o di un valore (coscienza assiologia), lo si scopre all'opera negli strati più profondi della filosofia moderna e contemporanea.
L'errore di Cartesio - contro il quale è rivolta tutta la filosofia di Guardini e di Wittgenstein, e anche di Levinas, consiste nell'aver scisso la coscienza (il "cogito") dalle cose e averla isolata in se stessa in un solipsismo mentalistico e in un formalismo vuoto. Il pensiero e la coscienza sono tali perché sono pensieri di cose "in carne ed ossa", di enti ontologicamente e corposamente densi di qualità e di significati (trascendenti) per l'uomo. Dunque: la materialità stessa del mondo scientificamente conosciuto "mostra" la propria insufficienza; e la coscienza, satura e appagata sul piano conoscitivo "orizzontale", percepisce la propria incompiutezza rispetto alla conoscenza di ciò che è più importante per l'uomo. Nel 'La crisi delle scienze europee' Husserl dichiara: "nella miseria della nostra vita…la scienza non ha niente da dirci. Essa esclude di principio quei problemi che sono i più scottanti per l'uomo…; i problemi del senso e del non-senso dell'esistenza umana"[3].
Il tema del silenzio della ragione, intravisto da Husserl, inteso in senso molto affine a quello wittgensteiniano, è presente anche nel "richiamo" di Levinas "alle intenzioni oscure del pensiero". Secondo Levinas, il pensiero razionale, distinto, chiaro, ordinato in classi e in sistemi di concetti, è la parte determinata ed esplicita, di una dimensione tacita, implicita e piena di silenzio, del pensiero stesso. Questa dimensione è come la parte notturna o umbratile del pensiero, quasi una "radix (non solo "ratio") seminalis" della razionalità che affonda il proprio essere nel "Deus abcsonditus". Giova richiamare, ad integrazione e a chiarimento di punti profondi del pensiero contemporaneo ancora da sondare, la teoria della "conoscenza implicita" di Michael Polanyi. Questo filosofo anglo-ungherese, movendosi sul terreno dell'epistemologia contemporanea dominata dalla razionalità critica e fallibilista di Popper, ne va a rintracciare le falde più recondite, dove le figure e le formazioni concettuali aperte all'ulteriorità del senso della vita, persistono allo stato informe ma reale, come le gardenie sotto le zolle e negli elementi chimici di un terreno adatto. Forse a questo punto sarebbe opportuno aprire una pista di ricerca dalla gnoseologia dell' "implicito" di Polanyi alla biologia, il biologo e filosofo Giorgio Prodi, a incominciare dal suo studio su 'Le basi materiali della significazione'[4]. ma ciò esula dai limiti del presente lavoro, non solo per convenzione, ma per una diversa intenzionalità oggettiva che attraversa e guida l'epistemologia biologica vincolata allo studio della comunicazione a livello intercellulare e intracellulare. In ogni caso è ineludibile, oggi, per il filosofo sondare il terreno della biologia per cercarvi le modalità implicite dell'attività conoscitiva. Se ho capito bene la tesi di G. Prodi, la comunicazione logica non è che la traduzione del rapporto "comunicativo" senza segni formali che si verifica tra le cellule. La comunicazione silenziosa, che precede la logica, si ripresenta come istituzione - mistica per dirla con Berson - dopo aver raggiunto il massimo della formalizzazione segnica.
Ci si avvicina al tema del "silenzio metafisico" o "del silenzio del Deus absconditus"; Wittgenstein e Levinas non ignorano le radici biologiche della logica, e l'inidoneità della scienza a "dire" la vita. Entrambi sono indotti dall'irriducibilità degli eventi decisivi della vita alle forme della razionalità scientifica, a limitare la conoscenza a una ricerca non della identità e della totalità delle cose, ma della loro specificità inconfondibile e della loro alterità e ulteriorità di senso e di apertura verso (un) Dio. Wittgenstein cerca negli usi del linguaggio comune, parlato dalle differenti comunità, la traccia della loro umanità più profonda; Levinas cerca nel "volto dell'Altro" la traccia dell'Infinito che ne garantisce l'alterità quasi divina e ne chiede irrevocabilmente il rispetto. Entrambi sono catturati dalla dimensione segnica[5] e simbolica[6] dell'esistenza: Levinas la scopre nel volto, essenza e segno dell'alterità inviolabile del mio prossimo, in cui si riflette mediatrice l'infinità e la totale alterità di Dio; Wittgenstein la cerca nel labirinto del linguaggio anche fisico-biologico, dove si svolge e si rivela nell'intercomunicazione la differenza e l'identità degli uomini, i tratti e le "forme di vita" negli "usi" e nei "giochi" diversi delle parole. Si intravede in nuce una ontologia semantica o dei gesti comuni cattivi: della rivelazione del volto e della rivelazione dei significati ulteriori del parlare, tipico della cronaca familiare di ogni giorno. Ora il volto e il linguaggio rivelano una parte di quella realtà "ulteriore", di quel versante invisibile e inosservabile dell'essere, biologico o spirituale che la ragione moderna, soprattutto nella sua versione razionalistica, positivistica, storicistica, ha escluso per principio dal proprio orizzonte conoscitivo. Ma la conclusione più arbitraria del pensiero moderno radicalmente empirica di E. Mach "quod non est in actis, non est in mundo". Dunque: non è possibile una dimensione teologica dell'esistenza, non è possibile il soprannaturale, solo perché supera i contenuti della nostra ragione e della nostra coscienza, perché eccede la capacità del linguaggio scientifico?
La risposta di Wittgenstein è esplicita: la dimensione etico-teologica è inesprimibile ("mistica"), ma reale; proprio nel constatare i limiti ontologici del mondo e i limiti conoscitivi di se stesso, il pensiero vive in sé il dramma dell'impossibilità della parola e della necessità del silenzio intorno a quello spazio di realtà e a quella costellazione di domande che proiettano la loro ombra metafisica e trascendente sulla realtà empirica. La scienza domina una parte minima della realtà[7]; sul resto - che è il Maximum - domina il silenzio del "mistico".
Ecco il testo di Wittgenstein:"Il senso del mondo deve essere fuori di esso. Nel tutto è come è, tutto avviene come avviene; non v'è in esso alcun valore - né, se vi fosse, sarebbe un valore.
Se un valore che ha valore v'è, dev'essere fuori di ogni accadere e essere - così. Infatti ogni accadere e essere così è accidentale
Ciò che li rende non-accidentali non può essere nel mondo, perché altrimenti sarebbe, a sua volta, accidentale" ('Tract.', 6.41).
In parole semplici: il mondo e le sue leggi, indagato e perquisito fin nei suoi angoli più oscuri con i metodi e con le procedure descrittive, misurate e calcolanti delle varie scienze, dimostra di essere costruito o strutturato in un determinato (cioè: terminato tutto all'intorno e, quindi, finito) modo. E', cioè, fatto così e così; e tutti gli eventi vi accadono così e così.
La scienza ci dice come il mondo è fatto: lo "rappresenta" nella sua effettualità empirica.
Ma "perché c'è il mondo"? può esso avere un senso globale, un senso di valore etico?
In sé e nella sua materialità, il mondo è una "macchina perfetta"; ma non esibisce un senso o una dimensione di valore al suo interno. Il mondo è così; ma secondo l'immaginazione produttiva del pensiero - secondo il gioco linguistico - esso potrebbe essere diverso. Questa è la sua accidentalità; o - come direbbero Sant Agostino e S. Tommaso - questa è la "contingenza mundi": il mondo c'è, è così, ma potrebbe essere molto diverso e potrebbe perfino non esistere. Un razionalista radicale come Leibniz è, invece, costretto a concludere che: "questo è il migliore dei mondi possibili". Per Wittgenstein, all'opposto, la casualità, l'accidentalità, la non-osservabilità di un fine interno o di un disegno finalistico esplicito negli esseri viventi; nel mondo e nell'universo, è il segno flagrante della loro povertà di senso compiuto e autonomo.
E, dunque, il pensiero avanza, nel silenzio e nella riflessione, una richiesta supplementare, complementare e integrale di senso: "perché il mondo?".
Il "perché" del mondo, il "senso"del mondo, non può non costituirsi "fuori del mondo". E' lo spazio possibile, coperto di silenzio, del valore morale di tutta la nostra esistenza. Ma è anche - per conseguenza - lo spazio possibile dell'esistenza di Dio, "postulato" nello spirito della 'Dialettica trascendentale' di Kant e della 'Critica della ragione pratica'[8]. la filosofia, riflettendo sul "corpus" delle conoscenze scientifiche, pone domande etiche, ma è incapace di dare le risposte. Dice Wittgenstein: "I fatti appartengono tutti soltanto al problema, non alla risoluzione" ('Tract.', prop. 6.4321).
I fatti del mondo e della vita, delle opere e dei giorni dell'uomo, della storia universale, sono tutti dei giganteschi punti interrogativi, di cui la ragione "pura" non può toccare il fondo. Kant ha indicato una via d'accesso: i giudizi "riflettenti". Sui fatti casualmente determinati e concatenati, sullo splendore di bellezza che talvolta da essi promana, lo spirito umano "riflette" e formula giudizi estetici e teleologici, alla ricerca di uno spiraglio o di un indizio di quella trascendenza che è necessaria alla vita, ma è inaccessibile alla ragione limitativa che opera nei giudizi scientifici (sintetici a priori). In questo contesto di fondo va interpretato "l'assioma (o la regola) del silenzio" di Wittgenstein, posto a conclusione del 'Tractatus': "Su ciò di cui non si può parlare, si deve (muss man) tacere (schweigen)".
I problemi e le domande che eccedono le categorie e i paradigmi delle scienze, non per questo sono, dunque irreali, come presume l'iper-razionalismo moderno. Essi sono, anzi, i più importanti: sono i problemi decisivi del destino dell'uomo, sui quali il discorso sperimentale non ha "definitiva"competenza. Il silenzio, allora, si costituisce, come autentico "paradigma" conoscitivo di contemplazione libera, tendenzialmente aperta allo scambio della comunicazione inter-personale mediante l'arte, la poesia, i gesti morali in favore dell'altro, la religione, la fede in (un) Dio. "Il senso della vita, cioè il senso del mondo - conclude Wittgenstein - possiamo chiamarlo Dio"[9]. La via dal mondo e dall'io a Dio non è percorribile (totalmente) con la ragione determinante; con essa si resta smarriti -agostinianamente perduti, secondo il (libro XI) 'De Trinitate' - nel labirinto delle cose sensibili. Wittgenstein, lettore reticente di Agostino, quanto Guardini ne è un lettore dichiarato, scopre al di là della "scientia", la "sapientia", oltre la "ratio inferior", la "ratio superior". L'espressione "ratio superior" di Sant Agostino, che rende l'uomo idoneo a varcare la soglia del mondo divino liberandosi dalla "caverna" del mondo sensibile, è certamente estranea al lessico filosofico di Wittgenstein.
Ma la capacità "mistica" di apertura al divino ne traduce il pensiero implicito. Uno degli elementi del misticismo di Wittgenstein emerge infatti, come abbiamo accennato, da una dimensione implicita nella sua ontologia. L'essere del mondo e della storia appaiono, a una lettura "lenta e ritmica" (come egli la esige!) del 'Tractatus', intessuti di possibilità e di contingenza. "Il mondo è tutto ciò che accade" tra gli infiniti mondi possibili che potrebbero accadere. Gli oggetti spaziali ('raumliche Gegenstande') e temporali si profilano situati in uno spazio e in un tempo talmente evanescenti, intessuti come sono di caso e di possibilità di essere diversi, da apparire irreali o puramente ideali. Non li stringe nessun legame causale; sembrano atomi senza relazioni reciproche; fluttuano nello spazio della possibilità, così come gli eventi storici fluttuano senza importanza sulla linea del tempo, senza una ragione per cui sono così e non altrimenti; cioè: a tal punto irrelati gli uni con gli altri da apparire come sospesi al puro caso o alla pura e misteriosa libertà di un "Dio nascosto". Forse un Dio che gioca sapientemente sulla tastiera della possibilità logiche degli oggetti, dei fatti, degli stati di cose e li trascrive sul registro e sullo spartito della realtà come una rapsodia ispirata a una pluralità di significati e di altrettante interpretazioni. "Al di fuori della logica tutto è casuale" ('Tract.', 6,3).
"Der Zufall", il caso appunto, sembra a tratti, il regista occulto del mondo e della storia dietro il legame apparente che connette gli eventi ai programmi e alle decisioni degli uomini. Che il mondo ci sia, che sia dato, gratuitamente come si da un regalo ("es gibt") c'è, è legato al senso originario di "Geben", donare; e di "Gabe", dono), che si svolga in una irreciprocità di relazioni con la storia, è appunto il "mistico". Ora, il termine "mistico" sembra articolarsi secondo un duplice senso: da una parte, il "mistico" sembra essere una realtà "mistica", e quindi l'aggettivo sostantivato "mistico" sarebbe usato in senso ontologico, secondo una prospettiva di metafisiche assonanze agostiniane; dall'altra, sembra esprimere solo la condizione conoscitiva dell'uomo rispetto alla ragion d'essere del mondo, secondo una prospettiva di stupore "mistico". La ragione descrittiva, o, comunque inquisitiva, si sente come "afferrata" ("ergreifen": è il termine di Wittgenstein) e sopraffatta dall'inspiegabilità e dall'eccedenza di senso del "perché" c'è il mondo. In questa seconda ipotesi, l'aggettivo "mistico" sarebbe usato secondo le regole proprie del discorso religioso. La situazione mistica infatti è una situazione passiva: essa è l'effetto non di una iniziativa del soggetto, ma di un'alterità, mondana o di natura religiosa (ad esempio: Dio), che viene subita e accolta senza poter opporre resistenza.
Credo sia stato S. Tommaso a definire la situazione mistica come un "pati divina": un subire, dunque, l'iniziativa di Dio, o più razionalmente: un sentire la densità ontologica e l'inesauribilità dei sensi dell'essere nel suo articolarsi imprevedibile di eventi naturali e storici.
Wittgenstein non darebbe al suo discorso questa valenza o questi sviluppi? Il senso del limite interno alla conoscenza, il "muro epistemologico", lo impedisce? Forse. C'è da credere, però, che la ragione e le interpretazioni possibili siano (anche) altre.
Una potrebbe essere la sua "ebraicità" inespressa: il mistico è il sacro o il divino circondato di ontologica oscurità (di "mistero"), che lo protegge dalla banalità quotidiana allontanandolo, come accadde a Mosè il legislatore, nella zona della inviolabilità e della invisibilità: Dio "paria" circondato di nubi; dalla tenebra delle nubi nasce la luce della sua "parola" legislativa. Si, perché il limite del linguaggio e della conoscenza riguarda il linguaggio scientifico: cioè pubblico, intersoggettivo, da controllare in base a regole di sensatezza e di funzione di vero-falso, di prova di verità o falsità, che sono appunto accettate e praticate da tutti. Ma "l'uomo" Wittgenstein, dimessa la veste pubblica di scienziato o di filosofo della matematica, ha il diritto di ritrovarsi nel proprio silenzio, nella zona etico-mistica, nel baricentro del più profondo se stesso, per ascoltare la voce del silenzio e per guardare il buio o l'assenza del razionale nella realtà profonda dell'uomo. L'assenza coincide con una ineliminabile presenza che inabita l'uomo: l'indicibile ('das Unsagbare') o l'inesprimibile ('das Unausprachliche'), forse il "Deus absconditus".
Ch'egli sia affascinato dagli spazi della possibilità dell'"homo ineditus"[10], di un altro se stesso "non-scritto" e non descrivibile; e di tutto ciò che è al di là del descrivibile (della scienze naturali, e poi, a partire dall'inizio degli anni '30, anche delle scienze cosiddette "umane") è un dato acquisito dagli studiosi. Il conflitto nasce, poi, ovviamente, e credo sia incomponibile per ragioni di oggettività, sul terreno del che cosa sia l'indicibile, infinitamente più importante del "dicibile"(delle scienze). Per apportare qualche elemento chiarificatore alla oscura e resistente difficoltà di questi problemi del 'Tractatus', richiamerei due testi semplici dai Quaderni:
a) "Si, il mio lavoro si è esteso dai fondamenti della logica fino all'essenza del mondo"[11];
b) "Ecco il grande problema, attorno al quale ruota tutto ciò che scrivo: c'è, a priori, un ordine del mondo? e, se si, in che consiste?"[12].
Sembra da questi testi che Wittgenstein, in opposizione ai programmi iconoclasti della sua filosofìa, si muova ancora sul terreno della ontologia classica: Qual è l'essenza del mondo? E si avverte l'eco dell' Etica spinoziana nella domanda sull'ordine a priori del mondo[13]. Secondo Bouveresse, il 'Tractatus' "è un'opera di metafìsica dogmatica"[14]. In questa prospettiva "il mistico" (il misticismo?) acquisterebbe un profilo più netto, in ipotesi anche teologico. Ma le interpretazioni del 'Tractatus', diverse, rivali, opposte, tutte fondate o indiziabili dal testo o da testimonianze su Wittgenstein, diventano ancora più discordi sui possibili sensi della parola "mistico". Molto vicina a quella di Bouveresse, è l'interpretazione del teologo spagnolo J. Alfaro: il 'Tractatus' "è un'opera di cosmologia"[15]; ma non di cosmologia fisico-scientifica, come la si concepisce oggi, in particolare nelle Università americane; ma di cosmologia fìlosofìco-metafìsica, di ontologia generale del mondo. Anche questa lettura consente un'esplorazione del "mistico" in dirczione metafìsico-religiosa, di tipo agostiniano e tomistico. Affinità con S. Tommaso rilevò A. Kenny già nel 1959.
"Mistico" è, anche lo stato di quieta unione (o confine o limite) dell'impresa gnoseologica condotta tra le irrequietezze e le contraddizioni insolubili del divenire del mondo e della storia. Il passaggio, in questo caso, è graduale; è discontinuo; è un "transito" o un "salto", come direbbero Lessing e Kierkegaard. Dalla scienza si salta nella teologia, dal tempo nell'eternità, dalla ragione nella fede. Ma le interpretazioni più comuni, ipotecate anch'esse dalla indecibilità della "questione wittgensteiniana", indeboliscono notevolmente il significato da attribuire alla nozione di "mistico". Lo riducono, a mio avviso non correttamente, a dimensioni linguistiche: "mistica" è quella conoscenza linguisticamente non strutturabile con sostantivi, verbi, aggettivi; insomma: in proposizioni in cui il soggetto e il predicato non abbiano referenti immediatamente osservabili. A ben vedere, questa valutazione è una tautologia in piena regola. Ma anche la scienza, come oggi amano dire alcuni, non è tutta "un'immensa tautologia"?.
Con un'operazione a sorpresa, di quelle con cui spesso spiazza il lettore pur attento al ritmo lento imposto dai suoi testi, (in parte) sarebbe forse d'accordo anche Wittgenstein. Il 'Tractatus', secondo la maggioranza degli studiosi ormai noti, dai filosofi analisti inglesi, allievi in linea diretta di Wittgenstein, a quelli più giovani, come Antiseri, Gargani, Marconi (e altri, da richiamare per questioni anche più specifiche), è un'opera sulle strutture logiche del linguaggio. Marconi[16], sulla scia di altri, anche suoi colleghi americani, forte delle parole stesse (ripetute) di Wittgenstein, è il più immediato: "II Tractatus è un libro di logica"; ma poi, si sente subito obbligato a distinguere e a precisare "(un libro) sulla logica; noi diremmo, di filosofia della logica". E con questa messa a punto, la "vexata quaestio" sul 'Tractatus' (e su, quasi tutta la filosofìa di Wittgenstein) si apre su uno scacchiere di domande e di risposte di grande finezza tecnica e di profondo significato globale. Gli studi di Gargani[17] sono il documento più evidente di questa complessità: dal descrittivismo del 'Tractatus', al costruttivismo delle Ricerche, Wittgenstein è visto come l'autore di modelli o di stili d'interpretazione e di analisi di ogni forma del sapere e della cultura, dalla matematica fino alla musica (si veda il suggestivo raffronto con Schonberg). Dunque: non solo opera di logica, quella di Wittgenstein; ma opera di gnoseologia generale (direbbe V. Kraft), di epistemologia, e anche di "ontologia degli oggetti semplici", aggiunge Antiseri; e forse di una implicita teologia negativa o mistica del silenzio - come pensa M. Baldini - col quale mi trovo in sintonia ermeneutica. Del resto, la "mens" del logico, non vela a D. Marconi la dimensione di una "ontologia ipotetica" che sembra costituire l'impianto generale, appunto ipotetico, del Tractatus: esso "dice come deve essere fatto il mondo se devono esserci - come ci sono - proposizioni munite di un senso determinato"[18]. Dunque: un "logos" che struttura e imprime "un ordine a priori" al mondo? Il 'Tractatus', oltre il senso etico, ha un senso logico?
Wittgenstein non lo esclude mai esplicitamente: l'ordine ontologico (Spinosa docet), come l'ordine matematico (qui perfino l'ateo Russel docet, non solo Fiatone, Plotino, Agostino e Tommaso d'Aquino), sono una sorta di piano aperto verso l'ordine mistico, in senso, almeno genericamente, teologico. Del resto la teologia platonica, riletta alla luce della teologia trasfigurata da quella biblica (Dio autore anche del libro della creazione) è la premessa teorica l'antecedente logico della scienza galileiana: l'universo è strutturato come un discorso fatto di idee e di simboli: triangoli, cerchi, e altre figure geometriche: la razionalità euclidea lo "permea" dall'interno - rileva Cassier. Certo, il "secondo" Wittgenstein sembra lontano dal concepire l'ordine del discorso, del mondo e della storia, dello "spirito oggettivo" di Hegel o "del mondo" di Popper, cioè della natura e della cultura, come un ordine di enti o di eventi già dati e dunque immediatamente descrivibili. Ma il "primo" Wittgenstein, l'autore del Tractatus, è colui che apre la strada di transito e invita l'interprete ad oltrepassare - dopo averla acquisita - l'effettualità del testo, costruita su tré livelli espliciti: ontologico, logico, epistemologico, per contemplare nel segreto il versante nascosto: etico, mistico, teologico.
Va ribadito: è alla parte "non-scritta" 'del Tractatus, che Wittgeinstein ha affidato l'intenzionalità etica fondamentale e finale, che pervade poi tutta la sua opera e le conferisce il significato definitivo: essa è dunque anche e soprattutto un "opera di etica"; fatta salva, ovviamente, la sua polivalente effettualità testuale. La dimensione etica è implicita e inespressa, perché la struttura etica della vita che vi si rispecchia è una struttura "trascendentale": è, cioè, la condizione, a priori che rende possibile l'articolarsi dell'esistenza nelle sue modalità operative e che conferisce loro un valore, oltre che tecnico e professionale, originariamente morale. Ecco la spiegazione, o meglio, la delucidazione di Wittgenstein, rilevata opportunamente anche da Gargani e da altri studiosi (Bouveresse, in particolare): "Come posso essere un buon logico, se non sono un uomo moralmente decente (anstandiger Mensch)"?
La verità della propria condizione morale è per Wittgenstein il presupposto anche per ottenere l'acutezza e la luminosità ('Klarheit') d'intelletto, necessaria a guadagnarsi il pane della verità scientifica e fìlosofìca. Credo di aver già rilevato il gusto agostiniano e anche tomistico di questa valenza epistemologica della qualità morale della vita. Sant Agostino e S. Tommaso erano convinti che la "obnubilatio intellectus" e la "debilitas rationis", dovute in radice al peccato originale, si erano storicamente aggravate, ("senescente mundo") al punto da renderci inadatti alla "inquisitio veritatis". Ciò - ripeto - a causa della condizione di colpa attuale del ricercatore. Lo splendore della forma della verità stride con (e si allontana invisibile da) la materia oscura del peccato personale. Dal male, la verità è assente.
Ecco un altro testo chiarificatore sulla verità morale come predisposizione all'esercizio delle capacità intellettuali: "Non si può dire la verità, se non si è ancora dominato se stessi. Non la si può dire; ma non perché non si è abbastanza intelligenti.
Può dirla soltanto colui, il quale già riposa in essa; non colui il quale riposa nella non-verità, e soltanto una volta liberato dalla non verità allunga una mano verso di essa"[19].
Dunque: la verità della scienza è inaccessibile a chi è privo della verità (morale) della vita? Tecnicamente, certo no. Tecnicamente si può essere ottimi chirurghi, almeno in determinate circostanze, e, insieme, uomini moralmente "indecenti".
Ma può una tecnica chirurgica raggiungere il vertice della sua perfettibilità senza essere innervata da una profonda intenzionalità di "decenza" morale? La parola "decenza" indica la congruità e la commisurabilità di uno status o di un atto rispetto all'uomo come fine. Vi si coglie una risonanza della filosofìa morale di Kant, ma credo anche della poesia di Hoffmannsthal ('Lord Chandos'): "l'indecenza" delle parole, come atti linguistici dell'uomo, a esprimere la verità (morale) dell'uomo. Dunque ancora la inidoneità del linguaggio - il teorema della sua incommensurabilità rispetto all'eccedenza e alla trascendenza della verità della vita. E' la verità che inabita nel linguaggio o è il linguaggio che abita nella verità? Certo nessun tipo di linguaggio possiede la verità, tanto meno quello tecnico-scientifico; forse è la verità che possiede l'uomo o lo scienziato: o perché lo costituisce dal di dentro come pensa Agostino ('in interiore habitat Veritas'), e come sembra pensare Wittgenstein (l'uomo è uomo e poi scienziato perché "riposa" nella verità); oppure, perché lo guida dal di fuori, come irraggiungibile ideale regolativo, secondo la prospettiva di Tommaso d'Aquino, di Kant e di Popper. Cade la pretesa di appropriarsi della verità come puro strumento; per coltivare "l'aspirazione" (parola di Wittgenstein) a essere posseduti e a inabitare nella verità.

 


[1] Il Mulino, Bologna 1989. Sulla fine della modernità in generale e dal punto di vista delle prospettive geopolitiche anche future, cfr. S. TOULMIN, Cosmopolis, Rizzoli, Milano 1991. Secondo Toulmin, "le idee scientifiche e filosofiche "moderne" … (l'idea di) stato-nazione…, i metodi razionali di verificare le nostre (europee) procedure e le nostre istituzioni, metodi non disponibili alle società tiranniche e alle culture superstiziose che hanno preceduto l'epoca delle modernità" (p. 13), che sono la sostanza dell'uomo moderno, europeo e occidentale, hanno esaurito la loro forza di orientamento e di guida universale della civiltà mondiale. La fine della modernità coincide col tramonto "della supremazia politica dell'Europa".
[2]E. LEVINAS, Etica e Infinito. Il volto dell'Altro come alterità etica e traccia dell'Infinito, Città Nuova Editrice, Roma 1984, p. 54.
[3] E. HUSSERL, La crisi delle scienze europee, ( trad. it., Il Saggiatore, Milano 1961, p. 35). Per il significato anticartesiano della filosofia di Wittgenstein, cfr. F. KERR, Theology after Wittgenstein, Blakwell, Oxford - New York 1986 (trad. it., La teologia dopo Wittgenstein, Ed. Queriniana, Brescia 1992). Wittgenstein, soprattutto negli "ultimi scritti…vuole cambiare posto al soggetto" (p. 5) contro "La moderna filosofia dell'io" (pp. 13-51) e contro le "trappole del solipsismo moderno" (pp.93-128).
[4]Ed. Bompiani, Milano 1977. Rimando in particolare a: 5. Logica materiale 8pp.41-45); 9. Situazioni biologiche reali (pp. 56-60); 27. Genesi e anatomia del segno (pp. 142-144). Dello stesso Autore sono pertinenti a questi temi: Storia naturale della logica, Bompiani, Milano 1982; Gli artifici della ragione, ed. del Sole 24 Ore, Milano 1987 (in part.: cap. 3 sulle origini biologiche del linguaggio; cap. 17 sul modo in cui "gli esseri viventi leggono il mondo" (pp.139-148).
[5] L. WITTGENSTEIN, Tractatus logico-philosophicus e Quaderni 1914-1916, Einaudi, Torino 1964.
[6] L. WITTGENSTEIN, Osservazioni filosofiche, Introduzione e traduzione di M. Rosso, Einaudi, Torino 1976, p. X.
[7] Ivi, p. XI. Per una genesi testuale e teoricamente approfondita è indispensabile: M. B. HINTIKKA, Indagine su Wittgenstein, trad. it., Il Mulino, Bologna 1990; sulle prime proposizioni del Tractatus, cfr. i capp. II e III, dedicati all'analisi "della categoria degli oggetti" , di G: H. VON WRIGHT, Wittgenstein, trad. it., Il mulino, Bologna 1982 (in part. I, capp. III e IV sulle origini del Tractatus e delle Ricerche filosofiche); sempre attuali gli studi pioneristici di D. ANTISERI, Dopo Wittgenstein: dove va la filosofia analitica, Roma 1968.
[8] La tesi della dipendenza di Wittgenstein da Kant, soprattutto nel Tractatus e negli scritti che trattano di filosofia della matematica, è stat sostenuta, tra gli altri, con buone e documentate ragioni da D. S. SHWYDER, Wittgenstein on Mathematics, in Studies in the Philosophy of Wittgenstein a cura di P. Winch, Routledge e Kegan Paul, London 1969. Ecco la sua tesi: "La filosofia di Wittgenstein è stata kantiana dall'inizio alla fine" (p. 66). Alla luce di alcuni motivi di fondo dell'etica kantiana è interpretata - a mio avviso in maniera convincente - l'opera di Wittgenstein da parte di J. JANIK - S. TOULMIN, La grande Vienna, trad. it., Garzanti, Milano 1984, (in particolare, il cap. 6 "Il Tractatus riesaminato: un atto etico", pp. 169-204).
[9] Tractatus logico-philosophicus e Quaderni 1914-1916, trad. it., Einaudi, Torino 1968, p. 173
[10] Cfr. G. GREWENDORF, Ist Wittgenstein Privatsprachenargument trivial?, in "Ratio", 2 (1979), 21. Bd, pp. 151-160.
[11] Quaderni, p. 181.
[12] Ivi, p. 49.
[13] Sulle affinità del Tractatus con l'Etica di Spinosa, allo studio originale, ma non immune da forzature, di M. AENISHAENSLIN, "Le Tractatus" de Wittgenstein et "l'Etique" de Spinosa. Etude de comparaison structuraille, Birkhauser, Basel 1994.
[14] Wittgenstein, scienza etica estetica, (trad. it. cit., p. 41).
[15] De la cuestiòn del ombre a la cuestiòn de Dios, Ediciones Sigueme, S. A., Salamanca 1988; trad. it., Dal problema dell'uomo al problema di Dio, Queriniana, Brescia 1991; la formula ritorna insistente nel cap. IV (p. 109-157), esame profondo, critico, chiarissimo, del significato globale dell'opera di Wittgenstein; s'intitola significativamente "L. Wittgenstein di fronte al problema del senso della vita".
[16] L'eredità di Wittgenstein, Laterza, Roma-Bari, p. 4.
[17] Essendo gli altri studi di Gargani troppo noti e citati, limito il rinvio a quel micromodello di analisi che è il prezioso libretto (un vero colpo di sonda in profondità), A. GARGANI, Stili di analisi, Feltrinelli, Milano 1980
[18] Op. cit., pp. 4-5.
[19] L. WITTGENSTEIN, Vermischte Bemerkungen, a cura di G. H. von Writt, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1977, p. 73; trad. it., Pensieri diversi, a cura di Michele Ranchetti, Adelfi, Milano 1980; traggo però questa citazione da A. GARGANI, Il coraggio di essere, Introduzione a WITTGENSTEIN, Diari segreti, Laterza, Roma-Bari 1987, p. 24.

 


Martino Cambula è professore di prima fascia di Storia della Filosofia (Concorso nel 2000) nell'Università di Sassari, proveniente dal ruolo dei professori associati (1981). Dal 2001 è presidente del Corso di Laurea in Filosofia. Ha ricoperto per supplenza l'insegnamento di Storia della Filosofia medievale (1984-1992) e attualmente (dal 1998) ricopre quello di Logica e filosofia della scienza. Collabora alla "Rivista di Ascetica e Mistica" di Firenze; e alla pagina "Cultura" del Settimanale "Libertà" di Sassari. I temi della sua ricerca vertono su : Crisi della ragione moderna: R. Guardini e L. Wittgenstein; Figure della ragione tra filosofia e scienza; Fede e ragione, con particolare riferimento al pensiero e l'opera di S. Tommaso d'Aquino; Esperienza e conoscenza nel neopositivismo
I suoi lavori: Eclissi o tramonto della razionalità moderna? Su R. Guardini e L. Wittgenstein, Edizioni La Scala, Noci (BA)1994; Forme del vivere e forme del sapere. Figure della ragione tra filosofia e scienza, Editrice Democratica Sarda, Sassari 1996; Sapere e credere. Domande sull'Enciclica "Fides et Ratio" di Giovanni Paolo II, Edizioni La Scala, Noci (BA)1998; Moritz Schlick, Il futuro della filosofia. Esperire, Conoscere, Metafisica, a cura di Martino Cambula, Edizioni La Scala, Noci (BA)1999; "De docta ignorantia": la via apofantica alla conoscenza di Dio in Tommaso d'Aquino in "Rivista di Ascetica e Mistica", 1, Firenze 2000, pp. 139-165; L' "ultimo" Popper, in "Il volo", Cagliari 2000; Verità di ragione e verità di fatto, in M. Schlick, L'essenza della verità secondo la logica moderna (edizione italiana integrale), Rubbettino, Soveria Monnelli 2001.