Cos'è un dono?
Lo spettacolo del flusso di
regali che, dall'inizio dell'epoca del consumo di massa,
ogni Natale ci ripropone, invita a riflettere sul misterioso
circuito del dono. Cos'è un dono? Il dizionario della
lingua italiana definisce "dono", "quanto
viene dato per pura liberalità, o per concessione
disinteressata o per abnegazione". Dono, prosegue il
Devoto-Oli, è anche ciò di cui si fruisce
come risultato di una produzione (i "doni" della
terra, ovvero i suoi frutti), o che si possiede come dote
spirituale e fisica (il"dono" della bellezza o
dell'intelligenza), vuoi come privilegio, vuoi come prerogativa
esclusiva (il tocco del pianista, la mano del pittore, ecc.).
La più comune concezione del dono è accompagnata
dalle nozioni di generosità e di gratuità.
Ma anche in questo orizzonte dell'ovvio, l'imbarazzo di
chi si presenta ad un compleanno senza regali, di chi riceve
un regalo senza poterlo ricambiare, o di chi scopre che
il regalo degli altri è di maggior valore del suo,
introduce, nel clima di festiva banalità, un elemento
di inquietudine. Una microfisica dei regali, che l'industria
del consumismo sasfruttare abilmente, ci dice che il regalo
perfetto è quello che, a parità di costi,
ci fa fare una "bella figura", ossia produce nel
ricevente la miglior immagine di colui che dona. Il dono,
infatti, non è la cosa donata, ma il legame che la
cosa donata istituisce fra chi la offre e chi la riceve.
Filosofia del dono
Gran parte di ciò che,
nel corso del Novecento, è stato detto sul tema del
dono trae la sua fonte dal Saggio sul dono, scritto
dal sociologo francese Marcel Mauss nel 1924. Per Mauss
il dono è un "fenomeno sociale totale"
in cui, attorno all'apparente libertà racchiusa nell'atto
del donare, vediamo all'opera ben tre obblighi: quello di
dare, quello di ricevere e quello di ricambiare.Studiando
gli usi e i costumi di alcune popolazioni del Pacifico e
del Nord America (ma anche con significative incursioni
nel mondo classico), Mauss individua nel dono un sistema,
a volte assai complesso, per stabilire relazioni fra gruppi
e persone. Non solo. Il dono - sostiene Mauss - è
la forma pre-economica dell'economia, il meccanismo con
cui, prima di ogni mercato, viene regolata e garantita la
funzione dello scambio. Infine, nel dono Mauss intuisce,
al di fuori di ogni retorica della generosità, l'interesse
del donatore, il fatto che ogni dono ricevuto vincola il
ricevente, obbligandolo alla reciprocità. Tornando
per un attimo ai nostri pacchetti di regali, ricordiamoci
di come l'arrivo di certi doni da persone da cui non ce
li aspettiamo, ci dia fastidio, perché sappiamo già
che dovremo ricambiarli. Ma un'altra cosa che, nei regali,
ci preoccupa, è l'innalzarsi esponenziale del loro
valore. In questi casi, dicono i buoni padri di famiglia,
un po' economi o forse solo un po' tirchi, si innesca una
spirale e alla fine si spende un patrimonio. Anche l'aspetto
della dissipazione prodotta dal dono era stato preso in
esame nel saggio di Mauss, a proposito di quell'usanza degli
indiani della costa occidentale nordamericana che si chiama
"potlac". Il "potlac" è un dono
agonistico che vede in lizza per il comando due donatori.
Vince chi dimostra di essere in grado di "consumare"
la quantità maggiore di risorse. Pensate un po' a
un poker senza posta in palio, perché la posta verrà
completamente distrutta, dove si fanno solo rilanci e vince
colui che è in grado di rilanciare per ultimo, ancora
una volta, quando l'avversario non ha più niente
da puntare. Questo aspetto delle ricerche di Mauss fu ripreso
da Georges Bataille nella sua "economia generale del
dispendio". Per Bataille, malgrado la razionalità
indichi nell'utilità il movente delle azioni, le
sfere più importanti della nostra esistenza - si
pensi all'erotismo, all'arte, alla cultura, alla religione,
al pensiero stesso - si reggono sulla nozione di spreco,
di consumo improduttivo. Non c'è sfera della vita
in cui, all'utile rinvenibile nei mezzi, non subentri, proiettata
nella dimensione del fine, la dissipazione e la spesa. Ogni
vivente è, riguardo alla vita che non ha né
ritorno né resa, come il sole, che effonde incessante
i suoi raggi su ogni cosa, o come la rosa che, dice il poeta,
fiorisce senza perché. Ecco allora che, per Bataille,
il dono svela la dimensione in cui l'uomo realizza sovranità
e godimento. Queste non risiedono, come pensano i grandi
capitalisti, nell'accumulo dell'avere, ma nella libertà
di essere e nella pienezza di sé che chi dona cerca
di affermare. Bataille ricorda il superuomo di Nietzsche,
che intende il dono non come ipocrisia dell'"amore
per il prossimo", ma come ricchezza inesauribile che
si riversa per "amor di sé", come il sole,
specchiando la sua luce nel mare, leggiamo nello Zarathustra,
fa sì "che anche il più povero dei pescatori
remi con un remo d'oro".
Dono sincero e dono avvelenato
Qui il grande spartiacque, che
divide l'esperienza del dono e le sue interpretazioni, è
quello fra un "dono altruista", che manifesta
effettivamente cura nei confronti dell'altro, e un "dono
egoista", che nel dono esprime solo il donatore e la
sua autosufficienza. Al primo guardano quelli che, come
Alain Caillé e Serge Latouche, cercano nel dono il
paradigma di un nuovo modo di concepire i rapporti economici
e sociali, rifiutandosi di accettare il pensiero unico della
dittatura dell'utile che il capitalismo sostiene e valorizzando
quel mondo del volontariato, dell'assistenza e del "no
profit" che, nella società contemporanea, sta
acquistando sempre maggior peso ed importanza. Al secondo
ci riporta il recente contributo di Jean Starobinski che,
nel suo A piene mani, ha preso in esame il dono asimmetrico,
quello della "larghezza" di chi ha nei confronti
di chi è in stato di bisogno. E' questo, dimostra
Starobinski, attraversando le grandi figure culturali delle
pratiche fastose antiche, dell'elemosina, della carità,
della beneficienza, del tributo e dell'omaggio, un dono
perverso, che nasconde appena tutte le sue insidie, rendendo
palese l'arroganza del donatore e l'umiliazione di colui
che riceve. Il dono qui rivela quella duplicità che
in alcune lingue è ancora conservata, e che associa
all'idea di dono (l'inglese "gift") quella di
veleno (il tedesco "Gift"). Avvelenati sono, infatti,
i doni fondativi della cultura occidentale, dal fuoco di
Prometeo e dal vaso di Pandora, fino alla mela di Paride
e al cavallo di Troia del poema di Omero. Ma anche il frutto
che Eva porge ad Adamo, nel giardino dell'Eden, non è
certo un dono senza conseguenze. Avvelenato o perlomeno
ambiguo, infine, è anche il dono dell'artista, la
cui offerta dell'opera appare in bilico fra il dono di sé
e l'affermazione di dominio, fra l'ospitalità e la
provocazione. Ecco allora che, per restituire al dono la
sua innocenza, è forse necessario che esso sia, come
suggerisce il filosofo francese Jacques Derrida nel saggio
Donare il tempo, un evento assolutamente gratuito, incondizionato
e unilaterale. "Che la mano sinistra non sappia ciò
che fa la destra", dice il precetto evangelico. Il
dono segreto, il dono silenzioso è, in fondo, il
dono perfetto, quel dono originario che è la fonte
del nostro stesso bisogno di dare e di cui tutti i doni,
quando sono sinceri, custodiscono memoria, perpetuandone
il gesto nel tempo.
Il filosofo come "dono":
l'esempio di Socrate
Il "dono" e l'"atto
di donare", nella loro comune e banale ricorrenza,
attraversano i Dialoghi di Platone in molteplici
luoghi - ben più di una trentina fra opere autentiche
e spurie -, disegnando un panorama che, forse, un giorno,
meriterà di essere analizzato con cura. In questa
sede selezioniamo solo alcuni passi, a partire da quella
che, nell'economia narrativa dell'opera platonica, può
essere ben definita la "scena originaria" della
filosofia. Si tratta del "processo a Socrate"
raccontato nell'Apologia. Nel corso di questo testo
che, com'è noto, racchiude l'appassionata autodifesa
del filosofo nei confronti dell'accusa di non venerare gli
dèi della città e di corrompere l'educazione
dei giovani (l'accusa - lo sappiamo - avrà successo
e questo processo si concluderà con una condanna)
Socrate, verso la fine del discorso che precede la prima
votazione dei giudici (le votazioni saranno due) rivendica
il suo ruolo e afferma di essere il "dono del dio"(dòsis
toù theoù) alla città (Apologia
30d-31c). Ciò che il dio dona è il filosofo
e la sua incessante attività critica descritta, nelle
pagine del dialogo platonico, con la celeberrima immagine
del tafano che pungola i fianchi della città. Questa
attività critica - Socrate lo diceva all'inizio della
sua autodifesa (Apologia 17b) - consiste nient'altro
che nel "dire la verità". La vocazione
del filosofo, il dono del dio alla città, è
il "dire la verità alla città".
Il filosofo, cioè, non è soltanto colui che
cerca la verità - un analitico della verità,
diremmo, come il sapiente presocratico o lo scienziato moderno
-, ma è colui che trasforma questa ricerca e i suoi
risultati in un'azione, in un'incalzante opera di verità
offerta agli altri, in una provocazione degli altri. Il
dono del dio è, quindi, la funzione critica della
verità. Questa non è soltanto un dono nella
prospettiva della sua origine (il dono del dio), ma ha anche
la caratteristica di gratuità del dono "in actu
exercito", ovvero nella dedizione con cui Socrate si
prodiga nell'opera di verità. Socrate trascura tutti
i suoi affari e, lo stanno vedendo i cittadini di Atene,
rischia persino la sua stessa vita in nome della vocazione
critica a cui è stato chiamato. La funzione critica
della verità è, dunque, un atto disinteressato,
che non si sottopone al registro dell'avere e del possesso.
Le pratiche di verità di Socrate, il suo "stile
di vita" modellato secondo la verità, non producono,
per lui, né profitto, né compenso. Il testimone
della verità di Socrate è la sua povertà
(penìa), così come, di qui a poco, testimone
di verità sarà la sua capacità di rimanere
nel carcere e di rispettare le leggi, benché ingiuste
(Critone) e, in seguito, di affrontare la morte senza
cercare di mettersi in salvo (Fedone). La rinuncia
alla libertà e la rinuncia alla vita, che accompagnano
la parabola finale dell'esistenza di Socrate, sono il seguito
stilistico di una vita improntata sul registro del disinteresse
e dell'abnegazione. Benché altrove, come nel Teeteto
(dove Socrate dichiara di aver ricevuto in dono dal dio
l'arte maieutica della madre (Teeteto 210c) o nel
Liside (dove Socrate afferma di aver ricevuto dal
dio il dono di capire al volo chi ama e chi è amato
(Liside 204c) il filosofo sia colto anche come benficiario
di doni, il contraltare del dono di Socrate alla città
è la sua povertà e la sua radicale rinuncia
al registro dell'avere.
Il dono del filosofo non è
il dono della filosofia
Il tema della filosofia come
"dono del dio" ricompare in Platone in uno dei
Dialoghi più tardi, il Timeo, dove
leggiamo che, al di là della filosofia "non
venne nessun bene maggiore, né mai verrà,
al genere mortale, come dono largito dagli dèi (dorethèn
ek theòn)" (Timeo 47b). Qui la filosofia
è già intesa, tuttavia, come funzione teorica
che conduce il filosofo a quella che potremmo chiamare la
"felicità teoretica" della contemplazione,
in un percorso tracciato che da Platone porta all'Etica
nicomachea e alle virtù dianoetiche di Aristotele.
Il "dono" è, quindi, il dono individuale
di una pratica teorica che modella la vita del filosofo
secondo la massima eccellenza concessa ad un essere umano.
Si tratta, dunque, di un'acquisizione del filosofo, di un
beneficio per la sua esistenza, di un "avere"
che solo mediatamente e selettivamente (si vedano i tentativi
platonici della "città ideale" e il pragmatismo
aristotelico) si rivolge alla città e ad essa viene
elargito. Per trovare il tratto della filosofia come "dono
di sé" del filosofo - il tratto "gratuito"
della filosofia -, dobbiamo, quindi, rimanere in ambito
socratico. Nell'Eutifrone, il testo che precede l'Apologia
nella trama narrativa dei Dialoghi platonici, si narra l'incontro
fra Socrate e un supponente sacerdote (Eutifrone per l'appunto)
che, come lui, sta recandosi in tribunale per discutere
una causa. E ad Eutifrone Socrate si rivolge così:
"tu, forse, hai l'aria di tale che raramente fa dono
di sé (seautòn paréchein), e il proprio
sapere non ha voglia di insegnarlo: io, invece, per certa
mia natura socievole, ho l'aria, temo, di uno che quel che
sa lo riversa e profonde a chicchessia; e non solo senza
mercede, ma anzi prodigandomi lietamente a chiunque mi voglia
ascoltare" (Eutifrone 3d).
L'Alcibiade Secondo: un dialogo
sul dono
Nell'Alcibiade Secondo o
Minore, un dialogo che, a detta dei filologi, pur essendo
di ambiente accademico, non è di Platone e in cui
abbondano gli elementi socratici, il giovane Alcibiade sta
recandosi al tempio per pregare quando incontra Socrate
che lo interroga su cosa egli vada a chiedere agli dèi.
Il tema del dialogo è, quindi, come si affretta a
sottotitolare l'editore antico dei Dialoghi Trasillo
di Alessandria, "sulla preghiera", ma, giacché
della preghiera si prende in esame solo il suo aspetto di
richiesta di doni da parte degli dèi, il dialogo
è anche, in qualche misura, un dialogo "sul
dono". E del dono Socrate cerca di mettere in risalto
l'insidia, la potenziale pericolosità. Analizzando
l'esempio di Edipo, ma anche quello dei tiranni (e Alcibiade
- giovane ambizioso e discepolo, insieme, di Socrate e di
Pericle - mira indiscutibilmente a diventare signore di
Atene), che ricevono in dono dagli dèi sia il loro
trionfo che la loro caduta, Socrate ammonisce: "ti
accorgi, dunque, com'è rischioso accettare irriflessivamente
i doni (tà didòmena déchesthaì),
o supplicare d'ottenerli, se può capitare in futuro
che se ne colga danno o che addirittura ci si rimetta la
vita" (Alcibiade Minore 141c-d). Per scongiurare
questo pericolo, allora, bisognerebbe, aggiunge Socrate,
pregare gli dèi con la seguente formula scaramantica,
che mette al riparo dalle conseguenze imprevedibili dei
doni, ovvero dalla possibilità che essi si rivelino,
come si diceva in precedenza, dei doni avvelenati: "Zeus,
Re, ciò che è bene daccelo tu/ sia che lo
chiediamo o no in preghiera, /ma ciò che è
male allontanalo tu/ anche se lo chiediamo in preghiera"
(Alcibiade Minore 143a).
Socrate confuta il principio
della reciprocità del dono
Nella prosecuzione dei dialogo,
Socrate porta Alcibiade a riesaminare la questione della
preghiera (e dell'annesso sacrificio) come un dono fatto
agli dèi dai quali ci si attende, quindi, la reciprocità
di un controdono. Socrate osserva che, benché gli
ateniesi facciano ricchi e opulenti sacrifici agli dèi,
non per questo essi accordano alla causa di Atene il loro
favore, come i rovesci della guerra contro Sparta (gli spartani
avevano fama di essere sacrificatori parsimoniosi e fautori
di una "devozione discreta") dimostrano. Troia
fu presa malgrado gli sfarzosi olocausti di Priamo (e Yahweh,
aggiungiamo noi, preferì i sacrifici di Abele nonostante
i sacrifici di Caino). "Io non credo", conclude
Socrate, "che gli dèi siano tali che si possano
corrompere con i doni (hypò dòron paràghesthai)
come un volgare usuraio; ed è un ben sciocco argomento
il nostro se crediamo il quel modo di superare gli spartani.
Anche perché sarebbe inconcepibile che gli dèi
guardassero ai nostri doni e sacrifici, ma non all'anima,
se uno è pio e giusto" (Alcibiade Minore
149e). In realtà, "gli dèi sono inaccessibili
aidoni (ou dorodòkoi òntes) e disprezzano
tutte queste cose, come dice il dio e il suo profeta. E'
probabile che gli dèi e gli uomini che abbiano giudizio
tengano soprattutto in onore la giustizia e il senno; che
assennati e giusti non siano altri se non coloro che sanno
che cosa è doveroso fare e dire, sia in riguardo
agli dèi che in riguardo agli uomini" (Alcibiade
Minore 150a-b).
La corona di Alcibiade
La chiusa narrativa del dialogo
è la seguente. Socrate ha ottenuto il suo scopo maieutico
di indurre Alcibiade a riflettere su cosa chiedere agli
dèi e, quindi, sull'atto stesso del chiedere qualcosa
agli dèi. Alcibiade rinuncia ad andare al tempio
perché deve prima dissipare le nebbie che avvolgono
la sua anima. La corona con cui intendeva incoronare il
bue da sacrificare Alcibiade la pone sul capo di Socrate.
"Ma sì, questa corona qui, dal momento che mi
hai ben consigliato, la porrò sul tuo capo. E agli
dèi offriremo corona e tutto quanto è costume
quando io veda venuto quel giorno" (Alcibiade Minore
151a). "Bous Stephaneforos" è, in greco,
il nome della vittima sacrificale, il "bue incoronato"
con bianchi fiori di melo delle feste Bufonie. La corona
è un mobile templum, concentra l'elezione e il pericolo.
Il perfetto attira su di sé la morte, perché
non c'è pienezza senza sovrabbondanza, e ciò
che sovrabbonda è l'eccedenza che il sacrificio rivendica
a sé. Così, presso gli antichi greci, i buoi
venivano incoronati quando si era sicuri che fossero perfetti
per il sacrificio, "per non uccidere - ricorda Luciano
di Samosata - qualcosa di inutile" (Sui sacrifici
XII). Nel sacrificio il meccanismo del dono rivela la sua
implicazione con l'avere e con l'utile, con la speranza
di ottenere secondo il circuito del dono-controdono ben
esposto da Mauss nel suo Saggio sul dono. Il dono
di Alcibiade a Socrate segna Socrate come "dono sacrificale"
alla città: "accetto questo dono", dice
Socrate, "come sarei felice di accettare da te qualunque
altro dono" (Alcibide Minore 151b). Il dialogo
si conclude con i versi di una tragedia di Euripide, le
Fenicie: "sono per me presagio le corone/ tue vittoriose.
Perché in gran tempesta/ siamo, come tu vedi"
(Fenicie 858-859).
Il mantello di Alcibiade
Alcibiade dona, ma Alcibiade
è l'uomo del "voler avere di più",
l'emblema, nell'Atene socratico-platonica, dell'ambizione
esaltata, della sete di potere che non si arresta innanzi
a nulla. Di Alcibiade conosciamo il ritratto che Platone
traccia nel Simposio, là dove egli, irrompendo
ubriaco sulla scena del banchetto, fra i discorsi d'amore,
fa l'elogio di Socrate e rivela tutta la sfrontatezza della
sua passione per lui. Alcibiade è innamorato di Socrate.
Alcibiade vuole avere Socrate e il Simposio di Platone
ci offre una pagina di grande delicatezza - pagina di cui
si ricorderanno i poeti e i teorici dell'amor cortese, pensate,
per esempio, ad un analogo episodio della saga di Tristano
e Isotta - in cui Socrate passa un'intera notte accanto
ad Alcibiade senza toccarlo (Simposio 218c-219d).
Senza che questo amore abbia, cioè, la sua consumazione
nel registro dell'avere. Anche allora lo sforzo di Socrate
è quello di condurre Alcibiade su un piano diverso,
in cui non si chiede, in cui non si vuole ottenere - in
cui, insomma, l'eros non è questione di avere, di
possesso - ma l'eros è, piuttosto, tecnica di vita,
esercizio di verità con cui trasformare se stessi
e diventare uomini diversi e migliori. Così Alcibiade,
rinunciando ai propositi di seduzione secondo il registro
dell'Afrodite terrena, stende il suo mantello sopra il corpo
di Socrate - "perché era inverno e faceva freddo"
(Simposio 219b) nota Platone - con un gesto di tenerezza
che racchiude la cura e l'autosufficienza dell'autentico
"dono d'amore". Con minor felicità e con
vena letteraria indubbiamente inferiore rispetto al capolavoro
platonico, l'accademico redattore dell'Alcibiade Minore
ha inteso il dono della corona. Al posto di ciò che
Alcibiade intendeva ottenere dagli dèi c'è
Socrate e il suo magistero - il vero dono degli dèi
ad Alcibiade e agli ateniesi - e Alcibiade sembra esserne
contento.
Mantello e corona: dono e sacrificio.
Ma la corona non è il
mantello (emblema classico del dono, pensate a Martino di
Tours, alla spoliazione di Francesco, ad una fortunata tradizione
dell'iconografia del dono, ecc.). Il mantello copre, protegge,
tiene caldo, la corona segna, evidenzia, esalta, espone.
Il mantello è utile, la corona inutile. Il mantello
è discreto, al limite nasconde e tiene segreto chi
ricopre e ciò che egli porta con sé. La corona,
invece, è appariscente, proclama l'elezione, è
come il piedistallo della statua o la cornice del quadro.
Mantello e corona si contrappongono come due registri del
dono. Forse il mantello è quel dono segreto, anonimo,
invisibile, quel dono incondizionato, quel dono senza regole
né legge che Derrida contrapponeva alle leggi del
dono enunciate dal Saggio sul dono di Mauss? Al contrario
la corona è quel dono visibile e insidioso che obbliga
e costringe, quel dono che distingue e marca il beneficiario
rispetto al donatore, quel dono che intrappola colui che
lo riceve nel suo meccanismo ad orologeria. Quel dono, insomma,
che non è nient'altro che un sacrificio mascherato.
Ontologia del dono.
Clemente Alessandrino scrive
che, a sinistra del santuario sta l'uomo che attende restituzione,
a destra Dio porrà quelli che non si aspettano reciprocità
(Stromata IV,6). Il vero dono è un atto di
coraggio, una forma di innocenza in cui non dobbiamo mai
dimenticare le caratteristiche della rinuncia, della sottrazione,
del "meno". Come nel "per-dono" rinuncio
alla vendetta, così nel "dono" rinuncio
al possesso e alla simmetria dello scambio. Nel dono è
evidente che, rimanendo nel registro dell'avere, il "donatore"
ha "qualcosa di meno", mentre il "beneficiario"
ha "qualcosa di più". La magia del dono
sta nel trasformare questo "meno" e questo "più",
in un doppio "più" del registro dell'essere.
Per questo il vero dono non è l'inizio di un processo,
di un'illimitata catena di doni e controdoni. Al dono grazioso
non risponde il dono futuro, il ricambio del controdono,
ma la gratitudine presente che lascia essere il dono in
quanto tale. Nel dono, in ogni dono, ciascuno dei due (perché
il dono è sempre duale) è insieme, beneficiario
e donatore, ciascuno dirà "grazie" all'altro.
Propriamente non ci sono più un donatore e un beneficiario,
ma due donatori, così come nell'ospitalità
non c'è più un ospitante e un ospitato, bensì
due "ospiti", come, del resto, i significanti
di molte lingue consentono. Prudhon diceva che "il
dono è il nec plus ultra del possesso". Se si
dona solo ciò che si ha, si può donare tutto
senza mai donare ciò che si è. E' in questo
senso che possiamo interpretare il gioco etimologico per
cui il nome greco del dono, ossia "dòsis",
significa sia "dono" che "porzione",
"parte". Il dono, nell'ordine delle cose che si
posseggono, è sempre il dono di una parte, di un'esteriorità.
E, in quanto quella "parte" chiede il contraccambio
di un'altra "parte", è sempre un dono avvelenato,
un dono che unendo divide, frammenta, separa, umilia, sacrifica.
Infatti, io non posseggo mai ciò che io sono. Si
potrebbe dire che il dono di sé, quello che Socrate
offre alla città, è come la "causa sui"
che è, allo stesso tempo, effetto e causa. Il dono
si dona lui stesso e nel dono non c'è più
proprietà. Il dono di sé di ciascuno è
incommensurabile, è un assoluto plurale. Nel dono,
si diceva, generosità e gratitudine sono due forme
del medesimo atto gratuito.
I modi della generosità:
sovrabbondanza e rinuncia.
La generosità è
la spontaneità donatrice, ma due sono i modi della
generosità che ci è dato conoscere. Da una
parte sta la generosità come "cifra della sovrabbondanza",
là dove il donare dipende da un surplus di vitalità
anonima, indifferente, impersonale, come nella concezione
dell'"Uno" di Plotino che dà perché
non può non dare, producendo un continuo eccesso.
A questo tipo di generosità guardano anche Nietzsche
e Bataille quando, per costruire le loro etiche dell'aldilà
dell'utile, pensano al sole, che effonde la luce dei suoi
raggi. Questa generosità come libero movimento naturale
della vita contrappone il "paradigma della spesa"
al "paradigma dell'utile", intorno al quale si
sono costituite le moderne scienze della vita. La stessa
dottrina dell'evoluzione, infatti, ci dice che la vita è
organizzata secondo la massimizzazione della capacità
di sopravvivenza - del "voler avere di più"
di vita -, sì che la selezione naturale privilegia
ciò che è utile per soddisfare questo impulso.
Tuttavia, l'etologia e l'evoluzionismo ci spiegano solo
che si vive per vivere, ma questo stesso vivere rimane,
al fondo, senza un perché ulteriore. Qual è
l'utilità dell'utile? L'immane costruzione delle
utilità strumentali della vita si scopre così
senza uno scopo e senza un fine. In fondo, come la rosa
di Angelus Silesius che evocavamo all'inizio, la vita sboccia
senza perché. Aldilà dell'utile sta la domanda
aperta, sta questo perché senza risposta. Un perché
senza risposta che permane accanto a tutte le apparenti
risposte di cui crediamo di disporre, come insegnava Socrate
incalzando come un tafàno i cittadini di Atene. Ma
aldilà dell'utile sta anche quel "sufficit"
che pare sia stata l'ultima parola pronunciata da Kant morente.
"Sufficit" - "è abbastanza" -
ci insegna un altro tipo di generosità, la generosità
come "cifra della rinuncia", quella generosità
di cui la povertà di Socrate, esibita agli ateniesi
sulla scena del processo, è testimonianza. La generosità
"come cifra della rinuncia" è l'atto d'amore
che cambia noi stessi prima di cambiare gli altri. Se la
generosità come sovrabbondanza sommerge gli altri
con l'immensa marea di cose che possediamo e, anche se donate,
continuiamo a possedere e a produrre secondo abitudine,
la generosità come rinuncia consiste, nella sua essenza,
nella capacità di fermarsi e di fare spazio agli
altri, nell'accettare di sentirci limitati e finiti. La
generosità come povertà e rinuncia è,
quindi, individuale, differente, personale. Detto altrimenti,
il dono non è la cosa donata, ma è il donatore.
Socrate è consapevole di essere il dono del dio alla
città di Atene. Sul suo capo la corona del sacrificio
diventa la corona del dono. Il dono della filosofia è,
qui, quello "stile di vita", quella "cura
dell'anima", quella padronanza dell'essere rispetto
all'illimitatezza dell'avere, che interrompe la catena rettilinea
del chiedere e dell'ottenere, che ne chiude il cerchio nella
forma ricurva, limitata e perfetta, concava e insieme convessa,
dell'anello della corona. Del resto, solo su quest'interruzione
dell'interesse e della sua infinita coazione, può
nascere quel sapere critico che, ora come allora, ha il
dovere di "dire la verità" ai molti sacrificatori
che si aggirano per la città. L'unico dono possibile
è il dono che noi facciamo della nostra cura: del
nostro tempo, dei nostri pensieri, dei nostri gesti, del
nostro lavoro. E' il prendersi cura dell'altro che nel dono
si manifesta. Quando, nei nostri doni banali, nei doni di
tutti i giorni, diciamo "è solo un pensiero",
forse, senza saperlo, del dono diciamo la cosa più
importante.
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