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ANDREA TAGLIAPIETRA, "IL DONO DEL FILOSOFO. IL DONO DELLA FILOSOFIA "

 

A. Tagliapietra, Il dono del filosofo. Il dono della filosofia, in "XÁOS. Giornale di confine", Anno I, n.2 luglio - ottobre 2002, URL: http://www.giornalediconfine.net/n_2/art_2.htm

 

Cos'è un dono?

Lo spettacolo del flusso di regali che, dall'inizio dell'epoca del consumo di massa, ogni Natale ci ripropone, invita a riflettere sul misterioso circuito del dono. Cos'è un dono? Il dizionario della lingua italiana definisce "dono", "quanto viene dato per pura liberalità, o per concessione disinteressata o per abnegazione". Dono, prosegue il Devoto-Oli, è anche ciò di cui si fruisce come risultato di una produzione (i "doni" della terra, ovvero i suoi frutti), o che si possiede come dote spirituale e fisica (il"dono" della bellezza o dell'intelligenza), vuoi come privilegio, vuoi come prerogativa esclusiva (il tocco del pianista, la mano del pittore, ecc.). La più comune concezione del dono è accompagnata dalle nozioni di generosità e di gratuità. Ma anche in questo orizzonte dell'ovvio, l'imbarazzo di chi si presenta ad un compleanno senza regali, di chi riceve un regalo senza poterlo ricambiare, o di chi scopre che il regalo degli altri è di maggior valore del suo, introduce, nel clima di festiva banalità, un elemento di inquietudine. Una microfisica dei regali, che l'industria del consumismo sasfruttare abilmente, ci dice che il regalo perfetto è quello che, a parità di costi, ci fa fare una "bella figura", ossia produce nel ricevente la miglior immagine di colui che dona. Il dono, infatti, non è la cosa donata, ma il legame che la cosa donata istituisce fra chi la offre e chi la riceve.

Filosofia del dono

Gran parte di ciò che, nel corso del Novecento, è stato detto sul tema del dono trae la sua fonte dal Saggio sul dono, scritto dal sociologo francese Marcel Mauss nel 1924. Per Mauss il dono è un "fenomeno sociale totale" in cui, attorno all'apparente libertà racchiusa nell'atto del donare, vediamo all'opera ben tre obblighi: quello di dare, quello di ricevere e quello di ricambiare.Studiando gli usi e i costumi di alcune popolazioni del Pacifico e del Nord America (ma anche con significative incursioni nel mondo classico), Mauss individua nel dono un sistema, a volte assai complesso, per stabilire relazioni fra gruppi e persone. Non solo. Il dono - sostiene Mauss - è la forma pre-economica dell'economia, il meccanismo con cui, prima di ogni mercato, viene regolata e garantita la funzione dello scambio. Infine, nel dono Mauss intuisce, al di fuori di ogni retorica della generosità, l'interesse del donatore, il fatto che ogni dono ricevuto vincola il ricevente, obbligandolo alla reciprocità. Tornando per un attimo ai nostri pacchetti di regali, ricordiamoci di come l'arrivo di certi doni da persone da cui non ce li aspettiamo, ci dia fastidio, perché sappiamo già che dovremo ricambiarli. Ma un'altra cosa che, nei regali, ci preoccupa, è l'innalzarsi esponenziale del loro valore. In questi casi, dicono i buoni padri di famiglia, un po' economi o forse solo un po' tirchi, si innesca una spirale e alla fine si spende un patrimonio. Anche l'aspetto della dissipazione prodotta dal dono era stato preso in esame nel saggio di Mauss, a proposito di quell'usanza degli indiani della costa occidentale nordamericana che si chiama "potlac". Il "potlac" è un dono agonistico che vede in lizza per il comando due donatori. Vince chi dimostra di essere in grado di "consumare" la quantità maggiore di risorse. Pensate un po' a un poker senza posta in palio, perché la posta verrà completamente distrutta, dove si fanno solo rilanci e vince colui che è in grado di rilanciare per ultimo, ancora una volta, quando l'avversario non ha più niente da puntare. Questo aspetto delle ricerche di Mauss fu ripreso da Georges Bataille nella sua "economia generale del dispendio". Per Bataille, malgrado la razionalità indichi nell'utilità il movente delle azioni, le sfere più importanti della nostra esistenza - si pensi all'erotismo, all'arte, alla cultura, alla religione, al pensiero stesso - si reggono sulla nozione di spreco, di consumo improduttivo. Non c'è sfera della vita in cui, all'utile rinvenibile nei mezzi, non subentri, proiettata nella dimensione del fine, la dissipazione e la spesa. Ogni vivente è, riguardo alla vita che non ha né ritorno né resa, come il sole, che effonde incessante i suoi raggi su ogni cosa, o come la rosa che, dice il poeta, fiorisce senza perché. Ecco allora che, per Bataille, il dono svela la dimensione in cui l'uomo realizza sovranità e godimento. Queste non risiedono, come pensano i grandi capitalisti, nell'accumulo dell'avere, ma nella libertà di essere e nella pienezza di sé che chi dona cerca di affermare. Bataille ricorda il superuomo di Nietzsche, che intende il dono non come ipocrisia dell'"amore per il prossimo", ma come ricchezza inesauribile che si riversa per "amor di sé", come il sole, specchiando la sua luce nel mare, leggiamo nello Zarathustra, fa sì "che anche il più povero dei pescatori remi con un remo d'oro".

Dono sincero e dono avvelenato

Qui il grande spartiacque, che divide l'esperienza del dono e le sue interpretazioni, è quello fra un "dono altruista", che manifesta effettivamente cura nei confronti dell'altro, e un "dono egoista", che nel dono esprime solo il donatore e la sua autosufficienza. Al primo guardano quelli che, come Alain Caillé e Serge Latouche, cercano nel dono il paradigma di un nuovo modo di concepire i rapporti economici e sociali, rifiutandosi di accettare il pensiero unico della dittatura dell'utile che il capitalismo sostiene e valorizzando quel mondo del volontariato, dell'assistenza e del "no profit" che, nella società contemporanea, sta acquistando sempre maggior peso ed importanza. Al secondo ci riporta il recente contributo di Jean Starobinski che, nel suo A piene mani, ha preso in esame il dono asimmetrico, quello della "larghezza" di chi ha nei confronti di chi è in stato di bisogno. E' questo, dimostra Starobinski, attraversando le grandi figure culturali delle pratiche fastose antiche, dell'elemosina, della carità, della beneficienza, del tributo e dell'omaggio, un dono perverso, che nasconde appena tutte le sue insidie, rendendo palese l'arroganza del donatore e l'umiliazione di colui che riceve. Il dono qui rivela quella duplicità che in alcune lingue è ancora conservata, e che associa all'idea di dono (l'inglese "gift") quella di veleno (il tedesco "Gift"). Avvelenati sono, infatti, i doni fondativi della cultura occidentale, dal fuoco di Prometeo e dal vaso di Pandora, fino alla mela di Paride e al cavallo di Troia del poema di Omero. Ma anche il frutto che Eva porge ad Adamo, nel giardino dell'Eden, non è certo un dono senza conseguenze. Avvelenato o perlomeno ambiguo, infine, è anche il dono dell'artista, la cui offerta dell'opera appare in bilico fra il dono di sé e l'affermazione di dominio, fra l'ospitalità e la provocazione. Ecco allora che, per restituire al dono la sua innocenza, è forse necessario che esso sia, come suggerisce il filosofo francese Jacques Derrida nel saggio Donare il tempo, un evento assolutamente gratuito, incondizionato e unilaterale. "Che la mano sinistra non sappia ciò che fa la destra", dice il precetto evangelico. Il dono segreto, il dono silenzioso è, in fondo, il dono perfetto, quel dono originario che è la fonte del nostro stesso bisogno di dare e di cui tutti i doni, quando sono sinceri, custodiscono memoria, perpetuandone il gesto nel tempo.

Il filosofo come "dono": l'esempio di Socrate

Il "dono" e l'"atto di donare", nella loro comune e banale ricorrenza, attraversano i Dialoghi di Platone in molteplici luoghi - ben più di una trentina fra opere autentiche e spurie -, disegnando un panorama che, forse, un giorno, meriterà di essere analizzato con cura. In questa sede selezioniamo solo alcuni passi, a partire da quella che, nell'economia narrativa dell'opera platonica, può essere ben definita la "scena originaria" della filosofia. Si tratta del "processo a Socrate" raccontato nell'Apologia. Nel corso di questo testo che, com'è noto, racchiude l'appassionata autodifesa del filosofo nei confronti dell'accusa di non venerare gli dèi della città e di corrompere l'educazione dei giovani (l'accusa - lo sappiamo - avrà successo e questo processo si concluderà con una condanna) Socrate, verso la fine del discorso che precede la prima votazione dei giudici (le votazioni saranno due) rivendica il suo ruolo e afferma di essere il "dono del dio"(dòsis toù theoù) alla città (Apologia 30d-31c). Ciò che il dio dona è il filosofo e la sua incessante attività critica descritta, nelle pagine del dialogo platonico, con la celeberrima immagine del tafano che pungola i fianchi della città. Questa attività critica - Socrate lo diceva all'inizio della sua autodifesa (Apologia 17b) - consiste nient'altro che nel "dire la verità". La vocazione del filosofo, il dono del dio alla città, è il "dire la verità alla città". Il filosofo, cioè, non è soltanto colui che cerca la verità - un analitico della verità, diremmo, come il sapiente presocratico o lo scienziato moderno -, ma è colui che trasforma questa ricerca e i suoi risultati in un'azione, in un'incalzante opera di verità offerta agli altri, in una provocazione degli altri. Il dono del dio è, quindi, la funzione critica della verità. Questa non è soltanto un dono nella prospettiva della sua origine (il dono del dio), ma ha anche la caratteristica di gratuità del dono "in actu exercito", ovvero nella dedizione con cui Socrate si prodiga nell'opera di verità. Socrate trascura tutti i suoi affari e, lo stanno vedendo i cittadini di Atene, rischia persino la sua stessa vita in nome della vocazione critica a cui è stato chiamato. La funzione critica della verità è, dunque, un atto disinteressato, che non si sottopone al registro dell'avere e del possesso. Le pratiche di verità di Socrate, il suo "stile di vita" modellato secondo la verità, non producono, per lui, né profitto, né compenso. Il testimone della verità di Socrate è la sua povertà (penìa), così come, di qui a poco, testimone di verità sarà la sua capacità di rimanere nel carcere e di rispettare le leggi, benché ingiuste (Critone) e, in seguito, di affrontare la morte senza cercare di mettersi in salvo (Fedone). La rinuncia alla libertà e la rinuncia alla vita, che accompagnano la parabola finale dell'esistenza di Socrate, sono il seguito stilistico di una vita improntata sul registro del disinteresse e dell'abnegazione. Benché altrove, come nel Teeteto (dove Socrate dichiara di aver ricevuto in dono dal dio l'arte maieutica della madre (Teeteto 210c) o nel Liside (dove Socrate afferma di aver ricevuto dal dio il dono di capire al volo chi ama e chi è amato (Liside 204c) il filosofo sia colto anche come benficiario di doni, il contraltare del dono di Socrate alla città è la sua povertà e la sua radicale rinuncia al registro dell'avere.

Il dono del filosofo non è il dono della filosofia

Il tema della filosofia come "dono del dio" ricompare in Platone in uno dei Dialoghi più tardi, il Timeo, dove leggiamo che, al di là della filosofia "non venne nessun bene maggiore, né mai verrà, al genere mortale, come dono largito dagli dèi (dorethèn ek theòn)" (Timeo 47b). Qui la filosofia è già intesa, tuttavia, come funzione teorica che conduce il filosofo a quella che potremmo chiamare la "felicità teoretica" della contemplazione, in un percorso tracciato che da Platone porta all'Etica nicomachea e alle virtù dianoetiche di Aristotele. Il "dono" è, quindi, il dono individuale di una pratica teorica che modella la vita del filosofo secondo la massima eccellenza concessa ad un essere umano. Si tratta, dunque, di un'acquisizione del filosofo, di un beneficio per la sua esistenza, di un "avere" che solo mediatamente e selettivamente (si vedano i tentativi platonici della "città ideale" e il pragmatismo aristotelico) si rivolge alla città e ad essa viene elargito. Per trovare il tratto della filosofia come "dono di sé" del filosofo - il tratto "gratuito" della filosofia -, dobbiamo, quindi, rimanere in ambito socratico. Nell'Eutifrone, il testo che precede l'Apologia nella trama narrativa dei Dialoghi platonici, si narra l'incontro fra Socrate e un supponente sacerdote (Eutifrone per l'appunto) che, come lui, sta recandosi in tribunale per discutere una causa. E ad Eutifrone Socrate si rivolge così: "tu, forse, hai l'aria di tale che raramente fa dono di sé (seautòn paréchein), e il proprio sapere non ha voglia di insegnarlo: io, invece, per certa mia natura socievole, ho l'aria, temo, di uno che quel che sa lo riversa e profonde a chicchessia; e non solo senza mercede, ma anzi prodigandomi lietamente a chiunque mi voglia ascoltare" (Eutifrone 3d).

L'Alcibiade Secondo: un dialogo sul dono

Nell'Alcibiade Secondo o Minore, un dialogo che, a detta dei filologi, pur essendo di ambiente accademico, non è di Platone e in cui abbondano gli elementi socratici, il giovane Alcibiade sta recandosi al tempio per pregare quando incontra Socrate che lo interroga su cosa egli vada a chiedere agli dèi. Il tema del dialogo è, quindi, come si affretta a sottotitolare l'editore antico dei Dialoghi Trasillo di Alessandria, "sulla preghiera", ma, giacché della preghiera si prende in esame solo il suo aspetto di richiesta di doni da parte degli dèi, il dialogo è anche, in qualche misura, un dialogo "sul dono". E del dono Socrate cerca di mettere in risalto l'insidia, la potenziale pericolosità. Analizzando l'esempio di Edipo, ma anche quello dei tiranni (e Alcibiade - giovane ambizioso e discepolo, insieme, di Socrate e di Pericle - mira indiscutibilmente a diventare signore di Atene), che ricevono in dono dagli dèi sia il loro trionfo che la loro caduta, Socrate ammonisce: "ti accorgi, dunque, com'è rischioso accettare irriflessivamente i doni (tà didòmena déchesthaì), o supplicare d'ottenerli, se può capitare in futuro che se ne colga danno o che addirittura ci si rimetta la vita" (Alcibiade Minore 141c-d). Per scongiurare questo pericolo, allora, bisognerebbe, aggiunge Socrate, pregare gli dèi con la seguente formula scaramantica, che mette al riparo dalle conseguenze imprevedibili dei doni, ovvero dalla possibilità che essi si rivelino, come si diceva in precedenza, dei doni avvelenati: "Zeus, Re, ciò che è bene daccelo tu/ sia che lo chiediamo o no in preghiera, /ma ciò che è male allontanalo tu/ anche se lo chiediamo in preghiera" (Alcibiade Minore 143a).

Socrate confuta il principio della reciprocità del dono

Nella prosecuzione dei dialogo, Socrate porta Alcibiade a riesaminare la questione della preghiera (e dell'annesso sacrificio) come un dono fatto agli dèi dai quali ci si attende, quindi, la reciprocità di un controdono. Socrate osserva che, benché gli ateniesi facciano ricchi e opulenti sacrifici agli dèi, non per questo essi accordano alla causa di Atene il loro favore, come i rovesci della guerra contro Sparta (gli spartani avevano fama di essere sacrificatori parsimoniosi e fautori di una "devozione discreta") dimostrano. Troia fu presa malgrado gli sfarzosi olocausti di Priamo (e Yahweh, aggiungiamo noi, preferì i sacrifici di Abele nonostante i sacrifici di Caino). "Io non credo", conclude Socrate, "che gli dèi siano tali che si possano corrompere con i doni (hypò dòron paràghesthai) come un volgare usuraio; ed è un ben sciocco argomento il nostro se crediamo il quel modo di superare gli spartani. Anche perché sarebbe inconcepibile che gli dèi guardassero ai nostri doni e sacrifici, ma non all'anima, se uno è pio e giusto" (Alcibiade Minore 149e). In realtà, "gli dèi sono inaccessibili aidoni (ou dorodòkoi òntes) e disprezzano tutte queste cose, come dice il dio e il suo profeta. E' probabile che gli dèi e gli uomini che abbiano giudizio tengano soprattutto in onore la giustizia e il senno; che assennati e giusti non siano altri se non coloro che sanno che cosa è doveroso fare e dire, sia in riguardo agli dèi che in riguardo agli uomini" (Alcibiade Minore 150a-b).

La corona di Alcibiade

La chiusa narrativa del dialogo è la seguente. Socrate ha ottenuto il suo scopo maieutico di indurre Alcibiade a riflettere su cosa chiedere agli dèi e, quindi, sull'atto stesso del chiedere qualcosa agli dèi. Alcibiade rinuncia ad andare al tempio perché deve prima dissipare le nebbie che avvolgono la sua anima. La corona con cui intendeva incoronare il bue da sacrificare Alcibiade la pone sul capo di Socrate. "Ma sì, questa corona qui, dal momento che mi hai ben consigliato, la porrò sul tuo capo. E agli dèi offriremo corona e tutto quanto è costume quando io veda venuto quel giorno" (Alcibiade Minore 151a). "Bous Stephaneforos" è, in greco, il nome della vittima sacrificale, il "bue incoronato" con bianchi fiori di melo delle feste Bufonie. La corona è un mobile templum, concentra l'elezione e il pericolo. Il perfetto attira su di sé la morte, perché non c'è pienezza senza sovrabbondanza, e ciò che sovrabbonda è l'eccedenza che il sacrificio rivendica a sé. Così, presso gli antichi greci, i buoi venivano incoronati quando si era sicuri che fossero perfetti per il sacrificio, "per non uccidere - ricorda Luciano di Samosata - qualcosa di inutile" (Sui sacrifici XII). Nel sacrificio il meccanismo del dono rivela la sua implicazione con l'avere e con l'utile, con la speranza di ottenere secondo il circuito del dono-controdono ben esposto da Mauss nel suo Saggio sul dono. Il dono di Alcibiade a Socrate segna Socrate come "dono sacrificale" alla città: "accetto questo dono", dice Socrate, "come sarei felice di accettare da te qualunque altro dono" (Alcibide Minore 151b). Il dialogo si conclude con i versi di una tragedia di Euripide, le Fenicie: "sono per me presagio le corone/ tue vittoriose. Perché in gran tempesta/ siamo, come tu vedi" (Fenicie 858-859).

Il mantello di Alcibiade

Alcibiade dona, ma Alcibiade è l'uomo del "voler avere di più", l'emblema, nell'Atene socratico-platonica, dell'ambizione esaltata, della sete di potere che non si arresta innanzi a nulla. Di Alcibiade conosciamo il ritratto che Platone traccia nel Simposio, là dove egli, irrompendo ubriaco sulla scena del banchetto, fra i discorsi d'amore, fa l'elogio di Socrate e rivela tutta la sfrontatezza della sua passione per lui. Alcibiade è innamorato di Socrate. Alcibiade vuole avere Socrate e il Simposio di Platone ci offre una pagina di grande delicatezza - pagina di cui si ricorderanno i poeti e i teorici dell'amor cortese, pensate, per esempio, ad un analogo episodio della saga di Tristano e Isotta - in cui Socrate passa un'intera notte accanto ad Alcibiade senza toccarlo (Simposio 218c-219d). Senza che questo amore abbia, cioè, la sua consumazione nel registro dell'avere. Anche allora lo sforzo di Socrate è quello di condurre Alcibiade su un piano diverso, in cui non si chiede, in cui non si vuole ottenere - in cui, insomma, l'eros non è questione di avere, di possesso - ma l'eros è, piuttosto, tecnica di vita, esercizio di verità con cui trasformare se stessi e diventare uomini diversi e migliori. Così Alcibiade, rinunciando ai propositi di seduzione secondo il registro dell'Afrodite terrena, stende il suo mantello sopra il corpo di Socrate - "perché era inverno e faceva freddo" (Simposio 219b) nota Platone - con un gesto di tenerezza che racchiude la cura e l'autosufficienza dell'autentico "dono d'amore". Con minor felicità e con vena letteraria indubbiamente inferiore rispetto al capolavoro platonico, l'accademico redattore dell'Alcibiade Minore ha inteso il dono della corona. Al posto di ciò che Alcibiade intendeva ottenere dagli dèi c'è Socrate e il suo magistero - il vero dono degli dèi ad Alcibiade e agli ateniesi - e Alcibiade sembra esserne contento.

Mantello e corona: dono e sacrificio.

Ma la corona non è il mantello (emblema classico del dono, pensate a Martino di Tours, alla spoliazione di Francesco, ad una fortunata tradizione dell'iconografia del dono, ecc.). Il mantello copre, protegge, tiene caldo, la corona segna, evidenzia, esalta, espone. Il mantello è utile, la corona inutile. Il mantello è discreto, al limite nasconde e tiene segreto chi ricopre e ciò che egli porta con sé. La corona, invece, è appariscente, proclama l'elezione, è come il piedistallo della statua o la cornice del quadro. Mantello e corona si contrappongono come due registri del dono. Forse il mantello è quel dono segreto, anonimo, invisibile, quel dono incondizionato, quel dono senza regole né legge che Derrida contrapponeva alle leggi del dono enunciate dal Saggio sul dono di Mauss? Al contrario la corona è quel dono visibile e insidioso che obbliga e costringe, quel dono che distingue e marca il beneficiario rispetto al donatore, quel dono che intrappola colui che lo riceve nel suo meccanismo ad orologeria. Quel dono, insomma, che non è nient'altro che un sacrificio mascherato.

Ontologia del dono.

Clemente Alessandrino scrive che, a sinistra del santuario sta l'uomo che attende restituzione, a destra Dio porrà quelli che non si aspettano reciprocità (Stromata IV,6). Il vero dono è un atto di coraggio, una forma di innocenza in cui non dobbiamo mai dimenticare le caratteristiche della rinuncia, della sottrazione, del "meno". Come nel "per-dono" rinuncio alla vendetta, così nel "dono" rinuncio al possesso e alla simmetria dello scambio. Nel dono è evidente che, rimanendo nel registro dell'avere, il "donatore" ha "qualcosa di meno", mentre il "beneficiario" ha "qualcosa di più". La magia del dono sta nel trasformare questo "meno" e questo "più", in un doppio "più" del registro dell'essere. Per questo il vero dono non è l'inizio di un processo, di un'illimitata catena di doni e controdoni. Al dono grazioso non risponde il dono futuro, il ricambio del controdono, ma la gratitudine presente che lascia essere il dono in quanto tale. Nel dono, in ogni dono, ciascuno dei due (perché il dono è sempre duale) è insieme, beneficiario e donatore, ciascuno dirà "grazie" all'altro. Propriamente non ci sono più un donatore e un beneficiario, ma due donatori, così come nell'ospitalità non c'è più un ospitante e un ospitato, bensì due "ospiti", come, del resto, i significanti di molte lingue consentono. Prudhon diceva che "il dono è il nec plus ultra del possesso". Se si dona solo ciò che si ha, si può donare tutto senza mai donare ciò che si è. E' in questo senso che possiamo interpretare il gioco etimologico per cui il nome greco del dono, ossia "dòsis", significa sia "dono" che "porzione", "parte". Il dono, nell'ordine delle cose che si posseggono, è sempre il dono di una parte, di un'esteriorità. E, in quanto quella "parte" chiede il contraccambio di un'altra "parte", è sempre un dono avvelenato, un dono che unendo divide, frammenta, separa, umilia, sacrifica. Infatti, io non posseggo mai ciò che io sono. Si potrebbe dire che il dono di sé, quello che Socrate offre alla città, è come la "causa sui" che è, allo stesso tempo, effetto e causa. Il dono si dona lui stesso e nel dono non c'è più proprietà. Il dono di sé di ciascuno è incommensurabile, è un assoluto plurale. Nel dono, si diceva, generosità e gratitudine sono due forme del medesimo atto gratuito.

I modi della generosità: sovrabbondanza e rinuncia.

La generosità è la spontaneità donatrice, ma due sono i modi della generosità che ci è dato conoscere. Da una parte sta la generosità come "cifra della sovrabbondanza", là dove il donare dipende da un surplus di vitalità anonima, indifferente, impersonale, come nella concezione dell'"Uno" di Plotino che dà perché non può non dare, producendo un continuo eccesso. A questo tipo di generosità guardano anche Nietzsche e Bataille quando, per costruire le loro etiche dell'aldilà dell'utile, pensano al sole, che effonde la luce dei suoi raggi. Questa generosità come libero movimento naturale della vita contrappone il "paradigma della spesa" al "paradigma dell'utile", intorno al quale si sono costituite le moderne scienze della vita. La stessa dottrina dell'evoluzione, infatti, ci dice che la vita è organizzata secondo la massimizzazione della capacità di sopravvivenza - del "voler avere di più" di vita -, sì che la selezione naturale privilegia ciò che è utile per soddisfare questo impulso. Tuttavia, l'etologia e l'evoluzionismo ci spiegano solo che si vive per vivere, ma questo stesso vivere rimane, al fondo, senza un perché ulteriore. Qual è l'utilità dell'utile? L'immane costruzione delle utilità strumentali della vita si scopre così senza uno scopo e senza un fine. In fondo, come la rosa di Angelus Silesius che evocavamo all'inizio, la vita sboccia senza perché. Aldilà dell'utile sta la domanda aperta, sta questo perché senza risposta. Un perché senza risposta che permane accanto a tutte le apparenti risposte di cui crediamo di disporre, come insegnava Socrate incalzando come un tafàno i cittadini di Atene. Ma aldilà dell'utile sta anche quel "sufficit" che pare sia stata l'ultima parola pronunciata da Kant morente. "Sufficit" - "è abbastanza" - ci insegna un altro tipo di generosità, la generosità come "cifra della rinuncia", quella generosità di cui la povertà di Socrate, esibita agli ateniesi sulla scena del processo, è testimonianza. La generosità "come cifra della rinuncia" è l'atto d'amore che cambia noi stessi prima di cambiare gli altri. Se la generosità come sovrabbondanza sommerge gli altri con l'immensa marea di cose che possediamo e, anche se donate, continuiamo a possedere e a produrre secondo abitudine, la generosità come rinuncia consiste, nella sua essenza, nella capacità di fermarsi e di fare spazio agli altri, nell'accettare di sentirci limitati e finiti. La generosità come povertà e rinuncia è, quindi, individuale, differente, personale. Detto altrimenti, il dono non è la cosa donata, ma è il donatore. Socrate è consapevole di essere il dono del dio alla città di Atene. Sul suo capo la corona del sacrificio diventa la corona del dono. Il dono della filosofia è, qui, quello "stile di vita", quella "cura dell'anima", quella padronanza dell'essere rispetto all'illimitatezza dell'avere, che interrompe la catena rettilinea del chiedere e dell'ottenere, che ne chiude il cerchio nella forma ricurva, limitata e perfetta, concava e insieme convessa, dell'anello della corona. Del resto, solo su quest'interruzione dell'interesse e della sua infinita coazione, può nascere quel sapere critico che, ora come allora, ha il dovere di "dire la verità" ai molti sacrificatori che si aggirano per la città. L'unico dono possibile è il dono che noi facciamo della nostra cura: del nostro tempo, dei nostri pensieri, dei nostri gesti, del nostro lavoro. E' il prendersi cura dell'altro che nel dono si manifesta. Quando, nei nostri doni banali, nei doni di tutti i giorni, diciamo "è solo un pensiero", forse, senza saperlo, del dono diciamo la cosa più importante.