AMORE E MORTE
IN UN AMORE DI DINO BUZZATI
Siamo
nel 1963; Buzzati pubblica un nuovo romanzo che - considerato
dalla critica come un "tradimento" verso i suoi
vecchi "cari" temi esotici e puliti, rigorosi,
e ambientati nel paesaggio naturale della montagna
-
scandalizza.
Il libro parla di Antonio Dorigo, un architetto milanese
di quarantanove anni, o meglio, di un artista appartenente
alla borghesia, intelligente, ricco, ma assolutamente incapace
di stabilire un rapporto reale con l'altro sesso, e per
questa ragione fa uso, di tanto in tanto, dei servizi di
una certa signora Ermelina, che gestisce una elegante casa
di appuntamenti.
Dorigo considera normale, addirittura "pulito",
"perbene, il ricorrere alla prostituzione: razionalizza,
[
], il problema dell'amore a un problema di letto
e di gusti sessuali. Ma la moralità della storia
- che è la morale della vita - lo colpisce proprio
nella persona di una delle ragazze, che si impadronisce
dei suoi sensi e dei suoi pensieri e apre un po' alla volta
ai suoi occhi un inaspettato panorama. Laide diventa il
simbolo positivo, vitale, di un esistenza altrimenti perduta.
Attraverso di lei si allontana da Dorigo il senso della
morte le giornate trascorrono si piene di angoscia, ma di
un angoscia positiva, poiché dipende dall'amore e
dal bisogno della persona amata" (1).
Questo libro s'intitola Un amore.
Seguiremo per salti alcuni momenti del testo
Ci troviamo nel particolare momento in cui Antonio Dorigo
sta per incontrare la ragazzina che cambierà il corso
degli eventi, la porta del tormento, ma che lascia sperare
la pace dopo il travaglio:
"C'era del male nel fare questo? Non mancavano a Dorigo
gli scrupoli morali. Ma per quanto ci avesse pensato a lungo
non era riuscito a trovare il punto debole. Se tutti facessero
come me, sarebbe peggio o meglio? Si chiedeva. E non vedeva
il possibile danno. Eppure c'era dentro qualcosa di turpe.
La prostituzione forse lo attraeva proprio per la sua crudele
e vergognosa assurdità. La donna, forse a motivo
dell'educazione familiare, gli era parsa sempre una creatura
straniera, con una donna non era mai riuscito ad avere la
confidenza che aveva con gli amici.
La donna era sempre per lui la creatura di un altro mondo,
vagamente superiore e indecifrabile. All'idea che una giovanetta
di diciott'anni, per guadagnare quindicimila lire, andasse
in letto, senza preamboli di sorta, con un uomo mai visto
né conosciuto, e si lasciasse godere l'intero corpo
[
]. Da questo pensiero aspro e dolente, da questa
incapacità di ammettere, nasceva però il desiderio
Ogni
volta, quando la prostituta si spogliava nuda dinanzi a
lui gli pareva un fatto quasi inverosimile, stupendo, paragonabile
ad una fiaba".
Il profilo del personaggio è sintomatico d'un'educazione
cattolica, ricevuta in tenera età, ma custodita sino
all'ingresso nell'età matura.
In questo passo potremmo indicare una certa vicinanza con
quella figura femminile delineata nelle pagine del capitolo
precedente; è da distinguere però che se per
Montale quell'indecifrabilità è comunque dovuta
ad un ambito meta-fenomenico, soglia-tramite, presenza-assenza,
in Buzzati sembra accentuarsi l'aspetto meramente concreto
di questa dinamica; la stessa "risoluzione" potrebbe
essere vista su un piano unicamente vitale, perché
nell'universo buzzatiano, come vedremo, morte diventa simbolo
di mistero, di inaccessibilità; nonostante tutto
Montale dirà di questo autore che "non respingeva
nulla della vita in quanto essa è apportatrice e
creatrice di oggetti, di cose. E gli oggetti erano per lui
uno sbarramento, un ostacolo, una porta che un giorno avrebbe
potuto aprirsi
Dino naturaliter cristiano (anche se
pagano come tutti gli artisti) poteva quasi tranquillamente
ostinarsi a bussare. E così fu per lunghi anni"
Antonio inizialmente trova la Laide una ragazza qualunque,
o forse si sforza di farlo, perché in realtà
è convinto di averla già incontrata, maturando
in sé, dopo quell'incontro l'impressione "di
quelle intuizioni dell'animo, apparentemente assurde, che
magari al momento non ci si bada ma rimangono dentro per
poi ridestarsi a distanza di mesi e di anni, quando il meccanismo
del destino scatterà
"
"Come se quell'incontro avesse
importanza nella sua vita, come se il coincidere rapidissimo
degli sguardi avesse stabilito fra loro due un legame che
non si sarebbe spezzato mai più, a loro stessa insaputa."
Così in quel preciso momento, l'architetto, spaesato
dal riemergere di quelle sensazioni, non tarderà
a mutare la propria indifferenza in ossessione.
L'incontro distratto con quegli occhi sarà la più
perfetta testimonianza d'una realtà fondamentale,
nuova per lui, che sarà la perdita della propria
libertà.
La presenza di quegli occhi sarà la via attraverso
cui si schiuderà la sua coscienza, perché
questa "nasce come presenza del terzo" (2), come
indicherà Levinas.
Inizierà così a provare una tensione verso
la Laide, che lo spingerà, una volta stabilito un
rapporto più stretto, a provar pena per la propria
condizione di inferiorità, di sottomissione; tanto
da cercare, in più situazioni e nei modi più
disparati, di legare a sé la ragazza, ormai simbolo
d'inafferrabile possesso.
Il romanzo è condotto da un senso di ansietà
che stravolge il lettore tanto quanto il protagonista. V'è
assenza d'aria nella stessa costruzione sintattica che assume
forma d'una mancata tregua.
Ma sono più le certezze che si sgretolano, nella
risonanza d'un istante che dannerà l'architetto ad
una corsa forsennata, a dar senso alla narrazione, che i
contorni in cui la stessa vicenda si snoda. Ricordiamo,
la città è Milano
la Milano degli anni
'60, magistralmente incarnata nella stessa Laide, tanto
da suggestionare e far intuire alla critica che forse proprio
questa ragazza, ambigua e contraddittoria, e proprio per
questo, simbolo malcelato del contesto urbano, rappresenta
l'unico autentico personaggio di Buzzati; ma rappresenta
anche "la femminilità come dannazione e innocenza,
la donna-fiore che meraviglia della giovinezza trionfante
anche su squallide vicende (e quante, con quanta insistenza
ce ne racconta lo scrittore: dai particolari degli incontri
nella casa-squillo della signora Ermelina ai <<servizi
speciali>> resi agli uomini dall'amata Laide) e su
compromessi penosi. Si direbbe che, alla lontana, abbia
operato in Buzzati il filone addirittura zoliano di Nanà,
la femmina che rovina gli uomini, e l'idea decadente della
donna-mantide fin di secolo, i cui simboli sono viluppi
di fiori spesso mortali. Si leggano, nel romanzo, le numerose
identificazioni di Laide con creature innocenti, bestioline,
fiori e, in quella rassegna di tutti i motivi buzzatiani
che è Poema a fumetti, la seguente descrizione dell'amore:
"Nel dormiveglia,
lei vicinissima diventava uno strano
paesaggio, tenero, carnale, profondo, perituro, fiore.
Nell'essere fiore già l'addio."(3)
Come similarmente in Un amore:
"Eppure, in quella svergognata e puntigliosa ragazzina
una bellezza risplendeva ch'egli non riusciva a definire
per cui era diversa da tutte le altre ragazze come lei,
pronte a rispondere al telefono. Le altre, al paragone,
erano morte. In lei, Laide, viveva meravigliosamente la
città, dura, decisa, presuntuosa, sfacciata, orgogliosa,
insolente. Nella degradazione degli animi e delle cose,
fra suoni e luci equivoci, all'ombra tetra dei condominii,
fra le muraglie di cemento e di gesso, nella frenetica
desolazione, una specie di fiore".
Attraverso
un'analisi più intima si potrebbe insistere sull'interpretazione
d'una ribellione che la ragazza manifesta nei confronti
di quel che rappresenta il suo amante-nemico; in cui si
immedesima il volto delle ragioni che l'hanno compromessa,
le hanno fatto perdere la purezza
e così la
punizione, la sua determinata capacità di diventare
imprendibile, ingestibile, imprevedibile e perfida.
Ed è questa dimensione che rimarca il vuoto sbilanciante
ed allo stesso tempo suadente che corrode Dorigo.
L'Attesa
"tumulto d'angoscia suscitato dall'attesa
dell'essere amato in seguito a piccolissimi ritardi (appuntamenti,
telefonate, lettere, ritorni)"(4).
Vi sono innumerevoli momenti d'attesa nella vicenda dell'architetto,
attimi interminabili di sconcerto davanti alla propria impotenza:
i lunghi ritardi della Laide.
Barthes dice che "vi è una scenografia dell'attesa:
io la organizzo, la manipolo, ritaglio un pezzo di tempo
in cui mimerò la perdita dell'oggetto amato e provocherò
tutti gli effetti di un piccolo lutto. Tutto questo avviene
dunque come in una recita
"e ancora: "L'attesa
è un incantesimo: io ho avuto l'ordine di non muovermi.
L'attesa d'una telefonata si va così intessendo d'una
rete di piccoli divieti, all'infinito, fino alla vergogna:
proibisco a me stesso di uscire dalla stanza, di andare
al gabinetto, addirittura di telefonare (per non tenere
occupato l'apparecchio); per la stessa ragione, io soffro
se qualcuno mi telefona; l'idea che di li a poco dovrò
uscire, correndo così il rischio di essere assente
al momento dell'eventuale chiamata riconfortante, del ritorno
della Madre, mi tormenta. Tutti questi diversivi sono dei
momenti perduti per l'attesa, delle impurità d'angoscia,
poiché, nella sua purezza, l'angoscia dell'attesa
esige che io me ne stia seduto in una poltrona con il telefono
a portata di mano, senza far niente"(5).
Attesa di Dorigo, impaziente, consumato dall'ansia di "avere"
davanti ai propri occhi il simbolo della sua stessa ansia.
Attesa di Dorigo - ritardo non curante della Laide.
Contrapposizione continua per tutta la trama
"e sempre più Dorigo la desiderava benché
non fosse sua, benché fosse di altri uomini ignoti,
di moltissimi altri uomini ch'egli odiava sforzandosi di
immaginarli: alti, disinvolti
"
"Non era bella, era pallida, aveva un segreto e fastidioso
pensiero. Lui continuava a guardarla, lei non rispondeva".
Nonostante tutto lui continua nella sua rincorsa forsennata.
Senza ragione
"perché se la prendeva tanto? Perché
continuava a pensarci? Di che cosa aveva paura? Che la Laide
scomparisse? Figurarsi. Bastava un colpo di telefono (
).
No aveva un bel fare questo ragionamento. Non bastava. Lei
sarebbe accorsa, è vero (
), ma tutto in fondo
si riduceva a mezz'ora un'ora al massimo (
). Ma il
resto? Tutte le altre ore della giornata e della notte?
(
). La sua vera vita, speranze, divertimenti, gioie,
vanità, amori, era altrove (
). Laggiù
era il misterioso affascinante, forse anche turpe e squallido
mondo a lui vietato".
Nulla esiste oltre la malattia che lo divora, ogni cosa
lo riconduce al pensiero di lei, della sua devastante effimera
arsura.
Eppure sarebbe bastato poco. "Gli basterebbe - pensava
- che la Laide diventasse un poco sua, vivesse un poco per
lui".
D'improvviso ci si avvede che il tentativo di possesso,
diviene un esser catturati, posseduti da un'immagine irreale
creata a propria necessità.
Non il rapporto fisico, ma l'essenza dell'altro, la sua
libertà, interamente per noi.
Nel romanzo è raccontato un passaggio in cui i due
protagonisti si trovano soli in un appartamento adibito
a garçonniere per i loro incontri privati. La Laide
mette su un disco ed inizia a ballare
ecco, quest'atto
così naturale, semplice, apparentemente innocuo -
E' il cha-cha-cha più bello che ci sia. Los cariñosos
- è l'ansia che divora l'uomo che la guarda, è
come un'esistenza che s'innalza da sé, monade irraggiungibile
che irradia la vita.
Pura ansia, fatta d'ansia che pure è sollievo. E'
uno dei pochi attimi di tregua per cui, nella contemplazione
dell'oggetto del desiderio, per un istante, distante dallo
squallore che fagocita fuori della stanza, luogo senza tempo,
vale la pena correre il rischio e l'assurdità dell'
impossibile relazione.
Ed è il tempo, nella sua incessante forza che trascina
verso un punto ignoto, uno dei temi cari a Buzzati, a forgiare
ogni minima sfumatura o ricchezza di questa angoscia.
Oltre quella danza, oltre quella stanza, oltre la Laide
la sola morte.
"Tale è la Laide che, ballando il cha-cha-cha
da sola dinanzi a un uomo al lei estraneo, si trasforma
in disinteressato gesto di bellezza, diventa una rosa, una
piccola nube, un innocente uccellino, lontana da ogni bruttura,
realizzando così un suo minuto di purezza".
Eppure "inganna" Antonio sulle sue altre innumerevoli
relazioni, incontri e viaggi di lavoro, per cui si "dovrà"
spostare, chiedendo a lui di accompagnarla alla stazione
e di andare a riprenderla in macchina.
Ed è in uno di questi atti di disponibilità,
di dipendenza, che si inquadra il tema del Tempo e della
sua corsa disarmante
"
partì alle sei e mezzo. Trovò
le strade vuote. Peccato che il cielo fosse grigio.
Ogni volta che il piede premeva sul pedale dell'acceleratore
era uno spazio in meno che lo separava da lei. [
]
Lei era laggiù in fondo, oltre l'orizzonte, lontanissima
ancora. [
] Poi gli parve che nel loro moto, corrispondente
in senso inverso allo spostamento della macchina, i filari
dei pioppi intendessero dirgli una cosa. Si, la fuga degli
alberi [
] aveva assunto una speciale intensità
di espressione come quando uno sta per parlare.
Lui correva, volava anzi in direzione dell'amore e pure
gli alberi che scivolando al limite delle praterie, erano
portati via da qualcosa più forte di loro. Ciascuno
aveva una sua fisionomia, una forma speciale. Una sagoma
diversa. Ed erano tanti, migliaia e migliaia. Eppure una
comune forza li trascinava nel gorgo. Tutti i pioppi della
smisurata campagna fuggivano esattamente come lui ruotando
in due vastissime ali ricurve. [
] E lei era laggiù,
in fondo, dietro l'ultimissimo sipario di alberi anzi molto
più in là. [
] Era sola?
Allora egli capì il senso di quel naturale incantesimo.
Che cosa infatti volevano dirgli i filari di pioppi all'orizzonte
che vanno in corteo e sembrano sfuggirlo e nello stesso
tempo corrergli incontro, per poi allontanarsi alle sue
spalle, nella nebbia, consumati, mentre nuove schiere appaiono
dinanzi inesauribili precipitandosi su di lui? Di colpo
egli capì ciò che dicevano, capì il
significato del mondo visibile allorché esso ci fa
restare stupefatti e diciamo <<che bello>> e
qualcosa di grande entra nell'animo nostro.
Tutta la vita era vissuto senza sospettarne la causa. [
]
Un segreto molto semplice: l'amore. Tutto ciò che
ci affascina nel mondo inanimato, i boschi, le pianure [
]
contengono un presentimento d'amore. [
] Che interesse
avrebbe una scogliera, una foresta, un rudere se non vi
fosse implicita un'attesa? E attesa di che se non di lei,
della creatura che ci potrebbe fare felici? [
] Era
una intuizione così bella e geniale che in altre
circostanze egli ne avrebbe avuto soddisfazione. Ma proprio
per la sua esattezza, oggi a lui procurava solamente dolore.
L'espressione degli alberi fuggenti corrispondeva infatti
alla condizione del suo amore; il quale era stolto e disperato.
Egli correva in direzione di lei benché sapesse che
laggiù lo aspettavano soltanto nuovi affanni, umiliazione
e lacrime. [
] I pioppi della pianura [
] sembrava
che gli dicessero: fermati, uomo, fa dietro front, non pensare
più a lei e seguici, non correre alla tua rovina.
Noi ti condurremo al remoto paradiso degli alberi dove esiste
soltanto benessere, canto di uccelli e pace dell'animo.
Non ostinarti.
Era così persuasivo il loro discorso che a un tratto
egli fu preso da un turbamento interiore, si spostò
sulla destra e si è fermato. Ma nello stesso istante
si è fermato tutto il paesaggio intorno [
]
: i pioppi non fuggono più, non gli dicono più
fermati, non osano dirgli più niente perché
capiscono che non c'è nulla da fare, gli alberi gli
dicono si è vero, laggiù in fondo, al sud,
dove la strada finisce, c'è lei che aspetta per farti
dannare, ma non importa, tanto!
Tanto, il sole è già alto,
e noi non ti possiamo salvare".
Quest'intero scorcio svela un fatalismo che imprime una
certa tensione spaventevole ad ogni gesto compiuto in seno
alla "stolta" corsa. L'intuizione della propria
perdizione suggerita dall'invito degli alberi a non ostinarsi.
Ma la stessa intuizione è la ragione della corsa.
Intuizione d'un amore che divora, ma che dà senso
ad ogni fatale catastrofe.
Andare incontro al proprio disastro, al proprio fato di
irrealizzabile quiete.
Antonio tenterà di legare a sé Laide attraverso
la pratica del denaro, che, da sola, non basterà
a garantire il diritto alla fedeltà, all'esclusività
del rapporto. Denaro che è materia, e che in quanto
tale può garantire solo un possesso materiale, provvisorio,
illusorio, non certo la disponibilità gratuita della
libertà e dell'impulso offertorio della propria anima.
E così l'amata resterà al di fuori della "proprietà"
dell'amante. Senza conforto alcuno per quest'ultimo, e senza
certezze.
Ed una volta realizzato questo l'amante sarà gettato
nel sentimento più "pubblico" della gelosia.
Stadio per cui lo stesso Antonio passerà non restandone
illeso.
Sofferenza per la mancata esclusività, per lo stesso
sentimento irrazionale provato, sofferenza di essere non
più singolare, perciò amabile in quanto tale,
ma esser come tutti gli altri, ritrovandosi di rimando nella
"fiumana" di tutti i possibili pretendenti, ma,
a questo punto e per queste stesse motivazioni, meno privilegiato,
perché più debole, perché banale. E
sarà la gelosia di Dorigo la ragione portante del
diniego di sé della Laide, di concerto con i diritti
da lui pretesi per via del "patto" di versarle
cinquantamila lire a settimana in cambio di una maggiore
disponibilità ai loro incontri, in cambio della possibilità
di avere un po' di lei per sé.
Gelosia che porterà ad affrontare scenate ed interrogatori
asfissianti a cui la Laide svierà mentendo e chiudendosi
sempre più. Menzogne a cui lui crederà, perché
senza scelta, perché costretto dal timore di perderla
per sempre, pur nei suoi gesti capricciosi, sconvenienti,
ma carichi di vita.
E' paura di perdere la propria vita.
La "propria" libertà.
"No, senza di me tu non sei capace di vivere. E io
non riuscii a rispondere niente avrei potuto ribattere con
cento frasi altere sferzanti o spiritose invece non risposi
niente ancora una volta ero fallito, lei mi aveva sconfitto,
la ragazzina mi teneva nelle mani piccole delicate gentili
terribili mani ma non stringeva, aveva fatto appena una
minuscola contrazione tanto per farmi capire."
E' paura di perdere la propria vita, la "propria"
libertà.
Ed in quelle parole "No, senza di me tu non sei capace
di vivere" la nullificazione della libertà dell'amante,
l'umiliazione della fierezza dell'orgoglio nella dimensione
che va oltre il semplice vassallaggio amoroso, è
coscienza di non poter respirare, di non potersi muovere
oltre i limiti del proprio sentimento, oltre l'istanza della
volontà dell'amata; che assoggetta più volte
il proprio "servo", quando non contraccambia.
Così il soggetto amoroso, amante, veste l'abito dell'oggetto,
soggetto passivamente alla "sfera" dominante,
che nell'immobilità svolge la propria attrazione.
"No, senza di me tu non sei capace di vivere ed era
vero sacrosanta e crudele verità".
All'interno della dinamica teatrale che Roland Barthes traccia
nel 'discorso amoroso', alla voce Dipendenza troviamo un
appunto relativo alla reazione al proprio vano assoggettamento:
"è a questo punto che incomincio a impuntarmi,
poiché la decisione superiore di cui io sono l'oggetto
ultimo e come appiattito mi sembra in questo caso totalmente
ingiusta: non mi trovo più nella Fatalità
che da buon soggetto tragico io mi ero scelto. Sono giunto
a quello stadio storico in cui il potere aristocratico comincia
a subire i primi colpi della rivendicazione democratica:<<Non
capisco perché dovrei essere io a, ecc.>> (6).
Ma ogni tentativo di ribellione, nella trama del romanzo
concretizzato con la decisione di "lasciare" Adelaide
si presenterà infruttuoso. L'attrazione ha superato
quel limite oltre cui non è possibile sottrarsi.
"Si ero vecchio un vecchietto tenuto, con tutto il
mio mondo smisurato, entro il caldo e tenero cavo di una
delle sue mani assai graziose e curate ciononostante una
energia grande mi teneva su benché fossi vecchio,
ero vecchio di anni questo si ma in fatto di animo ero giovane
per lo meno come probabilmente anzi più di lei, questa
energia inoltre non era cattiva non era sporca [
]
e là in fondo si spappolerà ma intanto vive
vive, misericordia di Dio era l'amore."
Quest'energia grande si ritroverà in conclusione
del libro, dopo il riavvicinamento dei due amanti, quando
in un momento di quiete notturna Antonio guarda la Laide
che dorme dopo la confessione del desiderio di maternità.
Ogni cosa è immobile, silenziosa come mai prima.
"<<Senti, Antonio, devo dirti una cosa [
]>>
<<E allora?>>
<<Allora niente. Io voglio avere una bambina>>."
Tutto, allo sguardo che accarezza la ragazza addormentata,
assume un senso di pace, di quiete, di guarigione. Dubbi,
affanni, telefonate che non arrivano, confessione, strade,
scale, voci, musiche ormai si dissolvono.
"Tutto il mondo era soltanto lei".
Finalmente tregua che può ristorare, ma anche così
Antonio non è sazio. La conclusione d'ogni angoscia
suscitata dall'amore, non appena sfumata lascia il passo
alla più antica paura.
"Come aveva potuto dimenticare una cosa così
importante? Adesso era là di nuovo si ergeva terribile
e misteriosa come sempre, anzi sembrava alquanto più
grande e più vicina. Si l'amore gli aveva fatto completamente
dimenticare che esisteva la morte. Per quasi due anni non
ci aveva pensato neppure una volta, sembrava una favola,
proprio lui che ne aveva sempre avuto l'ossessione nel sangue.
Tanta era la forza dell'amore. [
] Ma intanto lei,
portata via dal sonno, inconsapevole del male che ha fatto
e che farà, si libra sotto i tetti i lucernari le
terrazze le guglie di Milano, è una cosa giovane
piccolissima e nuda, è un tenero e bianco granellino
sospeso pulviscolo di carne, o di anima forse, con dentro
un adorato e impossibile sogno".
Breve appunto
Merita attenzione anche un altro breve
romanzo "fantascientifico" che Buzzati pubblicò
nel 1960, Il grande ritratto, in cui i temi dell'ossessione
amorosa, balsamo vitale, e perciò rientrante a pieno
titolo nella nostra indagine, assumono i termini del paradossale.
Si arriva a narrare di come un surreale scienziato riesca
a dar vita, o meglio a ridar vita alla più che amata
moglie, morta anni addietro in un incidente.
Apparentemente distante da Un amore, per via di quella trama
così poco tradizionalmente veridica, in realtà
potrebbe essergli accostato per la ricerca di incatenare
una volta per tutte l'essenza dell'amata, infedele e bugiarda
in vita, in un villaggio incredibilmente vasto di ingranaggi
e complicati software.
E riplasmando sotto spoglie metalliche e numeriche il quid
di Laura, lo scienziato cercherà di imbrigliarne
la libertà; dandole proprio quest'ultima, rendendola
in grado di "stupire" con i propri "pensieri"
autonomi l'attenzione dell'uomo.
Ma sarà il gesto di conferirle la capacità
della coscienza che renderà palese l'impossibilità
di possederla. Quando Laura si renderà conto di esser
stata reificata in un insieme di oggetti inanimati, idealizzata
secondo i desideri dell'amante costruttore, si ribellerà
portando alla rovina l'intero progetto, mentendo ed uccidendo
per esser distrutta. Preferendo la distruzione alla coscienza
di non esser più - ciò che in vita le era
concesso di natura - libera , e padrona del proprio corpo,
della propria autonomia di scelta.
Vengono riportati esattamente i temi dell'amore, della disperazione
di possedere l'ineffabile libertà altrui, come libertà,
e il tema della morte, come termine ultimo, come scadenza
delle possibilità di realizzare in vita la vita
e
tutto perché un moto interno di speranza può
lenire ogni terrore di smarrimento:
"solo vederla, la sera, mi bastava, quando tornavo
a casa [
]. Mi bastava vederla. Il suono della voce.
Quel suo sorriso da bambina".
La sospensione, per un attimo, d'ogni tormento, d'ogni morte.
DALL'ALIENAZIONE
ALLA CONTEMPLAZIONE: LA NOIA DI ALBERTO MORAVIA
Un
bicchiere è un bicchiere; detto in altre parole una
cosa è una cosa; e ancora
la realtà
è la realtà.
Sarà convinzione di Moravia che "il ricorrere
sempre più all'azione come alla sola maniera di agire,
oscura sempre più nel mondo moderno ogni possibile
idea dell'uomo, e costringe sempre più l'uomo a porsi
dei fini materiali e a servirsi dell'uomo come mezzo"(7).
Azione e fini materiali, questo è da riconoscere,
all'interno di una realtà concreta e storica.
"La storia" secondo questo scrittore "è
una concezione umanistica legata all'arco della vita umana,
legata cioè all'idea della nascita esistenza morte
dell'uomo. Quanto dire che la storia insomma è modellata
sull'uomo [
]. Il concetto di storia insomma è
umanistico"(8).
Pone delle rilevanze che dovrebbero rivestire l'umore collettivo,
per acquisizione culturale, secondo un modellamento in linea
di massima uniforme.
Dovrebbe creare le condizioni "ideali" di riconoscimento
da parte ovviamente dell'uomo, in un epoca, quella attuale,
ma in realtà concretizza una condizione assolutamente
opposta.
Le forme di organizzazione produttiva, i cicli sempre più
intensi di produzione e di consumo spodestano l'uomo dal
suo podio privilegiato di centro del mondo, rendendolo "un
semplice anello di congiunzione tra due cicli"(9),
alienandolo dalla realtà e sino a condurlo a non
trovare agio o conforto alcuno neppure nella sfera spirituale.
Alienazione che diventa un profondo senso di distacco da
ciò che è reale, concreto; da ciò che
ha una storia.
Così, la noia è il "non-sentimento",
la disposizione d'animo, non solo intellettuale, di chi
riesce ad avvertire questo divario col mondo degli oggetti
e delle persone, a loro volta alienate, "annoiate",
che assumono l'irrilevanza dell'indifferenza.
Perciò se dovessimo creare una sorta di progressione
vedremmo in principio di questa analisi moraviana un rapporto
discordante con la storia, quindi con la realtà,
che innesca un disorientamento, un disordine emotivo-intellettuale,
definibile appunto come alienazione (ci limiteremo in questa
sede ad indicare l'evidente richiamo all'alienazione in
Marx, non insistendo su questa linea perché distoglierebbe
l'attenzione dai nostri fini).
Questa particolare indifferenza alle cose porta al tentativo
di risoluzione della "crisi" attraverso il possesso
della stessa realtà - che sfugge continuamente -
in diversi modi e secondo diversi approcci, il più
sintomatico dei quali è inquadrato nel rapporto fisico.
Questa crisi, seguita dal suo successivo momento, porterà
a degli esiti di cui avremo modo di parlare avanti.
Questo il tema trattato da Moravia ne La noia.
Il personaggio di Dino, pittore che, nella consapevolezza
della propria incapacità di stabilire un qualsiasi
rapporto con la realtà, vive un blocco che gli impedisce
di dipingere, vive un distacco che nella tela è rappresentato
dal bianco della superficie del tessuto inviolato, cerca
di ribellarsi a questa condizione di impotenza, e così,
come gesto iniziale, squarcia la stessa tela.
Inizia ad accorgersi della sua situazione quando, osservando
gli oggetti che lo circondano, toccandoli, capisce che non
hanno più significato, né il senso della loro
utilità; gli risultano "noiosi", non nel
senso della monotonia, ma indifferenti, incapaci di comunicare
il benché minimo sollievo, anche quello della "normalità",
della "quotidianità".
Questa sensazione diviene ancora più acuta in ragione
dell'intuizione dell'esistenza di un'altra dimensione del
mondo, oltre quella della storicità, e cioè
quella naturale.
In questo modo si configura la contrapposizione di due ottiche,
quella della storia e della realtà, e quella della
natura, quest'ultima in grado, almeno ipoteticamente, di
confessare il senso ultimo delle cose, in grado di permettere
la comunicazione, la comprensione; ed è verso questa
direzione che si compirà lo sforzo di superare la
noia che Dino esperisce.
Quando alla conclusione di questa ricerca si accorgerà
che tutte le sue azioni rivolte a questo scopo saranno fallimentari,
tenterà il suicidio con la macchina (ma anche in
queste circostanze agendo...).
Al risveglio, in una clinica "neutrale" rispetto
agli scenari contestualizzati nel romanzo (come il suo studio,
la casa della madre, la stessa città, con la sua
fretta, la sua frenetica mobilità) , non potrà
fare a meno di considerare il suo ultimo tentativo, vanamente
attuato perché ancora in vita, la dimostrazione che
l'azione, ogni tipo d'azione - diretta, attraverso il possesso
della realtà, a scemare l'indifferenza, l'alienazione
- non potrà conseguire nessun risultato effettivo.
Unica via d'uscita sarà la contemplazione inattiva,
perché come s'è detto all'inizio, la realtà
è unicamente la realtà, e non può esser
posseduta: "può essere semplicemente contemplata,
nessun possesso può essere esercitato su di lei e
dunque se l'autentico è la contemplazione, l'inautentico
è l'azione. Ma avere coscienza di questa autenticità
è già porre l'ipotesi d'una realtà
anche dell'inautentico. In definitiva la contemplazione
è una irrealtà cosciente, disperante e amara
appena se ne avverta l'esistenza: Cecilia è reale,
nel suo operare, ma appena Dino si arrende all'evidenza
della sua concretezza, rinuncia alla possibilità
di capirla e dunque di possederla. Rinunciando alla realtà,
a farsi cosa egli stesso tra le cose, e dunque alienato
per partecipare all'esistenza delle cose rinuncia ad esserci,
ad ammettere o a cercare una propria sostanza, anche nella
più infima contraddizione"(10).
Ed è il personaggio di Cecilia
la chiave per risolvere ogni dubbio.
Dino abita in un palazzo di Via Margutta, a Roma, e come
vicino ha un pittore, famoso nel circondario più
per le sue "sfrenate" abitudini sessuali che per
la sua pittura, il Balestrieri.
Cecilia è una delle sue tante modelle-amanti, e sarà
dopo la "misteriosa" morte del pittore che i due
si conosceranno (
morte dovuta, almeno a quanto "riveleranno"
le maldicenze, al suo rapporto morboso con la giovane modella,
alimentando l'alone del misterioso fascino di Cecilia).
E' importante la descrizione fornita della voce e dello
sguardo di lei per comprenderne il carattere, assolutamente
corrispondente agli stessi:
"Una voce incolore e neutra, di una esattezza ed economia
di tono da dare quasi il senso della reticenza [
];
La vidi guardarmi un momento con i suoi grandi occhi scuri
che piuttosto che osservare gli oggetti parevano rifletterli
senza vederli".
La totale ed insostenibile assenza d'un colore predominante
del carattere di Cecilia rimarcherà la sua sfuggevolezza,
rendendola il centro delle ossessioni di Dino, che cercherà
di delimitarla in un cerchio ben definito per poterla "comprendere
e perciò possedere".
Cercherà attraverso interminabili interrogatori,
così come abbiamo riportato per il protagonista di
Un amore, di metterla alle strette, nella speranza di poterla
ridurre ad una "macchia" evidente, ad una dimensione
di catturabilità, per assimilarla a sé, e
così, superato ormai il limite della distanza, riuscire
a provarne noia e facendola diventare una cosa, per non
soffrire.
Si renderà conto però troppo tardi di essere
come rapito dall'imprevedibilità di lei, ottenendo
in cambio di tutti i suoi sforzi soltanto altra ostinazione
per un magnetismo inarrestabile che non può essere
ridotto ad una qualsivoglia oggettività.
Cecilia dà l'idea di trovarsi nella stessa condizione
di mancanza di rapporti con la realtà, ma con una
differenza: Dino cerca disperatamente questo rapporto, lei
sembra un diamante grezzo lavato con dell'acqua; l'acqua
lo lambisce, lo lava, ma passa oltre, defluisce senza lasciar
traccia, e il diamante non fa niente per fermare l'acqua,
nello stesso modo Cecilia, immersa nella realtà,
sembra trapassata dagli eventi, senza che questi provochino
in lei la minima reazione; la morte di Balestrieri, per
esempio, sarà soltanto la fine della sua vita, tanto
quanto la camera di Cecilia sarà descritta, da lei
stessa, come una normalissima camera, con delle sedie, una
scrivania, un letto, senza nessuna caratterizzazione personale,
senza nessuna differenza di sentimento o disposizione d'animo
tra la morte e la camera.
Assume, in questo contesto di "neutralità",
o se si preferisce di "aridità", una rilevanza
specifica il rapporto fisico. Dino vedrà nel sesso
l'unico mezzo per possedere la ragazza. Possederla attraverso
il suo corpo, la sua fatticità, dato che sentimenti
e valori si dispongono secondo un distacco di vaghezza e
sfumatura.
Il sesso non sarà, in questo romanzo, semplice momento
di sfogo erotico della narrazione, ma percorso di riscatto
da una realtà indistinguibile ed assurda.
Dino, nell'atto sessuale, avrà l'illusione di stabilire
un legame concreto con la ragazza e di riflesso con il mondo;
convinto di trovare in lei il fondamento della possibile
relazione con esso.
Una comunicazione ed una comunione oltre l'indifferenza
e la noia.
Ma alla conclusione dell'atto saranno nuovamente disperazione
e angoscia per la sfumata possibilità di essere "salvati"
dalla propria "malattia in-fondante".
"L'unico vero legame fra l'uomo e la donna è
quello del sesso, ma questo legame, per la facilità
stessa con cui si contrae e si scioglie esclude un'intesa
profonda fra le anime"(11)
questo il parere di
Dominique Fernandez.
L'idea di riuscire a possedere l'impenetrabilità
dell'amata, nonostante la sua disponibilità fisica,
non fa che allontanare ulteriormente i due personaggi.
Di questo modo sarà inutile sfoltire o addensare
gli incontri, sarà inutile la gelosia di Dino che
arriverà a pedinare Cecilia, sarà inutile
anche il rimarchevole uso di pagarla per averla e poterla
etichettare come avida, ambiziosa, a sua disposizione, e
così, definendola, provarne noia.
L'amore di Dino sarà condizionato anche dal ceto
in cui è nato e cresciuto, la borghesia; e non mancherà
il progetto di accasarsi, molto "borghesemente"
secondo lui stesso, con Cecilia, per relegarla alla condizione
di moglie, legandola a sé tramite un "contratto"
sociale e in ragione di ciò, non provar più
arsura di lei, tramutandola nell'immagine di ricca donna,
uguale a quelle ricche donne che incarnano il senso di distacco
da lui sempre respinto.
L'accanimento nei confronti della ragazza, agli occhi del
giovane pittore, diviene anche simbolo della possibilità
di riuscire a riprendere a dipingere. Possedere Cecilia
per esser libero di praticare i colori sulla tela.
e diverrà crudele , la comanderà a bacchetta
per convincersi del proprio dominio del reale, ottenendo
però in risultanza soltanto la sua disponibilità,
un'altra volta ancora fisica, notando in lei l'accentuarsi
della sua misteriosa inafferrabilità tutt'altro che
oggettivabile.
Cecilia tradirà con un attore, un certo Luciani,
Dino, che dopo le prime ribellioni accetterà la nuova
situazione, per amore di lei, accetterà di sottomettersi
ad un rapporto, tutt'altro che esclusivo, a tre, nella speranza
di riuscire a raggiungere il suo scopo.
Ma quando Cecilia deciderà di partire in vacanza
con l'attore, Dino tenterà il suicidio; e sarà
quest'atto a profilare in lui la convinzione della vanità
di tutti i suoi tentativi.
"Proprio
di fronte alla finestra della mia stanza, nella clinica
in cui ero stato trasportato dopo lo scontro, si alzava
nel giardino un grande albero [
]. Presi a guardarlo
per ore [
] , tutte le ore, in realtà, che non
dedicavo al sonno e ai pasti, perché ero quasi sempre
solo [
] .
Guardavo l'albero e provavo un sentimento di disperazione
totale, ma calma, e per così dire, stabilizzante,
quale appunto si può provare dopo essere passati
attraverso una crisi, che, pur non essendo risolutiva, si
suppone tuttavia che sia il massimo che si possa affrontare
[
] se non altro, mi faceva pensare che avevo fatto
quanto era in mio potere; più di questo non avrei
potuto fare [
]. Tutto questo non mitigava il sentimento
di disperazione che mi occupava l'animo; ma v'introduceva
una certa quale serenità funebre e rassegnata [
],
non mi restava che vivere [
].In realtà non
ero quieto, ero soltanto fortemente occupato dalla sola
cosa che in quel momento mi interessasse davvero: la contemplazione
dell'albero. Non pensavo niente, mi domandavo soltanto quando
e in che modo avevo riconosciuto la realtà dell'albero,
ossia ne avevo riconosciuta l'esistenza come di un oggetto
che era diverso da me, non aveva rapporti con me e tuttavia
c'era e non poteva essere ignorato. Evidentemente qualche
cosa era avvenuta [
]; qualche cosa che, in parole
povere, si poteva definire come il crollo di un'ambizione
insostenibile.
Adesso contemplavo l'albero con un compiacimento inesauribile,
come se il sentirlo diverso e autonomo da me, fosse stato
ciò che mi faceva maggiore piacere [
]. Qualsiasi
altro oggetto, come mi rendevo conto, mi avrebbe ispirato
lo stesso genere di contemplazione, lo stesso sentimento
di inesauribile compiacimento. E infatti, appena cominciai
a pensare di nuovo a Cecilia, mi accorsi che mi avveniva
lo stesso di quando guardavo, attraverso la finestra, all'albero.
Erano trascorsi dieci giorni dallo scontro e Cecilia si
trovava certamente ancora a Ponza con Luciani [
].
Sapevo per esperienza che felicità sia trovarsi con
la persona che si ama e che ci ama, in un luogo bello e
calmo, ero sicuro che Cecilia pur nella sua maniera economica
ed inespressiva, era felice, e mi stupivo di accorgermi
che ne ero contento. Si, ero contento che fosse felice,
ma soprattutto ero contento che lei esistesse, laggiù
nell'isola di Ponza, con l'attore; e noi eravamo due e lei
non aveva niente a che fare con me e io non avevo niente
a che fare con lei, e lei era fuori di me, come io ero fuori
di lei. E, insomma, io non volevo più possederla
bensì guardarla vivere, così com'era, cioè
contemplarla [
].
Questa contemplazione non avrebbe mai avuto fine appunto
perché io non desideravo che finisse, cioè
non desideravo che l'albero, o Cecilia, o qualsiasi altro
oggetto al di fuori di me, mi annoiasse e di conseguenza
cessasse per me di esistere. In realtà, come mi accorsi
improvvisamente, con un senso quasi di meraviglia, io avevo
definitivamente rinunciato a Cecilia; e, strano a dirsi,
proprio a partire da questa rinunzia, Cecilia aveva cominciato
ad esistere per me. [
] Così alla fine, il solo
risultato veramente sicuro era che avevo imparato ad amare
Cecilia, o meglio, ad amare senza più. Ossia speravo
di avere imparato
"
Questa
riflessione che conclude il libro, esprime tutta la gratuità
della realtà, e quindi d'ogni reale rapporto col
mondo, che Dino scopre dopo l'incidente.
Ossia il tentativo di trovare un nesso rivelatore, il nesso,
attraverso il possesso della fondatezza del proprio essere,
la conoscenza sicura
viene ripagato con il fallimento
d'ogni movimento. Ed è proprio la natura, nella fattispecie
l'albero, a suggerire questo nuovo senso di stabilità,
di riparo dal travaglio esistenziale. La gratuità
della vita nella sua più totale irrazionalità.
E che cos'è Cecilia, nell'arco di tutto il romanzo
se non questa gratuità che Dino non riesce a comprendere
sino a che ne cercherà le ragioni, il senso?
L'inspiegabile capacità della ragazza di defluire
da ogni definizione, o ragione
Dino trova uno spiraglio di speranza solo attraverso la
rinuncia alla manipolazione dei dati fisici che ha modo
di esperire. Si affida, per così dire, al messaggio
di quell'albero, e solo così la realtà smetterà
di negarsi, offrendogli la salvezza, o almeno la sua ipotesi.
----------------------------------------------------------------------------------------------------------------
(1) Antonia Arslan. Invito alla lettura di Buzzati. Mursia,
Milano 1997. p. 48
(2) E. Levinas. Altrimenti che essere, o, Al di là
dell'essenza. Jaka Book, Milano 1998. p. 200.
(3) A. Arslan. Invito alla lettura di Buzzati. Op. cit.
p. 99.
(4) Roland Barthes. Frammenti di un discorso amoroso. Einaudi,
Torino 1979. p. 40.
(5) Ivi. p. 41.
(6) R. Barthes. Frammenti di un discorso amoroso. Op. cit.
p. 80.
(7) Alberto Moravia. L'uomo come fine e altri saggi. Bompiani,
Milano 1964. p. 244.
(8) F. Camon. Alberto Moravia. In La moglie del tiranno.
Lerici, Milano 1969. p. 67.
(9) Ivi. p. 67.
(10) Giancarlo Panini. Invito alla lettura di Moravia. Mursia,
Milano 1973. p. 177.
(11)Dominique Fernandez. Il romanzo italiano e la crisi
della coscienza moderna. Lerici, Milano 1960.
|