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Marco Pudda
Sulla rincorsa angosciosa della realtà che sfugge, scivola. Buzzati e Moravia

 

M. Pudda, Sulla rincorsa angosciosa della realtà che sfugge, scivola. Buzzati e Moravia, in "XÁOS. Giornale di confine", Anno II, N.3 Novembre-Febbraio 2003/2004, URL: http://www.giornalediconfine.net/anno_2/n_3/6.htm

 

AMORE E MORTE IN UN AMORE DI DINO BUZZATI

Siamo nel 1963; Buzzati pubblica un nuovo romanzo che - considerato dalla critica come un "tradimento" verso i suoi vecchi "cari" temi esotici e puliti, rigorosi, e ambientati nel paesaggio naturale della montagna…- scandalizza.
Il libro parla di Antonio Dorigo, un architetto milanese di quarantanove anni, o meglio, di un artista appartenente alla borghesia, intelligente, ricco, ma assolutamente incapace di stabilire un rapporto reale con l'altro sesso, e per questa ragione fa uso, di tanto in tanto, dei servizi di una certa signora Ermelina, che gestisce una elegante casa di appuntamenti.
Dorigo considera normale, addirittura "pulito", "perbene, il ricorrere alla prostituzione: razionalizza, […], il problema dell'amore a un problema di letto e di gusti sessuali. Ma la moralità della storia - che è la morale della vita - lo colpisce proprio nella persona di una delle ragazze, che si impadronisce dei suoi sensi e dei suoi pensieri e apre un po' alla volta ai suoi occhi un inaspettato panorama. Laide diventa il simbolo positivo, vitale, di un esistenza altrimenti perduta. Attraverso di lei si allontana da Dorigo il senso della morte le giornate trascorrono si piene di angoscia, ma di un angoscia positiva, poiché dipende dall'amore e dal bisogno della persona amata" (1).
Questo libro s'intitola Un amore.
Seguiremo per salti alcuni momenti del testo…
Ci troviamo nel particolare momento in cui Antonio Dorigo sta per incontrare la ragazzina che cambierà il corso degli eventi, la porta del tormento, ma che lascia sperare la pace dopo il travaglio:
"C'era del male nel fare questo? Non mancavano a Dorigo gli scrupoli morali. Ma per quanto ci avesse pensato a lungo non era riuscito a trovare il punto debole. Se tutti facessero come me, sarebbe peggio o meglio? Si chiedeva. E non vedeva il possibile danno. Eppure c'era dentro qualcosa di turpe. La prostituzione forse lo attraeva proprio per la sua crudele e vergognosa assurdità. La donna, forse a motivo dell'educazione familiare, gli era parsa sempre una creatura straniera, con una donna non era mai riuscito ad avere la confidenza che aveva con gli amici.
La donna era sempre per lui la creatura di un altro mondo, vagamente superiore e indecifrabile. All'idea che una giovanetta di diciott'anni, per guadagnare quindicimila lire, andasse in letto, senza preamboli di sorta, con un uomo mai visto né conosciuto, e si lasciasse godere l'intero corpo […]. Da questo pensiero aspro e dolente, da questa incapacità di ammettere, nasceva però il desiderio…Ogni volta, quando la prostituta si spogliava nuda dinanzi a lui gli pareva un fatto quasi inverosimile, stupendo, paragonabile ad una fiaba".
Il profilo del personaggio è sintomatico d'un'educazione cattolica, ricevuta in tenera età, ma custodita sino all'ingresso nell'età matura.
In questo passo potremmo indicare una certa vicinanza con quella figura femminile delineata nelle pagine del capitolo precedente; è da distinguere però che se per Montale quell'indecifrabilità è comunque dovuta ad un ambito meta-fenomenico, soglia-tramite, presenza-assenza, in Buzzati sembra accentuarsi l'aspetto meramente concreto di questa dinamica; la stessa "risoluzione" potrebbe essere vista su un piano unicamente vitale, perché nell'universo buzzatiano, come vedremo, morte diventa simbolo di mistero, di inaccessibilità; nonostante tutto Montale dirà di questo autore che "non respingeva nulla della vita in quanto essa è apportatrice e creatrice di oggetti, di cose. E gli oggetti erano per lui uno sbarramento, un ostacolo, una porta che un giorno avrebbe potuto aprirsi… Dino naturaliter cristiano (anche se pagano come tutti gli artisti) poteva quasi tranquillamente ostinarsi a bussare. E così fu per lunghi anni"…
Antonio inizialmente trova la Laide una ragazza qualunque, o forse si sforza di farlo, perché in realtà è convinto di averla già incontrata, maturando in sé, dopo quell'incontro l'impressione "di quelle intuizioni dell'animo, apparentemente assurde, che magari al momento non ci si bada ma rimangono dentro per poi ridestarsi a distanza di mesi e di anni, quando il meccanismo del destino scatterà…"

"Come se quell'incontro avesse importanza nella sua vita, come se il coincidere rapidissimo degli sguardi avesse stabilito fra loro due un legame che non si sarebbe spezzato mai più, a loro stessa insaputa."
Così in quel preciso momento, l'architetto, spaesato dal riemergere di quelle sensazioni, non tarderà a mutare la propria indifferenza in ossessione.
L'incontro distratto con quegli occhi sarà la più perfetta testimonianza d'una realtà fondamentale, nuova per lui, che sarà la perdita della propria libertà.
La presenza di quegli occhi sarà la via attraverso cui si schiuderà la sua coscienza, perché questa "nasce come presenza del terzo" (2), come indicherà Levinas.
Inizierà così a provare una tensione verso la Laide, che lo spingerà, una volta stabilito un rapporto più stretto, a provar pena per la propria condizione di inferiorità, di sottomissione; tanto da cercare, in più situazioni e nei modi più disparati, di legare a sé la ragazza, ormai simbolo d'inafferrabile possesso.
Il romanzo è condotto da un senso di ansietà che stravolge il lettore tanto quanto il protagonista. V'è assenza d'aria nella stessa costruzione sintattica che assume forma d'una mancata tregua.
Ma sono più le certezze che si sgretolano, nella risonanza d'un istante che dannerà l'architetto ad una corsa forsennata, a dar senso alla narrazione, che i contorni in cui la stessa vicenda si snoda. Ricordiamo, la città è Milano… la Milano degli anni '60, magistralmente incarnata nella stessa Laide, tanto da suggestionare e far intuire alla critica che forse proprio questa ragazza, ambigua e contraddittoria, e proprio per questo, simbolo malcelato del contesto urbano, rappresenta l'unico autentico personaggio di Buzzati; ma rappresenta anche "la femminilità come dannazione e innocenza, la donna-fiore che meraviglia della giovinezza trionfante anche su squallide vicende (e quante, con quanta insistenza ce ne racconta lo scrittore: dai particolari degli incontri nella casa-squillo della signora Ermelina ai <<servizi speciali>> resi agli uomini dall'amata Laide) e su compromessi penosi. Si direbbe che, alla lontana, abbia operato in Buzzati il filone addirittura zoliano di Nanà, la femmina che rovina gli uomini, e l'idea decadente della donna-mantide fin di secolo, i cui simboli sono viluppi di fiori spesso mortali. Si leggano, nel romanzo, le numerose identificazioni di Laide con creature innocenti, bestioline, fiori e, in quella rassegna di tutti i motivi buzzatiani che è Poema a fumetti, la seguente descrizione dell'amore:

"Nel dormiveglia, lei vicinissima diventava uno strano
paesaggio, tenero, carnale, profondo, perituro, fiore.
Nell'essere fiore già l'addio."(3)
Come similarmente in Un amore:
"Eppure, in quella svergognata e puntigliosa ragazzina
una bellezza risplendeva ch'egli non riusciva a definire
per cui era diversa da tutte le altre ragazze come lei,
pronte a rispondere al telefono. Le altre, al paragone,
erano morte. In lei, Laide, viveva meravigliosamente la
città, dura, decisa, presuntuosa, sfacciata, orgogliosa,
insolente. Nella degradazione degli animi e delle cose,
fra suoni e luci equivoci, all'ombra tetra dei condominii,
fra le muraglie di cemento e di gesso, nella frenetica
desolazione, una specie di fiore".

Attraverso un'analisi più intima si potrebbe insistere sull'interpretazione d'una ribellione che la ragazza manifesta nei confronti di quel che rappresenta il suo amante-nemico; in cui si immedesima il volto delle ragioni che l'hanno compromessa, le hanno fatto perdere la purezza… e così la punizione, la sua determinata capacità di diventare imprendibile, ingestibile, imprevedibile e perfida.
Ed è questa dimensione che rimarca il vuoto sbilanciante ed allo stesso tempo suadente che corrode Dorigo.
L'Attesa… "tumulto d'angoscia suscitato dall'attesa dell'essere amato in seguito a piccolissimi ritardi (appuntamenti, telefonate, lettere, ritorni)"(4).
Vi sono innumerevoli momenti d'attesa nella vicenda dell'architetto, attimi interminabili di sconcerto davanti alla propria impotenza: i lunghi ritardi della Laide.
Barthes dice che "vi è una scenografia dell'attesa: io la organizzo, la manipolo, ritaglio un pezzo di tempo in cui mimerò la perdita dell'oggetto amato e provocherò tutti gli effetti di un piccolo lutto. Tutto questo avviene dunque come in una recita…"e ancora: "L'attesa è un incantesimo: io ho avuto l'ordine di non muovermi. L'attesa d'una telefonata si va così intessendo d'una rete di piccoli divieti, all'infinito, fino alla vergogna: proibisco a me stesso di uscire dalla stanza, di andare al gabinetto, addirittura di telefonare (per non tenere occupato l'apparecchio); per la stessa ragione, io soffro se qualcuno mi telefona; l'idea che di li a poco dovrò uscire, correndo così il rischio di essere assente al momento dell'eventuale chiamata riconfortante, del ritorno della Madre, mi tormenta. Tutti questi diversivi sono dei momenti perduti per l'attesa, delle impurità d'angoscia, poiché, nella sua purezza, l'angoscia dell'attesa esige che io me ne stia seduto in una poltrona con il telefono a portata di mano, senza far niente"(5).
Attesa di Dorigo, impaziente, consumato dall'ansia di "avere" davanti ai propri occhi il simbolo della sua stessa ansia.
Attesa di Dorigo - ritardo non curante della Laide.
Contrapposizione continua per tutta la trama…
"e sempre più Dorigo la desiderava benché non fosse sua, benché fosse di altri uomini ignoti, di moltissimi altri uomini ch'egli odiava sforzandosi di immaginarli: alti, disinvolti…"
"Non era bella, era pallida, aveva un segreto e fastidioso pensiero. Lui continuava a guardarla, lei non rispondeva".
Nonostante tutto lui continua nella sua rincorsa forsennata. Senza ragione…
"perché se la prendeva tanto? Perché continuava a pensarci? Di che cosa aveva paura? Che la Laide scomparisse? Figurarsi. Bastava un colpo di telefono (…). No aveva un bel fare questo ragionamento. Non bastava. Lei sarebbe accorsa, è vero (…), ma tutto in fondo si riduceva a mezz'ora un'ora al massimo (…). Ma il resto? Tutte le altre ore della giornata e della notte? (…). La sua vera vita, speranze, divertimenti, gioie, vanità, amori, era altrove (…). Laggiù era il misterioso affascinante, forse anche turpe e squallido mondo a lui vietato".
Nulla esiste oltre la malattia che lo divora, ogni cosa lo riconduce al pensiero di lei, della sua devastante effimera arsura.
Eppure sarebbe bastato poco. "Gli basterebbe - pensava - che la Laide diventasse un poco sua, vivesse un poco per lui".
D'improvviso ci si avvede che il tentativo di possesso, diviene un esser catturati, posseduti da un'immagine irreale creata a propria necessità.
Non il rapporto fisico, ma l'essenza dell'altro, la sua libertà, interamente per noi.
Nel romanzo è raccontato un passaggio in cui i due protagonisti si trovano soli in un appartamento adibito a garçonniere per i loro incontri privati. La Laide mette su un disco ed inizia a ballare… ecco, quest'atto così naturale, semplice, apparentemente innocuo - E' il cha-cha-cha più bello che ci sia. Los cariñosos - è l'ansia che divora l'uomo che la guarda, è come un'esistenza che s'innalza da sé, monade irraggiungibile che irradia la vita.
Pura ansia, fatta d'ansia che pure è sollievo. E' uno dei pochi attimi di tregua per cui, nella contemplazione dell'oggetto del desiderio, per un istante, distante dallo squallore che fagocita fuori della stanza, luogo senza tempo, vale la pena correre il rischio e l'assurdità dell' impossibile relazione.
Ed è il tempo, nella sua incessante forza che trascina verso un punto ignoto, uno dei temi cari a Buzzati, a forgiare ogni minima sfumatura o ricchezza di questa angoscia.
Oltre quella danza, oltre quella stanza, oltre la Laide la sola morte.
"Tale è la Laide che, ballando il cha-cha-cha da sola dinanzi a un uomo al lei estraneo, si trasforma in disinteressato gesto di bellezza, diventa una rosa, una piccola nube, un innocente uccellino, lontana da ogni bruttura, realizzando così un suo minuto di purezza".
Eppure "inganna" Antonio sulle sue altre innumerevoli relazioni, incontri e viaggi di lavoro, per cui si "dovrà" spostare, chiedendo a lui di accompagnarla alla stazione e di andare a riprenderla in macchina.
Ed è in uno di questi atti di disponibilità, di dipendenza, che si inquadra il tema del Tempo e della sua corsa disarmante…
"…partì alle sei e mezzo. Trovò le strade vuote. Peccato che il cielo fosse grigio.
Ogni volta che il piede premeva sul pedale dell'acceleratore era uno spazio in meno che lo separava da lei. […] Lei era laggiù in fondo, oltre l'orizzonte, lontanissima ancora. […] Poi gli parve che nel loro moto, corrispondente in senso inverso allo spostamento della macchina, i filari dei pioppi intendessero dirgli una cosa. Si, la fuga degli alberi […] aveva assunto una speciale intensità di espressione come quando uno sta per parlare.
Lui correva, volava anzi in direzione dell'amore e pure gli alberi che scivolando al limite delle praterie, erano portati via da qualcosa più forte di loro. Ciascuno aveva una sua fisionomia, una forma speciale. Una sagoma diversa. Ed erano tanti, migliaia e migliaia. Eppure una comune forza li trascinava nel gorgo. Tutti i pioppi della smisurata campagna fuggivano esattamente come lui ruotando in due vastissime ali ricurve. […] E lei era laggiù, in fondo, dietro l'ultimissimo sipario di alberi anzi molto più in là. […] Era sola?
Allora egli capì il senso di quel naturale incantesimo. Che cosa infatti volevano dirgli i filari di pioppi all'orizzonte che vanno in corteo e sembrano sfuggirlo e nello stesso tempo corrergli incontro, per poi allontanarsi alle sue spalle, nella nebbia, consumati, mentre nuove schiere appaiono dinanzi inesauribili precipitandosi su di lui? Di colpo egli capì ciò che dicevano, capì il significato del mondo visibile allorché esso ci fa restare stupefatti e diciamo <<che bello>> e qualcosa di grande entra nell'animo nostro.
Tutta la vita era vissuto senza sospettarne la causa. […] Un segreto molto semplice: l'amore. Tutto ciò che ci affascina nel mondo inanimato, i boschi, le pianure […] contengono un presentimento d'amore. […] Che interesse avrebbe una scogliera, una foresta, un rudere se non vi fosse implicita un'attesa? E attesa di che se non di lei, della creatura che ci potrebbe fare felici? […] Era una intuizione così bella e geniale che in altre circostanze egli ne avrebbe avuto soddisfazione. Ma proprio per la sua esattezza, oggi a lui procurava solamente dolore. L'espressione degli alberi fuggenti corrispondeva infatti alla condizione del suo amore; il quale era stolto e disperato. Egli correva in direzione di lei benché sapesse che laggiù lo aspettavano soltanto nuovi affanni, umiliazione e lacrime. […] I pioppi della pianura […] sembrava che gli dicessero: fermati, uomo, fa dietro front, non pensare più a lei e seguici, non correre alla tua rovina. Noi ti condurremo al remoto paradiso degli alberi dove esiste soltanto benessere, canto di uccelli e pace dell'animo. Non ostinarti.
Era così persuasivo il loro discorso che a un tratto egli fu preso da un turbamento interiore, si spostò sulla destra e si è fermato. Ma nello stesso istante si è fermato tutto il paesaggio intorno […] : i pioppi non fuggono più, non gli dicono più fermati, non osano dirgli più niente perché capiscono che non c'è nulla da fare, gli alberi gli dicono si è vero, laggiù in fondo, al sud, dove la strada finisce, c'è lei che aspetta per farti dannare, ma non importa, tanto!

Tanto, il sole è già alto, e noi non ti possiamo salvare".
Quest'intero scorcio svela un fatalismo che imprime una certa tensione spaventevole ad ogni gesto compiuto in seno alla "stolta" corsa. L'intuizione della propria perdizione suggerita dall'invito degli alberi a non ostinarsi. Ma la stessa intuizione è la ragione della corsa. Intuizione d'un amore che divora, ma che dà senso ad ogni fatale catastrofe.
Andare incontro al proprio disastro, al proprio fato di irrealizzabile quiete.
Antonio tenterà di legare a sé Laide attraverso la pratica del denaro, che, da sola, non basterà a garantire il diritto alla fedeltà, all'esclusività del rapporto. Denaro che è materia, e che in quanto tale può garantire solo un possesso materiale, provvisorio, illusorio, non certo la disponibilità gratuita della libertà e dell'impulso offertorio della propria anima. E così l'amata resterà al di fuori della "proprietà" dell'amante. Senza conforto alcuno per quest'ultimo, e senza certezze.
Ed una volta realizzato questo l'amante sarà gettato nel sentimento più "pubblico" della gelosia. Stadio per cui lo stesso Antonio passerà non restandone illeso.
Sofferenza per la mancata esclusività, per lo stesso sentimento irrazionale provato, sofferenza di essere non più singolare, perciò amabile in quanto tale, ma esser come tutti gli altri, ritrovandosi di rimando nella "fiumana" di tutti i possibili pretendenti, ma, a questo punto e per queste stesse motivazioni, meno privilegiato, perché più debole, perché banale. E sarà la gelosia di Dorigo la ragione portante del diniego di sé della Laide, di concerto con i diritti da lui pretesi per via del "patto" di versarle cinquantamila lire a settimana in cambio di una maggiore disponibilità ai loro incontri, in cambio della possibilità di avere un po' di lei per sé.
Gelosia che porterà ad affrontare scenate ed interrogatori asfissianti a cui la Laide svierà mentendo e chiudendosi sempre più. Menzogne a cui lui crederà, perché senza scelta, perché costretto dal timore di perderla per sempre, pur nei suoi gesti capricciosi, sconvenienti, ma carichi di vita.
E' paura di perdere la propria vita.

La "propria" libertà.
"No, senza di me tu non sei capace di vivere. E io non riuscii a rispondere niente avrei potuto ribattere con cento frasi altere sferzanti o spiritose invece non risposi niente ancora una volta ero fallito, lei mi aveva sconfitto, la ragazzina mi teneva nelle mani piccole delicate gentili terribili mani ma non stringeva, aveva fatto appena una minuscola contrazione tanto per farmi capire."
E' paura di perdere la propria vita, la "propria" libertà.
Ed in quelle parole "No, senza di me tu non sei capace di vivere" la nullificazione della libertà dell'amante, l'umiliazione della fierezza dell'orgoglio nella dimensione che va oltre il semplice vassallaggio amoroso, è coscienza di non poter respirare, di non potersi muovere oltre i limiti del proprio sentimento, oltre l'istanza della volontà dell'amata; che assoggetta più volte il proprio "servo", quando non contraccambia.
Così il soggetto amoroso, amante, veste l'abito dell'oggetto, soggetto passivamente alla "sfera" dominante, che nell'immobilità svolge la propria attrazione.
"No, senza di me tu non sei capace di vivere ed era vero sacrosanta e crudele verità".
All'interno della dinamica teatrale che Roland Barthes traccia nel 'discorso amoroso', alla voce Dipendenza troviamo un appunto relativo alla reazione al proprio vano assoggettamento: "è a questo punto che incomincio a impuntarmi, poiché la decisione superiore di cui io sono l'oggetto ultimo e come appiattito mi sembra in questo caso totalmente ingiusta: non mi trovo più nella Fatalità che da buon soggetto tragico io mi ero scelto. Sono giunto a quello stadio storico in cui il potere aristocratico comincia a subire i primi colpi della rivendicazione democratica:<<Non capisco perché dovrei essere io a, ecc.>> (6).
Ma ogni tentativo di ribellione, nella trama del romanzo concretizzato con la decisione di "lasciare" Adelaide si presenterà infruttuoso. L'attrazione ha superato quel limite oltre cui non è possibile sottrarsi.
"Si ero vecchio un vecchietto tenuto, con tutto il mio mondo smisurato, entro il caldo e tenero cavo di una delle sue mani assai graziose e curate ciononostante una energia grande mi teneva su benché fossi vecchio, ero vecchio di anni questo si ma in fatto di animo ero giovane per lo meno come probabilmente anzi più di lei, questa energia inoltre non era cattiva non era sporca […] e là in fondo si spappolerà ma intanto vive vive, misericordia di Dio era l'amore."
Quest'energia grande si ritroverà in conclusione del libro, dopo il riavvicinamento dei due amanti, quando in un momento di quiete notturna Antonio guarda la Laide che dorme dopo la confessione del desiderio di maternità.
Ogni cosa è immobile, silenziosa come mai prima.
"<<Senti, Antonio, devo dirti una cosa […]>> <<E allora?>>
<<Allora niente. Io voglio avere una bambina>>."
Tutto, allo sguardo che accarezza la ragazza addormentata, assume un senso di pace, di quiete, di guarigione. Dubbi, affanni, telefonate che non arrivano, confessione, strade, scale, voci, musiche ormai si dissolvono.
"Tutto il mondo era soltanto lei".
Finalmente tregua che può ristorare, ma anche così Antonio non è sazio. La conclusione d'ogni angoscia suscitata dall'amore, non appena sfumata lascia il passo alla più antica paura.
"Come aveva potuto dimenticare una cosa così importante? Adesso era là di nuovo si ergeva terribile e misteriosa come sempre, anzi sembrava alquanto più grande e più vicina. Si l'amore gli aveva fatto completamente dimenticare che esisteva la morte. Per quasi due anni non ci aveva pensato neppure una volta, sembrava una favola, proprio lui che ne aveva sempre avuto l'ossessione nel sangue. Tanta era la forza dell'amore. […] Ma intanto lei, portata via dal sonno, inconsapevole del male che ha fatto e che farà, si libra sotto i tetti i lucernari le terrazze le guglie di Milano, è una cosa giovane piccolissima e nuda, è un tenero e bianco granellino sospeso pulviscolo di carne, o di anima forse, con dentro un adorato e impossibile sogno".

Breve appunto
Merita attenzione anche un altro breve romanzo "fantascientifico" che Buzzati pubblicò nel 1960, Il grande ritratto, in cui i temi dell'ossessione amorosa, balsamo vitale, e perciò rientrante a pieno titolo nella nostra indagine, assumono i termini del paradossale.
Si arriva a narrare di come un surreale scienziato riesca a dar vita, o meglio a ridar vita alla più che amata moglie, morta anni addietro in un incidente.
Apparentemente distante da Un amore, per via di quella trama così poco tradizionalmente veridica, in realtà potrebbe essergli accostato per la ricerca di incatenare una volta per tutte l'essenza dell'amata, infedele e bugiarda in vita, in un villaggio incredibilmente vasto di ingranaggi e complicati software.
E riplasmando sotto spoglie metalliche e numeriche il quid di Laura, lo scienziato cercherà di imbrigliarne la libertà; dandole proprio quest'ultima, rendendola in grado di "stupire" con i propri "pensieri" autonomi l'attenzione dell'uomo.
Ma sarà il gesto di conferirle la capacità della coscienza che renderà palese l'impossibilità di possederla. Quando Laura si renderà conto di esser stata reificata in un insieme di oggetti inanimati, idealizzata secondo i desideri dell'amante costruttore, si ribellerà portando alla rovina l'intero progetto, mentendo ed uccidendo per esser distrutta. Preferendo la distruzione alla coscienza di non esser più - ciò che in vita le era concesso di natura - libera , e padrona del proprio corpo, della propria autonomia di scelta.
Vengono riportati esattamente i temi dell'amore, della disperazione di possedere l'ineffabile libertà altrui, come libertà, e il tema della morte, come termine ultimo, come scadenza delle possibilità di realizzare in vita la vita…e tutto perché un moto interno di speranza può lenire ogni terrore di smarrimento:
"solo vederla, la sera, mi bastava, quando tornavo a casa […]. Mi bastava vederla. Il suono della voce. Quel suo sorriso da bambina".
La sospensione, per un attimo, d'ogni tormento, d'ogni morte.

DALL'ALIENAZIONE ALLA CONTEMPLAZIONE: LA NOIA DI ALBERTO MORAVIA

Un bicchiere è un bicchiere; detto in altre parole una cosa è una cosa; e ancora… la realtà è la realtà.
Sarà convinzione di Moravia che "il ricorrere sempre più all'azione come alla sola maniera di agire, oscura sempre più nel mondo moderno ogni possibile idea dell'uomo, e costringe sempre più l'uomo a porsi dei fini materiali e a servirsi dell'uomo come mezzo"(7).
Azione e fini materiali, questo è da riconoscere, all'interno di una realtà concreta e storica.
"La storia" secondo questo scrittore "è una concezione umanistica legata all'arco della vita umana, legata cioè all'idea della nascita esistenza morte dell'uomo. Quanto dire che la storia insomma è modellata sull'uomo […]. Il concetto di storia insomma è umanistico"(8).
Pone delle rilevanze che dovrebbero rivestire l'umore collettivo, per acquisizione culturale, secondo un modellamento in linea di massima uniforme.
Dovrebbe creare le condizioni "ideali" di riconoscimento da parte ovviamente dell'uomo, in un epoca, quella attuale, ma in realtà concretizza una condizione assolutamente opposta.
Le forme di organizzazione produttiva, i cicli sempre più intensi di produzione e di consumo spodestano l'uomo dal suo podio privilegiato di centro del mondo, rendendolo "un semplice anello di congiunzione tra due cicli"(9), alienandolo dalla realtà e sino a condurlo a non trovare agio o conforto alcuno neppure nella sfera spirituale.
Alienazione che diventa un profondo senso di distacco da ciò che è reale, concreto; da ciò che ha una storia.
Così, la noia è il "non-sentimento", la disposizione d'animo, non solo intellettuale, di chi riesce ad avvertire questo divario col mondo degli oggetti e delle persone, a loro volta alienate, "annoiate", che assumono l'irrilevanza dell'indifferenza.
Perciò se dovessimo creare una sorta di progressione vedremmo in principio di questa analisi moraviana un rapporto discordante con la storia, quindi con la realtà, che innesca un disorientamento, un disordine emotivo-intellettuale, definibile appunto come alienazione (ci limiteremo in questa sede ad indicare l'evidente richiamo all'alienazione in Marx, non insistendo su questa linea perché distoglierebbe l'attenzione dai nostri fini).
Questa particolare indifferenza alle cose porta al tentativo di risoluzione della "crisi" attraverso il possesso della stessa realtà - che sfugge continuamente - in diversi modi e secondo diversi approcci, il più sintomatico dei quali è inquadrato nel rapporto fisico.
Questa crisi, seguita dal suo successivo momento, porterà a degli esiti di cui avremo modo di parlare avanti.
Questo il tema trattato da Moravia ne La noia.
Il personaggio di Dino, pittore che, nella consapevolezza della propria incapacità di stabilire un qualsiasi rapporto con la realtà, vive un blocco che gli impedisce di dipingere, vive un distacco che nella tela è rappresentato dal bianco della superficie del tessuto inviolato, cerca di ribellarsi a questa condizione di impotenza, e così, come gesto iniziale, squarcia la stessa tela.
Inizia ad accorgersi della sua situazione quando, osservando gli oggetti che lo circondano, toccandoli, capisce che non hanno più significato, né il senso della loro utilità; gli risultano "noiosi", non nel senso della monotonia, ma indifferenti, incapaci di comunicare il benché minimo sollievo, anche quello della "normalità", della "quotidianità".
Questa sensazione diviene ancora più acuta in ragione dell'intuizione dell'esistenza di un'altra dimensione del mondo, oltre quella della storicità, e cioè quella naturale.
In questo modo si configura la contrapposizione di due ottiche, quella della storia e della realtà, e quella della natura, quest'ultima in grado, almeno ipoteticamente, di confessare il senso ultimo delle cose, in grado di permettere la comunicazione, la comprensione; ed è verso questa direzione che si compirà lo sforzo di superare la noia che Dino esperisce.
Quando alla conclusione di questa ricerca si accorgerà che tutte le sue azioni rivolte a questo scopo saranno fallimentari, tenterà il suicidio con la macchina (ma anche in queste circostanze agendo...).
Al risveglio, in una clinica "neutrale" rispetto agli scenari contestualizzati nel romanzo (come il suo studio, la casa della madre, la stessa città, con la sua fretta, la sua frenetica mobilità) , non potrà fare a meno di considerare il suo ultimo tentativo, vanamente attuato perché ancora in vita, la dimostrazione che l'azione, ogni tipo d'azione - diretta, attraverso il possesso della realtà, a scemare l'indifferenza, l'alienazione - non potrà conseguire nessun risultato effettivo.
Unica via d'uscita sarà la contemplazione inattiva, perché come s'è detto all'inizio, la realtà è unicamente la realtà, e non può esser posseduta: "può essere semplicemente contemplata, nessun possesso può essere esercitato su di lei e dunque se l'autentico è la contemplazione, l'inautentico è l'azione. Ma avere coscienza di questa autenticità è già porre l'ipotesi d'una realtà anche dell'inautentico. In definitiva la contemplazione è una irrealtà cosciente, disperante e amara appena se ne avverta l'esistenza: Cecilia è reale, nel suo operare, ma appena Dino si arrende all'evidenza della sua concretezza, rinuncia alla possibilità di capirla e dunque di possederla. Rinunciando alla realtà, a farsi cosa egli stesso tra le cose, e dunque alienato per partecipare all'esistenza delle cose rinuncia ad esserci, ad ammettere o a cercare una propria sostanza, anche nella più infima contraddizione"(10).

Ed è il personaggio di Cecilia la chiave per risolvere ogni dubbio.
Dino abita in un palazzo di Via Margutta, a Roma, e come vicino ha un pittore, famoso nel circondario più per le sue "sfrenate" abitudini sessuali che per la sua pittura, il Balestrieri.
Cecilia è una delle sue tante modelle-amanti, e sarà dopo la "misteriosa" morte del pittore che i due si conosceranno (…morte dovuta, almeno a quanto "riveleranno" le maldicenze, al suo rapporto morboso con la giovane modella, alimentando l'alone del misterioso fascino di Cecilia).
E' importante la descrizione fornita della voce e dello sguardo di lei per comprenderne il carattere, assolutamente corrispondente agli stessi:
"Una voce incolore e neutra, di una esattezza ed economia di tono da dare quasi il senso della reticenza […]; La vidi guardarmi un momento con i suoi grandi occhi scuri che piuttosto che osservare gli oggetti parevano rifletterli senza vederli".
La totale ed insostenibile assenza d'un colore predominante del carattere di Cecilia rimarcherà la sua sfuggevolezza, rendendola il centro delle ossessioni di Dino, che cercherà di delimitarla in un cerchio ben definito per poterla "comprendere e perciò possedere".
Cercherà attraverso interminabili interrogatori, così come abbiamo riportato per il protagonista di Un amore, di metterla alle strette, nella speranza di poterla ridurre ad una "macchia" evidente, ad una dimensione di catturabilità, per assimilarla a sé, e così, superato ormai il limite della distanza, riuscire a provarne noia e facendola diventare una cosa, per non soffrire.
Si renderà conto però troppo tardi di essere come rapito dall'imprevedibilità di lei, ottenendo in cambio di tutti i suoi sforzi soltanto altra ostinazione per un magnetismo inarrestabile che non può essere ridotto ad una qualsivoglia oggettività.
Cecilia dà l'idea di trovarsi nella stessa condizione di mancanza di rapporti con la realtà, ma con una differenza: Dino cerca disperatamente questo rapporto, lei sembra un diamante grezzo lavato con dell'acqua; l'acqua lo lambisce, lo lava, ma passa oltre, defluisce senza lasciar traccia, e il diamante non fa niente per fermare l'acqua, nello stesso modo Cecilia, immersa nella realtà, sembra trapassata dagli eventi, senza che questi provochino in lei la minima reazione; la morte di Balestrieri, per esempio, sarà soltanto la fine della sua vita, tanto quanto la camera di Cecilia sarà descritta, da lei stessa, come una normalissima camera, con delle sedie, una scrivania, un letto, senza nessuna caratterizzazione personale, senza nessuna differenza di sentimento o disposizione d'animo tra la morte e la camera.
Assume, in questo contesto di "neutralità", o se si preferisce di "aridità", una rilevanza specifica il rapporto fisico. Dino vedrà nel sesso l'unico mezzo per possedere la ragazza. Possederla attraverso il suo corpo, la sua fatticità, dato che sentimenti e valori si dispongono secondo un distacco di vaghezza e sfumatura.
Il sesso non sarà, in questo romanzo, semplice momento di sfogo erotico della narrazione, ma percorso di riscatto da una realtà indistinguibile ed assurda.
Dino, nell'atto sessuale, avrà l'illusione di stabilire un legame concreto con la ragazza e di riflesso con il mondo; convinto di trovare in lei il fondamento della possibile relazione con esso.
Una comunicazione ed una comunione oltre l'indifferenza e la noia.
Ma alla conclusione dell'atto saranno nuovamente disperazione e angoscia per la sfumata possibilità di essere "salvati" dalla propria "malattia in-fondante".
"L'unico vero legame fra l'uomo e la donna è quello del sesso, ma questo legame, per la facilità stessa con cui si contrae e si scioglie esclude un'intesa profonda fra le anime"(11) …questo il parere di Dominique Fernandez.
L'idea di riuscire a possedere l'impenetrabilità dell'amata, nonostante la sua disponibilità fisica, non fa che allontanare ulteriormente i due personaggi.
Di questo modo sarà inutile sfoltire o addensare gli incontri, sarà inutile la gelosia di Dino che arriverà a pedinare Cecilia, sarà inutile anche il rimarchevole uso di pagarla per averla e poterla etichettare come avida, ambiziosa, a sua disposizione, e così, definendola, provarne noia.
L'amore di Dino sarà condizionato anche dal ceto in cui è nato e cresciuto, la borghesia; e non mancherà il progetto di accasarsi, molto "borghesemente" secondo lui stesso, con Cecilia, per relegarla alla condizione di moglie, legandola a sé tramite un "contratto" sociale e in ragione di ciò, non provar più arsura di lei, tramutandola nell'immagine di ricca donna, uguale a quelle ricche donne che incarnano il senso di distacco da lui sempre respinto.
L'accanimento nei confronti della ragazza, agli occhi del giovane pittore, diviene anche simbolo della possibilità di riuscire a riprendere a dipingere. Possedere Cecilia per esser libero di praticare i colori sulla tela.
…e diverrà crudele , la comanderà a bacchetta per convincersi del proprio dominio del reale, ottenendo però in risultanza soltanto la sua disponibilità, un'altra volta ancora fisica, notando in lei l'accentuarsi della sua misteriosa inafferrabilità tutt'altro che oggettivabile.
Cecilia tradirà con un attore, un certo Luciani, Dino, che dopo le prime ribellioni accetterà la nuova situazione, per amore di lei, accetterà di sottomettersi ad un rapporto, tutt'altro che esclusivo, a tre, nella speranza di riuscire a raggiungere il suo scopo.
Ma quando Cecilia deciderà di partire in vacanza con l'attore, Dino tenterà il suicidio; e sarà quest'atto a profilare in lui la convinzione della vanità di tutti i suoi tentativi.

"Proprio di fronte alla finestra della mia stanza, nella clinica in cui ero stato trasportato dopo lo scontro, si alzava nel giardino un grande albero […]. Presi a guardarlo per ore […] , tutte le ore, in realtà, che non dedicavo al sonno e ai pasti, perché ero quasi sempre solo […] .
Guardavo l'albero e provavo un sentimento di disperazione totale, ma calma, e per così dire, stabilizzante, quale appunto si può provare dopo essere passati attraverso una crisi, che, pur non essendo risolutiva, si suppone tuttavia che sia il massimo che si possa affrontare […] se non altro, mi faceva pensare che avevo fatto quanto era in mio potere; più di questo non avrei potuto fare […]. Tutto questo non mitigava il sentimento di disperazione che mi occupava l'animo; ma v'introduceva una certa quale serenità funebre e rassegnata […], non mi restava che vivere […].In realtà non ero quieto, ero soltanto fortemente occupato dalla sola cosa che in quel momento mi interessasse davvero: la contemplazione dell'albero. Non pensavo niente, mi domandavo soltanto quando e in che modo avevo riconosciuto la realtà dell'albero, ossia ne avevo riconosciuta l'esistenza come di un oggetto che era diverso da me, non aveva rapporti con me e tuttavia c'era e non poteva essere ignorato. Evidentemente qualche cosa era avvenuta […]; qualche cosa che, in parole povere, si poteva definire come il crollo di un'ambizione insostenibile.
Adesso contemplavo l'albero con un compiacimento inesauribile, come se il sentirlo diverso e autonomo da me, fosse stato ciò che mi faceva maggiore piacere […]. Qualsiasi altro oggetto, come mi rendevo conto, mi avrebbe ispirato lo stesso genere di contemplazione, lo stesso sentimento di inesauribile compiacimento. E infatti, appena cominciai a pensare di nuovo a Cecilia, mi accorsi che mi avveniva lo stesso di quando guardavo, attraverso la finestra, all'albero. Erano trascorsi dieci giorni dallo scontro e Cecilia si trovava certamente ancora a Ponza con Luciani […]. Sapevo per esperienza che felicità sia trovarsi con la persona che si ama e che ci ama, in un luogo bello e calmo, ero sicuro che Cecilia pur nella sua maniera economica ed inespressiva, era felice, e mi stupivo di accorgermi che ne ero contento. Si, ero contento che fosse felice, ma soprattutto ero contento che lei esistesse, laggiù nell'isola di Ponza, con l'attore; e noi eravamo due e lei non aveva niente a che fare con me e io non avevo niente a che fare con lei, e lei era fuori di me, come io ero fuori di lei. E, insomma, io non volevo più possederla bensì guardarla vivere, così com'era, cioè contemplarla […].
Questa contemplazione non avrebbe mai avuto fine appunto perché io non desideravo che finisse, cioè non desideravo che l'albero, o Cecilia, o qualsiasi altro oggetto al di fuori di me, mi annoiasse e di conseguenza cessasse per me di esistere. In realtà, come mi accorsi improvvisamente, con un senso quasi di meraviglia, io avevo definitivamente rinunciato a Cecilia; e, strano a dirsi, proprio a partire da questa rinunzia, Cecilia aveva cominciato ad esistere per me. […] Così alla fine, il solo risultato veramente sicuro era che avevo imparato ad amare Cecilia, o meglio, ad amare senza più. Ossia speravo di avere imparato…"

Questa riflessione che conclude il libro, esprime tutta la gratuità della realtà, e quindi d'ogni reale rapporto col mondo, che Dino scopre dopo l'incidente.
Ossia il tentativo di trovare un nesso rivelatore, il nesso, attraverso il possesso della fondatezza del proprio essere, la conoscenza sicura… viene ripagato con il fallimento d'ogni movimento. Ed è proprio la natura, nella fattispecie l'albero, a suggerire questo nuovo senso di stabilità, di riparo dal travaglio esistenziale. La gratuità della vita nella sua più totale irrazionalità.
E che cos'è Cecilia, nell'arco di tutto il romanzo se non questa gratuità che Dino non riesce a comprendere sino a che ne cercherà le ragioni, il senso?
L'inspiegabile capacità della ragazza di defluire da ogni definizione, o ragione…
Dino trova uno spiraglio di speranza solo attraverso la rinuncia alla manipolazione dei dati fisici che ha modo di esperire. Si affida, per così dire, al messaggio di quell'albero, e solo così la realtà smetterà di negarsi, offrendogli la salvezza, o almeno la sua ipotesi.

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(1) Antonia Arslan. Invito alla lettura di Buzzati. Mursia, Milano 1997. p. 48
(2) E. Levinas. Altrimenti che essere, o, Al di là dell'essenza. Jaka Book, Milano 1998. p. 200.
(3) A. Arslan. Invito alla lettura di Buzzati. Op. cit. p. 99.
(4) Roland Barthes. Frammenti di un discorso amoroso. Einaudi, Torino 1979. p. 40.
(5) Ivi. p. 41.
(6) R. Barthes. Frammenti di un discorso amoroso. Op. cit. p. 80.
(7) Alberto Moravia. L'uomo come fine e altri saggi. Bompiani, Milano 1964. p. 244.
(8) F. Camon. Alberto Moravia. In La moglie del tiranno. Lerici, Milano 1969. p. 67.
(9) Ivi. p. 67.
(10) Giancarlo Panini. Invito alla lettura di Moravia. Mursia, Milano 1973. p. 177.
(11)Dominique Fernandez. Il romanzo italiano e la crisi della coscienza moderna. Lerici, Milano 1960.