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Alessandra Pigliaru, In girum ... appunti sul pensiero di Guy Debord

 

A. Pigliaru, In girum ... appunti su pensiero di Guy Debord, in "XÁOS. Giornale di confine", Anno II, N.3 Novembre-Febbraio 2003/2004, URL: http://www.giornalediconfine.net/anno_2/n_3/18.htm

 

 

Il mondo reificato appare (…) definitivamente come l’unico mondo possibile, l’unico mondo concettuale afferrabile e comprensibile che sia dato a noi uomini
[G. Lukács]

Tutta la vita delle società moderne in cui predominano le condizioni attuali di produzione si presenta come un’immensa accumulazione di merci
[Marx]

Tutta la vita delle società nelle quali predominano le condizioni moderne di produzione si presenta come un’immensa accumulazione di spettacoli. Tutto ciò che era direttamente vissuto si è allontanato in una rappresentazione
[Debord]

Premessa

Nella noiosa e malinconica rappresentazione e duplicazione della realtà, il soggetto detiene un posto di assoluto rilievo: è infatti, a un tempo, vittima e carnefice del suo stesso destino. Colui che “subisce” (qualcosa o qualcuno) è comunemente detto vittima: ruolo di subalternità e subordinazione nei confronti di chi esercita un potere sull’altro, per esempio. Tuttavia sarà opportuno rilevare come nella dialettica signoria-servitù (descritta da Hegel e ripresa per la coda da Marx) non esiste più la possibilità di “ribaltamento”. In un’epoca come quella contemporanea, parricida e ingrata verso un passato da dimenticare, non si distingue più l’altro che ci sta di fronte. Siamo in(te)grati all’interno di una pièce della quale non siamo né spettatori né attori. Appariamo semmai cose tra le cose; oggetti di cui a tratti si intravede il volume, appiccicati in una immensa tappezzeria di foto spedite a caso, senza mittente né destinatario. L’elemento che accomuna le immagini rappresentate nelle foto è la casualità del momento immortalato: mancanza di profondità, segmenti di vita che muoiono nel tratto di strada percorsa. L’immensa tappezzeria è il “fondo” in cui cammina il soggetto della società dello spettacolo. Scenografia di carta e plastica dunque, veli di maya postmoderni che, squarciati, non nascondono nulla. Pensiamo al gesto quasi titanico di Truman, protagonista del film di Peter Weir, che arrivato al “fondo” della sua vicenda si scontra con l’orizzonte e lo scopre finto. La vittima è inconsapevole di essere tale; avverte di essere marionetta ma non si sente strattonata da nessun burattinaio: non c’è nessuno che muove i fili. La vittima, colei che rinuncia alla vita perché ne è dipendente, non ha nessuna contro-parte alla quale resistere. Nella società dello spettacolo l’unico “rovesciamento” (che presuppone dunque una relazione) è quello del falso che diventa un momento del vero (Debord 1967, p.55).

Breve appunto

Ciò che appare è ciò che è. Un fondo neutro dove in dissolvenza appaiono, dal buio, immagini di oggetti proiettati. Nella dimora sotterranea a forma di caverna si alternano luci e ombre. L’uomo, secondo il mito platonico, è incatenato gambe e collo. Immobilizzato non può in alcun modo voltarsi e ciò che “viene offerto” alla sua vista è per lui la verità. Ma se quell’uomo venisse improvvisamente strattonato e costretto a guardar la luce stessa come reagirebbe? I suoi occhi sarebbero abbagliati perché non potrebbe abituarsi alla luce così rapidamente; “…non fuggirebbe volgendosi agli oggetti di cui può sostenere la vista?”. Secondo Platone è attraverso l’abitudine e l’esperienza l’uomo incatenato riuscirà a vedere “il mondo superiore”; riuscirà insomma a capire che ciò di cui si cibava nella tenebra della sua prima dimora altro non era che illusione. Questa descrizione sommaria delle dense pagine platoniche ci serve come quasi a voler dipingere un’immagine: l’uomo legato gambe e collo sta di fronte allo “schermo” delle sue possibilità. A lui decidere ciò che fare. A lui decidere di “delegare” il compito della sua “risalita” ad altri. Ma pensiamo per un attimo ad un individuo che, pur conoscendo cosa gli riserva l’esterno della caverna, non se ne curi. Pensiamo ad un individuo che sceglie di tenere le catene perché solo di ciò che vede riflesso può sostenere la vista. Ciò che appare continuerà a sembrargli vero. La copia dell’originale sarà il fondo verso cui si specchia, verso cui “si riconosce”. Ciò che appare sarà “senza spessore”. Ciò che è coincide con ciò che appare e, proprio a causa di questa conciliazione, viene a prodursi paradossalmente una frattura insanabile. Ciò che appare è ciò che è. “Nel mondo realmente rovesciato, il vero è un momento del falso” (Debord 1967, p.55)

Digressione

Gli uomini non possono vedere nulla intorno a sé che non sia il loro proprio viso: tutto parla loro di loro stessi. Anche il loro paesaggio ha un’anima
[Karl Marx]

La separazione è l’alfa e l’omega dello spettacolo. (…) Lo spettacolo è la conservazione dell’incoscienza nel cambiamento pratico delle condizioni di esistenza. (…) Ogni comunità e ogni senso critico si sono dissolti nel corso di questo movimento, nel quale le forze che hanno potuto crescere separandosi non si sono ancora ritrovate
[Debord]

Parigi 1960. Caroline cammina decisa. Capelli molto corti. Controllata e pensierosa sembra dirigersi in un luogo preciso. Voci fuori campo. Così si apre l’essenziale pellicola di Debord dal titolo Critique de la séparation.

“Lo spettacolo cinematografico ha le sue regole, che permettono di realizzare dei prodotti soddisfacenti. Tuttavia, la realtà da cui bisogna partire è l’insoddisfazione. La funzione del cinema è presentare una falsa coerenza isolata, drammatica o documentaria, come surrogato di una comunicazione e un’attività assenti. Per demistificare il cinema documentario, bisogna dissolvere quello che si chiama il suo soggetto…Una ricetta ben consolidata stabilisce che, in un film, tutto ciò che non è dettato per immagini debba essere ripetuto, altrimenti il suo senso sfuggirà agli spettatori. E’ possibile. Ma questa incomprensione è dovunque negli incontri quotidiani... Dopo tutti i tempi morti e i momenti perduti, restano questi paesaggi da cartolina illustrata attraversati senza fine; questa distanza organizzata tra ciascuno e tutti. L’infanzia? Ma è qui; non ne siamo mai usciti. La nostra epoca accumula poteri, e si sogna razionale. Ma nessuno riconosce come suoi dei simili poteri.” (Debord 1961)

L’immagine-movimento viene sostituita dall’immagine-documento: fotogrammi come inquadrature e interpretazioni di un’epoca, la nostra, che sgretola e svuota di senso il referente ultimo dell’imago: la realtà. Se l’immagine cinematografica si dà come elemento-medio tra l’immagine e ciò che dovrebbe rappresentare, nell’epoca contemporanea tale “riferirsi” è un “rinvio” di cui non si hanno origini certe se non nel magmatico dominio dell’oscurità. Il cinema di Debord produce una crepa nel comune senso di considerare il cinema; il suo è un tentativo politico prima che artistico, una tensione costante e ripetuta di portare alla luce la memoria di una realtà che non soddisfa, una realtà che tracima il cadavere della cultura e lo prepara per le nostre tavole addobbate di ipocrisie. La mutazione dei tempi storici non ha fatto altro che accogliere il messaggio debordiano all’inverso: alla secca litania dell’immagine-documento detournata, pesante come una pietra nello stomaco dei benpensanti, si è sostituita la sequela del consumo sfacciato e selvaggio. Alla voce fuori-campo che si leva come un monito durante la sequenza dei fotogrammi, è subentrata una processione di “signorine buonasera” legittime custodi del solo presente, che accolgono nei loro corposi ma rassicuranti decolté la maternità della storia e della memoria. “La filosofia, in quanto potere del pensiero separato, e pensiero del potere separato, non ha mai potuto da se stessa superare la teologia. Lo spettacolo è la ricostruzione materiale dell’illusione religiosa. (…)Lo spettacolo è la realizzazione tecnica dei poteri umani in un al di là: la scissione compiuta all’interno dell’uomo” (Debord 1967, pp.58-59).

Della deriva

Il soggetto produce, come quasi un prolungamento di sé, un ambiente o un percorso entro il quale egli si muove liberamente: il calcolo dei tragitti abituali dettati dalle costrizioni quotidiane vengono sostituite da uno sfaldamento dei confini e dalla “possibilità di cambiar strada”. Dietro gli esperimenti sulla deriva che Debord fa c’è un impianto teorico interessante ed attuale al contempo: la deriva infatti presuppone la nascita di un nuovo Urbanismo entro cui il soggetto, muovendosi nello spazio circostante, tesse la tela delle sue possibilità; dietro alla teoria della deriva, o forse come suo presupposto, sta la liberazione del soggetto, il disancorarsi dalla propria costrizione per costruire, quasi paradossalmente, ciò che potrebbe appartenergli: se stesso e l’altro da sé. Ciò che percepisce il soggetto è l’espropriazione di un mondo auto-sussistente, un organismo farraginoso e intestinale che lo vede (o meglio lo osserva) gettato in una situazione già pre-confezionata in cui potrà, se vuole, solo comparire a intermittenza. Se è vero (come scrive Althusser) che esiste una filosofia del senso comune ed una Filosofia tout court per la quale il mondo può e deve essere trasformato, Debord propone di far diventare il nostro orticello ricco di idee fuori stagione un terreno piano e fecondo di infinite possibilità scaldato dalla fioca luce della ragione. L’orticello delle idee della filosofia del senso comune è in fondo il nostro piccolo e rassicurante recinto, un luogo sicuro in cui si nutre l’illusione di poter dire cose di una certa incidenza. Come i sogni anche le illusioni si pagano col prezzo del mattino, e l’orticello diviene presto uno “scompartimento” da cui si crede di poter guardare fuori: risulta essere effettivamente il luogo in cui sono state calcolate perfettamente tutte le possibili direzioni. Le distanze tra l’interno e l’esterno sono così filtrate da un trama fitta di relazioni che poco spazio lasciano alla libertà di ognuno. Avere il coraggio del proprio intelletto e del proprio pensiero è lo scardinamento del recinto, è la presa di coscienza della nostra precarietà e della “trasversalità” dello spazio del soggetto. L’apertura dello spazio al soggetto è dunque la possibilità di uscita dal labirinto delle abitudini, la fuoruscita dall’incubo del “territorio programmato” a cui Debord dedicherà il settimo capitolo de La società dello spettacolo. La deriva è per i situazionisti un esperimento, un rendez-vous possible di cui il soggetto è protagonista assoluto. L’appuntamento possibile si colora, più di altri esperimenti sulla deriva, di cosiddetti comportamenti spaesanti. “La parte dell’esplorazione appare minima…nell’appuntamento possibile” (Debord, 1956, p. 117). Nel randez-vous possible larga parte ha la situazione emotiva del “soggetto spaesante” visto che l’azione e la conseguente re-azione da parte di terzi è assolutamente imprevedibile; pare dunque una ricognizione del campo empirico e delle interferenze da parte di altri appuntamenti di attese senza scopo preciso. In questo apparente caos di temporalità che si incontrano sta l’essenza dell’esperimento (che risulta paradossale visto che di esso l’oggetto è qualcosa di non ripetibile cioè l’esperienza): riscoprire la propria libertà spaziale. In linea di principio, il progetto situazionista riguardante la teoria della deriva è denso di significato: la libera costruzione della vita quotidiana e un parziale contributo alla “produzione” teorica e pratica della contestazione alla “modernizzazione” . Scrive Debord nel 1963: “Pur con occasionali differenze nei suoi mascheramenti ideologici e giuridici, è sempre la stessa società – contraddistinta dall’alienazione, dal controllo totalitario e dal passivo consumo spettacolare – che prevale ovunque. Non si può capire la coerenza di questa società senza una critica radicale che si ispiri ad un progetto di opposizione di una creatività liberata che è il progetto di sovranità di tutti gli uomini sulla loro propria storia e a tutti i livelli ” (Debord 1963, p. 3).

Dello spettacolo

Una confortevole, levigata, ragionevole, democratica non-libertà prevale nella civiltà industriale avanzata, segno di progresso tecnico. In verità che cosa potrebbe essere più razionale della soppressione dell’individualità nel coso della meccanizzazione di attività socialmente necesarie ma faticose.
[Marcuse]

“Lo spettacolo è l’erede di tutta la debolezza del progetto filosofico occidentale, che fu pure una comprensione dell’attività, dominata dalle categorie del vedere; così come si fonda sull’incessante spiegamento della razionalità tecnica precisa che è uscita da questo pensiero. Esso non realizza la filosofia, filosofizza la realtà.” (Debord 1967, p.58) “L’alienazione dello spettatore a beneficio dell’oggetto contemplato…si esprime così: più egli contempla, meno vive; più accetta di riconoscersi nelle immagini dominanti del bisogno, meno comprende la sua propria esistenza e il suo proprio desiderio. L’esteriorità dello spettacolo in rapporto all’uomo agente si manifesta in ciò, che i suoi gesti non sono più suoi, ma di un altro che glieli rappresenta. E’ la ragione per cui lo spettatore non si sente a casa propria da nessuna parte, perché lo spettacolo è dappertutto” (Debord 1967, p.63) Ciò che lo spettacolo mostra è il mondo della merce. Ciò che la merce produce e di cui si nutre è la categoria del quantitativo sottomessa al qualitativo. La trasfigurazione del lavoro umano in lavoro-merce risulta uno degli aspetti e delle conseguenze dell’indipendenza della merce che esercita il suo dominio incondizionato sull’economia. Lo spettacolo è il palesarsi della dittatura della merce che non “agisce” in modo occulto ma occupa totalmente la vita sociale. Ecco che alla distinzione tra valore d’uso e valore di scambio si sostituisce l’identificazione, pressoché completa, dei due valori della merce fino al punto in cui il valore d’uso diventa egemone. Tutto ciò determina una forma perversa di privazione. “Il consumatore reale diviene consumatore di illusioni. La merce è questa illusione effettivamente reale, e lo spettacolo la sua manifestazione generale” (Debord 1967, p.72). Nella società dello spettacolo la merce è creatrice del mondo e auto-sussistente. Nel mondo rovesciato dello spettacolo la merce contempla se stessa: la sua pseudo–giustificazione sta nello pseudo-uso della vita. Il meccanismo pare contorto e pur tuttavia talmente semplice da sembrare inquietante: “la rappresentazione spettacolare dell’uomo vivente” determina il movimento e lo sviluppo di banalizzazione; è Debord a chiarire: la giustificazione di ogni merce risiede nell’abbondante produzione della totalità degli oggetti “di cui lo spettacolo è un catalogo apologetico” (Debord 1967, p.82). l’oggetto singolo è investito, agli occhi del consumatore, di un carattere religioso…quasi mistico. Tale stato comprende e “parmane” nell’oggetto come produttore di illusioni. In altre parole, nonostante la singola merce venga consumata, la forma-merce persiste verso la sua realizzazione assoluta. Ogni merce logorata comporta l’insorgenza di un’ulteriore merce che legittimi “l’illimitato artificiale” (Cfr. Debord 1967 p.84). Il nostro è “il tempo delle cose, perché l’arma della sua vittoria è stata appunto la produzione in serie degli oggetti, secondo le leggi della merce” (Debord 1967 p.135)

A proposito…

“La cultura è il luogo della ricerca dell’unità perduta. In questa ricerca dell’unità, la cultura come sfera separata è costretta a negare se stessa” (Debord 1967 p.161). I motivi sono da ricercare nella frattura del linguaggio che non può più comunicare nulla oltre l’impossibilità di cambiamento. Così anche l’arte cosiddetta di avanguardia altro non è che la sua stessa scomparsa. La realizzazione dell’arte è al di là di se stessa (Cfr. Debord 1967 p. 166). Ecco che, con arbitraria fondazione, sorge la pseudo-cultura spettacolare; la pseudo-cultura che cerca di rirpistinare un’unità senza comunità. Allora la cultura nelle sue manifestazioni e parcellizzazioni diviene anch’essa merce. Merce al servizio del pensiero spettacolare. Il severo avvertimento debordiano esorta all’attenzione su quanti abbiano cercato di criticare lo spettacolo. Si rischia di cadere nella superficialità di attacchi senza spessore che non tengono conto della “profondità” di una società delle immagini. Le radici di tale “trasformazione” infatti sono da indagare nelle basi materiali dello spettacolo stesso. Tanto si è discusso sul testo principale di Debord e tanto si è abusato. Stralci e brevi periodi possono essere (e sono state) oggetto di becere strumentalizzazioni politiche che poco hanno a che fare con il détournament. Ecco che si commette l’errore di inciampare nel linguaggio sterile dello spettacolare pur cercando di contrastarlo. “Per distruggere effettivamente la società dello spettacolo, occorrono degli uomini che mettano in azione una forza pratica”. L’agire, che tanto spaventa certi filosofi, tutti intenti a fabbricare i loro “ siparietti personali”, significa mettersi in gioco e considerare il potere del pensiero come ciò che può trasformare la realtà. La debolezza del pensiero filosofico di cui parla Debord, deve portare ad una rinnovata presa di posizione di fronte a quanto sta accadendo. “La coscienza spettatrice, prigioniera di un universo appiattito, delimitato dallo schermo dello spettacolo, dietro il quale è stata deportata la sua vita, non conosce più se non i suoi interlocutori fittizi che la intrattengono unilateralmente sulla loro merce e sulla politica della loro merce” (Debord 1967, pp. 181-182). E’ chiaro come lo spettacolo si serva delle coscienze spettatrici e fin qui ci possiamo ritenere in qualche modo solo “ingannati”. Ma c’è dell’altro: non solo si stabilisce un dialogo fasullo tra il soggetto spettatore e l’illusorio interlocutore ma si innesca un meccanismo di frustrazione, a causa delle pseudo-risposte, che determina il bisogno di emulazione. Il sentimento di supplizio quasi fisico che il consumatore metabolizza come bisogno di rappresentazione sta alla base della nevrosi spettacolare (Cfr. Debord 1967, p. 182). La scelta individuale era forse possibile nell’ottica debordiana del ’67; risulta impraticabile secondo la più recente analisi che Debord fa nei Commentari sulla società dello spettacolo del 1988. Secondo Debord infatti l’esito dello spettacolo è il totale mescolamento dell’immagine alla realtà. Non esiste opposizione e capacità critica perché non esiste la condizione della distinzione. Il governo spettacolare risulta “occulto” nell’accentramento del suo potere; le due modalità di diffusione e concentrazione si risolvono e confluiscono nel cosiddetto “spettacolare integrato”. Se prima il vero era divenuto un momento del falso, ora il vero è “indimostrabile”. La conseguenza dell’integrato è esattamente la mancanza di discussione nell’appiattimento dell’eterno presente (Cfr. Debord 1988, pp.195-199). Allora al “bombardamento” gratuito e unilaterale da parte della merce-vedette, si aggiunge e si fa strada un altro fenomeno conseguente allo “spossessamento”: il voyerismo di spiare ciò di cui ci sentiamo privati. Ciò che è nascosto e dovrebbe forse restare privato assume un ruolo importante nell’economia spettacolare integrata: guardare come gli altri vivono e si relazionano fra loro ci fa dimenticare quanto poco ci occupiamo della nostra quotidianità. E’ come guardare attraverso il buco di una serratura o scoperchiare per un attimo il soffitto delle stanze altrui restando passivi testimoni e fare finta di calarsi nell’altro, derubandolo di un po’ di intimità. Lo spettacolare anche detto “mediale” ha prodotto secondo Debord una fitta rete di rassicurazioni per ognuno dei consumatori: dall’esperto-mediale (colui che ha sempre la risposta adatta [quindi falsa]) a colui che dovrebbe informare o che ritiene di poter testimoniare qualcosa. Tutto falsato dunque comprese le nostre percezioni. Tutto equivalente sotto il comune denominatore dello spettacolo integrato. Ecco che ciò che appare esiste. Esiste in quanto appare. Questo vale sia per gli oggetti sia per le notizie (per esempio): “ciò di cui lo spettacolo può smettere di parlare per tre giorni è uguale a ciò che non esiste. Perché allora parla di qualcos’altro, e quindi è quella la cosa che, a partire da quel momento, in definitiva esiste” (Debord 1988, p.201).

 

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BIBLIOGRAFIA

Guy-Ernest Debord
1956 Theorié de la dérive, in Les Livres neus, n. 9, novembre 1956, Bruxelles ; ed it. Teoria della deriva in Potlatch, Bollettino dell’internazionale lettrista 1954-57, Nautilus, Torino 1999.

1961 Critique de la séparation, Regia e sceneggiatura: Guy Debord. Montaggio: Chantal Delattre. Interprete : Caroline Rittener. 1961, b/n, 35 mm, 19’.

1963 Les situationnistes et les nouvelles formes d’action dans la politique et dans l’art, in Destruktion af RSG-6 : En Kollectiv manifestation ok Situationistik Internationale, Galeria EXI, Odense (Danimarca) 1963 ; ed. it., I situazionisti e le nuove forme d’azione nella politica e nell’arte,( trad. a cura di C. Maraghini Garrone) Nautilus, Torino 1990. Recentemente in trad.it. a cura di E. Ghezzi, R. Turigliatto, I situazionisti e le nuove forme d’azione nella politica o nell’arte, in Guy Debord (contro) il cinema, Il Castoro-Biennale di Venezia, Milano 2001.

1967 La Société du Spectacle,Buchet-Chastel, Parigi 1967 ; ed. it. , La Società dello Spettacolo, Baldini e Castoldi, Milano 1997, (prefazione C. Freccero e D. Strumia).

1988 Commentaires sur La Société du Spectacle, Gerard Lebovici, Parigi 1989; ed. it., Commentari sulla Società dello Spettacolo, Baldini e Castoldi, Milano 1997, pp. 185-248 (nota biografica P. Corrias).


SITOGRAFIA

- M. Priarolo, Filosofia e arte. Ritorno a Debord,
URL: www.exibart.com/notizia.asp?IDNotizia=9394&IDCategoria=1

- www.larevuedesressources.org
- www.nothingness.org
- www.bopsecrets.org
- www.epdlp.com/debord.html