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ANDREA TAGLIAPIETRA

L'apocalisse delle immagini.
Esegesi del cinema di Wim Wenders a partire da "Fino alla fine del mondo"


Apocalisse senza catastrofe


"Il 1999 fu l'anno in cui il satellite nucleare indiano impazzì, nessuno sapeva dove sarebbe potuto cadere. Si librava, appena al di sopra dello strato dell'ozono, come un micidiale uccello rapace. Il mondo intero era in allarme, ma Claire, in quel periodo, viveva un suo incubo privato. Sognava tutte le notti un volo silenzioso, su una terra sconosciuta. Al principio la sensazione di volo era piacevole, ma poi diventava una sensazione di caduta, e successivamente di panico. E si svegliava di soprassalto. Nell'autunno del 1999 a Claire Tourneur capitava di svegliarsi in strani posti [...]". Così inizia il prologo di "Fino alla fine del mondo" (1991) di Wim Wenders, raccontatoci da una voce fuori campo, quella - lo apprenderemo in seguito - ,dello scrittore Eugene, marito di Claire, che, mentre ci racconta quella storia che il film rappresenta, insieme sta leggendo l'inizio del suo romanzo, "Una danza intorno al pianeta". Romanzo, ossia parola scritta che, come vedremo, avrà una funzione decisiva nel meccanismo narrativo della trama del film. Sarà, infatti, la lettura del romanzo di Eugene - il medesimo "Una danza intorno al pianeta", secondo un raffinato anacronismo di autodissoluzione (lo stesso che faceva evocare a Wittgenstein, alla fine del suo "Tractatus logico-philosophicus", la figura di colui che "getta via la scala dopo che v'è salito"(6.54) (Einaudi, Torino 1974, p. 82)) - a salvare Claire dall'intossicazione visiva delle immagini oniriche di cui resterà vittima con l'amico Sam, il cacciatore di immagini. Spiegando questa guarigione in una lunga intervista sul film, Wenders dichiarava "la malattia di Claire è la malattia delle immagini, curata da un'arte molto più antica e più semplice, con una narrazione, con la parola. E Eugene, lo scrittore che segue lo sviluppo del morbo, non ha altri strumenti se non mostrarle la sua immagine riflessa usando il linguaggio. Le sue parole effettivamente guariscono Claire: leggendo la propria storia lei si libera della malattia delle immagini" ("L'atto di vedere", Ubulibri, Milano 1992, p. 53).
Come leggiamo nel testo di un discorso tenuto da Wenders, al festival del teatro di Monaco, lo stesso anno dell'uscita nelle sale di "Fino alla fine del mondo", "se il mondo delle immagini sta andando a rotoli e se le immagini si stanno ormai autonomizzando sempre più a causa del progresso e della tecnica, tant'è che non sono già più controllabili e lo saranno sempre di meno, esiste comunque anche un'altra cultura, una controcultura nella quale nulla è cambiato e nulla cambierà: la narrazione scritta di storie, la letteratura, la lettura, la "parola". Io non credo a molte cose della Bibbia, ma credo comunque profondamente nella frase [si tratta dell'inizio del "Vangelo di Giovanni" (Gv. 1,1) che fa eco all'inizio dell'intera Scrittura, ossia al primo versetto della Genesi ]: "In principio c'era la parola". E non ritengo che un giorno si dirà: "E alla fine ci fu l'immagine...". La parola rimarrà" ("L'atto di vedere", cit., p. 140).
Le considerazioni sul cinema di Wenders che intendiamo svolgere partono dal breve suggerimento di queste parole. Parole che ci dicono la possibilità di porre l'immagine al di fuori della banalità con cui il senso comune contemporaneo traduce l'"apocalisse" - e, quindi, anche l'"apocalisse delle immagini" -, ovvero come "catastrofe" e "disastro" (e "catastrofe", anzi "dis-astro", in senso letterale, ossia la "caduta della stella" è l'uscita dalla sua orbita del satellite nucleare indiano con cui si apre la narrazione di "Fino alla fine del mondo"). Al di fuori, quindi, della consuetudine culturale "anti-utopica" o "dis- topica" con cui si è soliti pensare "in negativo", almeno a partire dal secondo decennio di questo secolo ("Il tramonto dell'Occidente" di Oswald Spengler può, in qualche modo, rappresentarne il testo di riferimento), ai progressi della tecnica che condizionano la nostra vita. Alla fine non ci sarà l'immagine, potremmo dire, perché l'immagine non sarà sola, perché l'immagine "finalmente avrà la sua parola". Per Wenders, com'è noto, compito del cinema è quello di ricostruire la "purezza dello sguardo" che è propria dell'"infanzia", degli "occhi di un bambino". "Gli occhi del bambino". Ricordate il cantilenante refrain della poesia di Handke che accompagna la visione de "Il cielo sopra Berlino" (1987): "quando il bambino era bambino, se ne andava a braccia appese... non sapeva d'essere un bambino, per lui tutto aveva un'anima, e tutte le anime erano tutt'uno... Su niente aveva un'opinione, non aveva abitudini... Narra Musa del narratore, l'antico bambino, gettato ai confini del mondo e fa che in lui ognuno si riconosca... Un vecchio son io, di voce stridula, ma il racconto si leva ancora dal profondo... Basta con l'espansione nel tempo: avanti e indietro nei secoli. Posso pensare solo da un giorno all'altro. I miei eroi non sono più guerrieri e re, ma fatti di pace. Cosa c'è nella pace che alla lunga non entusiasma e non si presta al racconto? Devo darmi per vinto ora? Se mi do per vinto, allora l'umanità perderà il suo cantore e, quando l'umanità avrà perso il suo cantore, avrà perso anche l'infanzia". Gli "occhi del bambino", si diceva, sono gli occhi con cui si deve fare e si deve guardare un film, secondo quanto sosteneva il nostro regista in un'interessante conversazione con Jean-Luc Godard dell'autunno del 1990 ("L'atto di vedere", cit., p. 146). Viene in mente, in proposito, la famosa sequenza di "Nel corso del tempo" (1975) in cui Robert, ossia Kamikaze, regala i suoi occhiali e la sua valigia a un bambino in cambio del suo quaderno. Nel quaderno il bambino annota tutto ciò che vede. Il quaderno del bambino diviene, dunque, il simbolo eminente di una visione pura, fenomenologica, oggettiva, che contrappone l'"evidenza" intrinseca della rappresentazione/riproduzione della realtà all'inevitabile "falsificazione" della "messa in scena" di una qualsiasi trama. Abbiamo qui due modelli antitetici del cinema che, secondo un gioco etimologico già adombrato nel finale di "Nel corso del tempo", trovano adeguata corrispondenza nella stessa terminologia della lingua tedesca. Lingua che Wenders, come ogni buon intellettuale figlio della "pallida madre", almeno da Herder e Hegel in poi, non perde occasione di elogiare per la sua ricchezza e per la sua espressività intrinseca: "la nostra salvezza", egli scrive, "in questo paese, che ne è attualmente così bisognoso, è la lingua tedesca. È una lingua matura, esatta, sottile, differenziata, amabile, precisa e cauta a un tempo. Ed è una lingua ricca, l'unica grande ricchezza di un paese che si crede ricco e non lo è. La lingua è tutto ciò che questo paese non è più, non è ancora e, forse, non sarà mai. Forse potete credere a queste parole, dette da un creatore di immagini [...]" ("L'atto di vedere", cit., p. 141). Ecco allora che, esplicitando la pregnanza etimologica della lingua tedesca, accade che, per Wenders, il "cinema come "Lichtspiel"" si contrapponga al "cinema come "Kino"". Il "Lichtspiel" è il cinema dell'evidenza degli oggetti, è il cinema che cerca di ricuperare lo sguardo del bambino. Questo cinema è, letteralmente, un "gioco di luce", "Lichtspiel", sì che è la luce stessa dell'immagine a scrivere la propria storia e l'"atto di vedere" è, insieme, un "mettersi in ascolto delle immagini" (tema che Wenders svilupperà in particolar modo in "Lisbon Story" (1994)), ovvero un "lasciarle parlare". Dall'altra parte sta il cinema dell'intreccio e della trama, il "cinema come "Kino"", identificato usualmente con il film d'azione della tradizione americana. Come Wenders affermava in un'intervista a "Jeune Cinéma" (n. 94, aprile 1976) appena successiva all'uscita di "Nel corso del tempo", "non mi piacciono le storie che costringono a una tensione, a far attendere qualche cosa". Il "cinema come "Kino"", al di là delle distinzioni di genere (Giallo, Western, Avventura, Fantascienza, ecc.), è il cinema dell'attesa, della "suspense", in cui il movimento - in "Kino" risuona, meglio che nel francese "cinéma", di cui è calco, il greco "kìnesis", che significa appunto "movimento" - è dato dalla trasmissione meccanica della trama, dall'esteriorità della storia che si addiziona artificiosamente all'immagine, togliendole la parola, ossia sovrapponendo la parola vettorialmente orientata della narrazione alla parola che narrano le immagini, nella loro semplicità. In più occasioni Wenders ci ha messo inguardia sul pericolo di accecamento che si nasconde dietro questa sovradeterminazione ed intensificazione narrativa dell'immagine ("quando un'immagine è troppo piena o quando le immagini sono troppe non si vede più niente" ("L'atto di vedere", cit., p. 90)), che preclude l'autenticità dello sguardo, cancellando il luogo stesso che lo ospita, ossia la città o il paesaggio ("in un film si inventa una vicenda, la si inserisce in un luogo, in una città, in un paesaggio, e capita che l'invenzione precluda lo sguardo su questo paesaggio. Si vede soltanto la propria invenzione. Il paesaggio sullo sfondo viene solo sfruttato, nel senso proprio della parola" ("L'atto di vedere", cit., p. 121)). Allora, la violenza del "cinema come "Kino"" potremmo dire che si manifesti, di fatto, nella forma dell'inserimento di un "falso movimento", quello della "storia" esterna all'immagine, nel "movimento" che è proprio della realtà della visione che appare. In un breve scritto del 1991, preposto come introduzione al catalogo delle foto di Mario Ambrosius, Wenders osservava che "nel film conta soltanto il tempo raffigurato che scaturisce dalla narrazione di una storia e poi si impone, come dimensione temporale autonoma, sul luogo. Questo significa, forse", s'interrogava il regista, "che i film fanno sempre torto ai luoghi ripresi, vincolandoli in maniera subordinata ad un unico tempo, ovvero il presente della storia narrata?". La risposta di Wenders, qualche riga più avanti, suona così: "forse, il torto che un film può fare a un luogo, è proprio quello di rendere invisibile il suo grande tempo, spacciando il tempo della propria storia come più importante"("L'atto di vedere", cit., pp. 113-114). La cifra stilistica del "cinema come "Kino"" è la "velocità", la "rapidità" che, per dirla sempre con Wenders, "non lascia spazi vuoti tra le immagini"("L'atto di vedere", cit., p. 90). A questarapidità il "cinema come "Lichtspiel"" contrappone la "lentezza" - lentezza esasperante, al limite della carenza tecnica nei primi cortometraggi e nei primi film di Wenders che, per sua stessa ammissione, "equivalevano a un dipingere con la telecamera"("L'atto di vedere", cit., p. 38). Questa lentezza ha tuttavia a che fare con il tentativo di rispettare "il tempo dell'immagine", ovvero la sua storia. Come nota Wenders in un'intervista del 1988, i miei primi film "erano veramente immagini che scorrevano in un tempo dato, erano dipinti. Le immagini catturavano una realtà e si concludevano per il semplice fatto che veniva la fine del film, per me, a quel tempo, l'unico modo plausibile per terminare un'opera. E fu quella di tagliare un'immagine la prima idea assolutamente indipendente dalla pittura. Da quel momento, tutto all'improvviso cambiò. Si trattava di un diverso sistema di pensiero, e d'esperienza". Tuttavia, "anche quando ho fatto abitudine ai tagli, e al delinearsi di un linguaggio interamente nuovo, che si distanziava da quello pittorico, non ho mai rinunciato a cercare una sorta di equità a livello temporale, di "rendere giustizia al tempo"" ("L'atto di vedere", cit., p. 38). "Rendere giustizia al tempo" mediante l'immagine significa, scrive Wenders, nel testo di una conferenza sul "Paesaggio urbano" dell'ottobre del 1991, consentire "agli occhi e ai pensieri di muoversi liberamente" ("L'atto di vedere", cit., p. 90). Il contrasto fra il "cinema come "Lichtspiel"" e il "cinema come "Kino"" non è, dunque, un contrasto tecnologico (p. es. quello fra l'immagine cinematografica e l'immagine elettronica), ma un contrasto linguistico, che implica ben determinate conseguenze ideologiche e morali. Proprio a partire da "Fino alla fine del mondo", ove vi è un elevato tasso di sperimentazione tecnologica, Wenders sembra spostare la critica alla tecnologia, da una critica del mezzo, ossia dello strumento in sé, ad una critica dell'utilizzo dello strumento, ossia del linguaggio. Questa critica, che a volte scivola nel facile moralismo - è questo, a mio avviso, il caso di "Così vicino, così lontano" (1993) e del più recente "The Million Dollar Hotel" (1999) -, poggia sul superamento dell'opposizione fra immagine e storia e sull'acquisizione della consapevolezza di un'autonomia narrativa dell'immagine, non più basata sulla sua presunta ed astratta purezza, ma anzi, proprio sulla sua concreta "complessità". Riprendendo la chiusa allegorica di "Nel corso del tempo" è come se Robert/Kamikaze avesse compreso che gli "occhiali", ossia il "modo di vedere", e la "valigia", ovvero la "storia" che ognuno di noi porta con sé - oggetti che, nel film, Robert scambia con il "quaderno" del bambino -, si trovano già fuse insieme in quel "quaderno" di registrazione fenomenologia delle immagini, giacché, in sé, non c'è immagine senza storia e non c'è storia senza immagine. Parafrasando un noto adagio della "Critica della ragion pura" di Kant a proposito di intuizioni e di concetti, si potrebbe dire che "le storie senza immagini sono cieche, mentre le immagini senza storie sono vuote". Applichiamo, allora, questa nuova prospettiva di sintesi fra immagine e storia alla prima inquadratura di "Fino alla fine del mondo".
Prologo teologico. Dell'inizio Prima che la voce fuori campo inizi a parlare, il quadro presenta il massimo di rarefazione. Lo schermo è nero e vuoto. Nella conferenza sul "Paesaggio urbano" di cui abbiamo già fatto menzione in precedenza, parlando a un pubblico di architetti, Wenders, paradossalmente, aveva esortato i suoi ascoltatori "a considerare ciò che per definizione è l'esatto contrario del vostro lavoro", ossia "creare spazi liberi per conservare il vuoto, affinché la sovrabbondanza non ci accechi, e il vuoto giovi al nostro ristoro" ("L'atto di vedere", cit., p. 93). Dobbiamo subito osservare che, in questo caso, lo schermo nero e vuoto non rappresenta affatto una mera "interpunzione" della scrittura filmica, di un passaggio da un'inquadratura all'altra - sia pure quel primo passaggio che corrisponde all'"incipit" della scrittura. Qui, ciò che si pone immediatamente alla nostra considerazione è proprio la questione stessa dell'"incipit", ossia dell'inizio. Come nella scrittura l'inizio è il bianco della pagina, così, nell'immagine, l'inizio è il nero, l'assenza dell'immagine (e/o di qualsiasi colore). Il paradosso della scrittura - ma, certo, anche dell'immagine - è che anche quest'inizio si dà, comunque, nella forma della scrittura e dell'immagine, ossia appartiene alla scrittura e all'immagine. "Nulla vi è, né in cielo, né in terra, "né all'Inizio"" - potremmo dire, ripetendo le parole dell'omonimo scritto di Massimo Cacciari, "Dell'Inizio", appunto -, "che non contenga insieme immediatezza e mediazione"(Adelphi 1990, p. 167). Ciò significa che, all'inizio, è già la dualità, la piega della rappresentazione, sì che, in un certo qual modo, possiamo affermare che la rappresentazione appartiene all'inizio, sin dall'inizio. Se è vero quanto scriveva il filosofo francese Gilles Deleuze nelle sue riflessioni sul cinema raccolte in "Cinema 1. L'immagine-movimento", "il quadro ci informa che l'immagine non si dà soltanto per essere vista" (Ubulibri 1984, p. 26). "Non si dà soltanto" significa che l'immagine si dà "anche per essere vista" ma, oltre a ciò, l'immagine manifesta, nello stesso darsi, l'ulteriorità del suo "essere immagine". Ogni immagine - potremmo dire -, mostra ciò che mostra e, insieme, mostra se stessa. "Quell'ombra che l'immagine getta sul mondo", s'interroga Wittgenstein nei "Quaderni" degli anni 1914-1916, "come afferrarla esattamente? Ecco un mistero profondo" (Einaudi 1974, p. 120). Il cinema, secondo Wenders, è il mezzo per afferrare, per cercare di cogliere, in qualche modo, l'essenza di questo mistero. Rubando le parole che lo stesso regista mette in bocca a Malkovich nel prologo dell'"Al di là delle nuvole" (1995) di Michelangelo Antonioni, "non sono un filosofo, al contrario sono uno visceralmente legato all'immagine". Il mistero dell'ombra dell'immagine sul mondo, infatti, non è, forse, un problema filosofico. Almeno non lo è nel senso in cui la filosofia stessa sta all'interno di questo problema e non lo domina, ma anzi, in forme diverse, ne viene dominata. Su questo tema, più di dieci anni fa, ho anche cercato di scrivere un libro, "La metafora dello specchio" (Feltrinelli 1991), nella convinzione che sulla definizione di ciò che è "immagine" si decida l'orientamento di molte altre cose, nel pensiero come nella vita. Ma il problema in questione, proprio perché è un problema prefilosofico o metafilosofico, può (o deve) anche essere declinato in forma mitica, senza perdere complessità - anzi, forse, guadagnandone in chiarezza -, come ci insegna il testo più autorevole della tradizione occidentale, la Bibbia, nei primi cinque versetti del "Genesi". "In principio", recita quello che potremmo definire l'"incipit" di tutti gli "incipit", "Dio creò il cielo e la terra. Ora la terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l'abisso e lo spirito di Dio aleggiava sulle acque. Dio disse "Sia la luce!". E la luce fu. Dio vide che la luce era cosa buona e separò la luce dalle tenebre e chiamò la luce giorno e le tenebre notte. E fu sera e mattina: primo giorno"(Gen. 1,1-5). Inutile ricordare come, nei secoli, l'esegesi ebraico-cristiana abbia dissezionato questi versetti e come la traduzione burocratica della Bibbia - quella vigente, che qui, per comodità, abbiamo riportato - riproduca solo alla lontana e spesso, anzi, adombri, l'estrema ricchezza del testo. In funzione di quanto cerchiamo di dire qui - e quindi in senso assolutamente non teologico - va inteso, pertanto, il ricorso al testo delle "Confessioni" di Agostino il quale, negli ultimi tre libri della sua opera (XI-XIII), inserisce, in questa che, per certi versi, può essere definita la prima autobiografia intellettuale della letteratura occidentale, un attento e ponderato commento alle prime parole del "Genesi". Agostino si sofferma particolarmente sul problema di cui si è appena detto, ossia su come quell'"in principio" possa e non possa supporre un "prima". È la grande domanda brutalmente formulata dal cosiddetto credente curioso, "che cosa faceva Dio prima della creazione?"(XI,12), la quale, quando non viene elusa con la battuta, tipicamente pretesca, "preparava l'inferno per coloro che vogliono scrutare il cielo", costringe alla risposta più banale "prima di creare il cielo e la terra Dio non faceva assolutamente nulla". Solo il "nulla", infatti, che è anche, ovviamente, quell'assenza di tempo e di storia che si suole chiamare "eternità", permette di sfuggire dal modello umano del fare, che, al contrario, presuppone sempre una materia, un'immagine precedente - si potrebbe dire -, un'azione, ovvero la temporalità che è propria dell'"immagine-movimento", la quale, quindi, si manifesta, sempre e comunque, come storia. Ricompare qui la polarità fondamentale che struttura l'arco dell'intera opera wendersiana, ossia la dialettica fra "immagine" e "storia", a cui noi
abbiamo già accennato prima contrapponendo il "cinema come "Lichtspiel"" al "cinema come "Kino"". Per Wenders, che nelle sue dichiarazioni pubbliche non ha mai mancato di ricordare la giovanile passione per la pittura e la formazione prettamente figurativa, l'"immagine" è - almeno nella prima fase della sua parabola artistica (diremmo almeno fino a "Lo stato delle cose" (1982) e, cioè, alla prima metà degli anni Ottanta) - la capacità di aderire perfettamente al reale. L'immagine è il luogo eminente della "verità". In una famosa intervista raccolta in "L'atto di vedere", Wenders dichiarava: "trovo straordinario che l'immagine, diversamente dal pensiero, non imponga alcuna opinione alle cose. In ogni operazione del pensiero è sempre implicito anche un giudizio sugli oggetti, sugli uomini, su una città o su un paesaggio. Il vedere, invece, trascende dalle opinioni; guardando una persona, un oggetto, o il mondo noi sviluppiamo un rapporto autentico, un'attitudine sganciata da qualsiasi giudizio, in fondo percepiamo a livello puro. L'atto del vedere è percezione e verifica del reale, ovvero un fenomeno che ha a che fare con la verità, molto più del pensiero, nel quale invece ci smarriamo più facilmente allontanandoci dal reale. Per me, vedere significa sempre immergersi nel mondo, pensare, invece, prenderne le distanze. E dato che la mia mente funziona soprattutto a livello intuitivo, l'immagine è per me la forma espressiva e ricettiva per eccellenza" ("L'atto di vedere", cit., pp. 43-44). Al contrario, invece, la "storia" appare come il luogo della "falsificazione" e della "menzogna" per eccellenza. Nella stessa intervista, appena citata, Wenders affermava che "le storie sono sempre manipolazione pura. È per questo che le immagini sono, per lo meno a livello latente, ben più cariche di verità. Una storia, a livello latente, tende alla menzogna. Le immagini, invece, hanno un alto tenore potenziale di verità, a maggior ragione quando le osservano i bambini. È ovvio che possono essere fortemente manipolate, e in Germania questo fenomeno lo abbiamo vissuto ben più che altrove. Non io personalmente, certo, è avvenuto nella storia della Germania. Anche il cinema americano dimostra come è possibile manipolare le immagini. Ciononostante resta comunque latente una parte di verità, mentre dietro le storie si nascondono le frottole" ("L'atto di vedere", cit., p. 44). Nella storia, dunque, l'originaria ed immediata aderenza al reale dell'immagine viene travisata e manipolata. La storia lavora, cioè, "contro l'immagine". Molto spesso, infatti, come si è detto a proposito del "cinema come "Kino"", la storia impedisce di vedere, concentrando lo sguardo sui personaggi e sull'intreccio, mettendo in ombra i paesaggi e l'ambiente, in una parola, rimuovendo quello stesso apparire dell'immagine "come immagine" che ne dice la verità. È questo il senso di quella celebre battuta de "Lo stato delle cose": "la vita è a colori, ma il bianco e nero è più realistico". Perché il bianco e nero - potremmo osservare - dice immediatamente l'esser immagine dell'immagine, mentre il colore, mediante l'illusione di una pretesa adeguatezza naturalistica, mente, dice il falso sullo statuto stesso dell'immagine. Il tema centrale del rapporto fra "immagine" e "storia", viene allora sviluppato, nel corso dell'opera di Wenders, da un'iniziale antitesi secca per cui l'"immagine si contrappone in modo assoluto alla storia", mediante una progressiva "presa di coscienza della storicità intrinseca dell'immagine", fino alla considerazione, apparentemente opposta allo sguardo fenomenologico dell'inizio, della "priorità della storia". Se il "primo Wenders" credeva fermamente nella verità dell'immagine e vedeva nell'autonomia giustapposta della storia qualcosa di esteriore all'immagine, una sorta di intruso che velava la vista, col tempo e soprattutto di fronte al fenomeno fortemente "inflattivo" della "civiltà dell'immagine" (la pubblicità, l'immagine come droga) anche l'immagine viene ritenuta inaffidabile (si pensi, per esempio, a "Lisbon Story"). Elemento inaffidabile dell'immagine è divenuta proprio la sua presunta "autonomia", ossia la possibilità che essa, l'immagine, possa essere "disancorata dalla realtà". Il distacco dell'immagine dalla realtà è reso possibile "tecnicamente" - ma la tecnica, per Wenders,, dopo "Fino alla fine del mondo", può essere anche neutra (e quindi non è qui che si cela il male) - dalla nuova frontiera dell'"immagine digitale", che sopprime il rapporto fra "originale" e "copia", facendo venir meno il più antico ed efficace criterio di verità delle immagini, pensato per la prima volta da Platone, per il quale la verità era, come ci ha spiegato, da ultimo, Martin Heidegger nello scritto su "La dottrina platonica della verità" (1940), l'adeguatezza al vedere sovrasensibile dell'"idéa": "l'"idea" è l'e-videnza che conferisce la vista su ciò che è presente. L'"idéa" è il puro risplendere (Scheinen) nel senso in cui si dice "il sole risplende". L'"idea" non fa "apparire"(erscheinen) qualcos'altro (dietro di lei), ma è essa stessa ciò che risplende, importandole unicamente del proprio risplendere. L'"idéa" è ciò che ha il potere di risplendere (das Scheinsame). L'essenza dell'idea consiste in questo suo potere risplendere e rendersi visibile (Schein- und Sichtsamkeit). Essa realizza il venire alla presenza (Anwesung), cioè il presentarsi di ciò che un ente, di volta in volta, è" (Adelphi 1987, p. 180). La normatività di questo "vedere" dell'idea fonda, per Platone, il vedere derivato degli oggetti e delle immagini, entrambi copie di primo e di secondo grado dell'originale. Ma se l'originale dovesse sparire? "Nel momento in cui l'immagine televisiva verrà registrata digitalmente", dichiara Wenders ne "L'atto di vedere", "l'immagine sarà riproducibile all'infinito senza pregiudicarne la qualità, e di conseguenza manipolabile all'infinito. Non si conoscerà più la natura dell'immagine, la sua autenticità [...] Se in un fotogramma c'è una casa, cinque minuti dopo, d'un tratto, non c'è più, e non c'è mai stato niente di simile. L'informazione "casa" si è estinta". Negli "effetti speciali" del cinema tradizionale, quello che, per contrasto tecnico, definiremo "analogico", "noi possiamo percorrere a ritroso", aggiunge il nostro regista, "la creazione di quei trucchi, possiamo ancora individuarli sulla pellicola. Ci sono sei positivi intermedi nei quali, passo dopo passo, si può seguire il procedimento, mentre nel video digitale non c'è più nessun passaggio intermedio, "non c'è più alcun originale". Non ci sono più nemmeno i negativi sulla base dei quali si poteva ancora dire "Qui, inizialmente, l'immagine era diversa, mentre ora è stato fatto dell'altro". Con la registrazione digitale tutto questo non avverrà più. Nel film si può manipolare il negativo, ma esiste ancora la prerogativa della verità, che è conservata dalla fotografia. Nelle immagini digitali non più. Un'immagine così non è più portatrice di verità". Così, conclude Wenders, "non si può più avere nessuna certezza. Si lavora con un materiale che non obbedisce più ad alcun criterio di verità. Conta solo ciò che si vuole realizzare. Si può fare di tutto" ("L'atto di vedere", cit., p. 64). E allora, ci chiediamo, se l'immagine ha perduto il suo criterio di verità interno, come possiamo difenderci dall'invasione delle immagini strumentali? Come possiamo arginare il proliferare dei "cloni digitali", emblemi della totale commercializzazione dell'immagine? Pur oscillando, come si è detto, fra punte di facile moralismo e momenti di ritrovato entusiasmo per le capacità espressive offerte dalle nuove tecnologie, Wenders cerca la conciliazione in un ritrovato equilibrio fra immagine e storia. Nascita dello sguardo Nella già citata conferenza sul "Paesaggio urbano" dell'ottobre del 1991 egli dichiarava, infatti, che "come cineasta sono arrivato alla conclusione che le mie immagini hanno un'unica possibilità, per non essere travolte da questo immenso flusso visivo di concorrenzialità e commercializzazione: devono "narrare una storia". Nel mestiere del regista si cela il pericolo di produrre immagini fini a se stesse, e dai miei stessi errori ho imparato che una "bella immagine" non ha alcun valore in sé, al contrario: una bella immagine può distruggere l'effetto e il funzionamento dell'intera struttura drammatica. Quando iniziai a fare cinema, se il pubblico lodava le mie immagini mi ritenevo estremamente lusingato, come se fosse il miglior plauso. Oggi, se qualcuno le loda penso piuttosto di avere sbagliato qualcosa nel film. E dai miei sbagli ho imparato che l'unico antidoto contro le immagini autocelebrative è credere fermamente alla "priorità della storia". "Ogni immagine trae", infatti, "una sua legittimità solo in rapporto a un personaggio della storia che narra"; e dandole troppa importanza finisce per indebolire il personaggio. E una storia con personaggi deboli non ha alcuna forza. "Solo la storia, l'insieme dei personaggi, conferisce credibilità a ogni singolo fotogramma", "fonda una morale", "per esprimermi nel gergo di un artista"" ("L'atto di vedere", cit. pp. 88-89). Io credo che la ripresa d'importanza della storia rispetto all'immagine, riqualificazione che accompagna la parabola creativa di tutto il "secondo Wenders", derivi da una maggiore consapevolezza dell'intrinseca reciprocità a cui dà luogo ogni immagine. L'immagine è la relazione soggettivo-oggettiva, nel senso che l'immagine è tanto l'oggettività di ciò che viene inquadrato, quanto l'occhio di chi guarda. Sempre negli scritti raccolti ne "L'atto di vedere" troviamo la seguente affermazione: "ogni obiettivo mostra non solo un oggetto di ripresa, ma svela (nel vero senso del termine) anche l'occhio del fotografo o del regista" ("L'atto di vedere", cit. p. 114). In "Fino alla fine del mondo" questa distinzione, come si vedrà in seguito, si manifesta come distinzione fra il vedere dell'occhio e il vedere del cuore. Tale distinzione porta Wenders a riflettere e a prendere progressiva consapevolezza che l'immagine non è quella sorta di "quanto visuale", di "pura percezione" che l'ottica fenomenologica implicava, ma è, anch'essa, un "evento ermeneutico", ossia, per l'appunto, una "relazione". Ciò emerge chiaramente dalla meditazione del regista sul termine tedesco "Einstellung", che nel linguaggio cinematografico significa "inquadratura", ma che insieme, nella lingua comune, significa "posizione", "atteggiamento" nei confronti del mondo. "Dietro ogni inquadratura", dice Wenders, "c'è sempre una persona che la realizza e che prende posizione rispetto a ciò che viene inquadrato. Direi che la morale, l'atto morale insito in ogni inquadratura consiste nel rispetto sia nei confronti di ciò che la cinepresa riprende, che verso il significato veicolato e poi proiettato sullo schermo. Questo atto di fissare e conservare un senso in un'immagine possiamo considerarlo morale, credo, solo come rispetto. Un cineasta fa ogni sforzo per portare rispetto verso l'oggetto dell'immagine e il contenuto di verità che comunica. Non tutti credono a questa caratteristica del cinema: dietro ogni inquadratura si possono intuire le attitudini delle persone nascoste dietro la macchina da presa, e che portano la responsabilità del film. Io credo fermamente che ogni inquadratura rispecchi anche l'indole del cineasta, e che ogni immagine ci mostri ciò che sta davanti e, al contempo, dietro la macchina da presa. La cinepresa funziona in due direzioni, mostra i suoi oggetti ma anche i soggetti. È un fenomeno veramente straordinario per il cinema, che è difficile spiegare in lingue diverse dal tedesco. Il concetto di "inquadratura" si è fissato in maniera geniale nella nostra lingua ancor prima di riferirsi al cinema. Il tedesco è proprio una buona lingua" ("L'atto di vedere", cit. pp. 59-60). La presa di coscienza della "responsabilità dell'immagine" come "posizione morale" e "inquadratura" (Einstellung) che implica la relazione di soggetto e oggetto è, come quelli che l'hanno visto avranno già inteso, il tema di "Lisbon Story". Ecco allora che nel finale allegorico del film Wenders può giocare sull'iperbole di un'immagine "pura", "vera", "meravigliosa" e "innocente", che "non sia stata mai vista". Come spiega il regista Friedrich (il Fritz Munro de "Lo stato delle cose", risorto dodici anni dopo) allo stralunato tecnico del suono Phillip, "una volta che l'immagine è stata vista, l'oggetto abbandona l'immagine", "l'oggetto muore". Di conseguenza, se non si vuole che la città si ritragga come il gatto di "Alice nel paese delle meraviglie", diventando invisibile, bisogna riprendere la città senza inquadrarla, appendendosi la cinepresa alle spalle. Così Friedrich sta raccogliendo una "cineteca di immagini mai viste" per sottrarre all'intenzionalità dello sguardo, ossia al "mercato delle immagini", le "immagini rivelatrici di cose". Queste immagini riposano, incontaminate, in attesa dell'innocenza delle generazioni future, che sapranno guardarle con altri occhi, probabilmente gli "occhi del bambino", di cui si diceva in precedenza, che sono anche gli "occhi dell'angelo" o del "profeta apocalittico". Infatti, quello che Friedrich tratteggia è, indubbiamente, un quadro apocalittico, come sottolinea un grande pannello didascalico, appeso nella sala della cineteca, ove il bambino Ricardo, muto come il cinema delle origini, combina in incrocio le parole inglesi "mostrare" (show), "vendere" (sell), "potere" (power), "bugie" (lies). Ma a questo pessimismo radicale di Friedrich, Phillip contrappone ancora il cuore. Mettendoci il cuore, egli dice, "le immagini in movimento possono ancora fare quello per cui sono state inventate cento anni fa". Avere a cuore l'immagine significa, quindi, responsabilità dell'immagine: l'"amore" contrapposto alla "morte", la "pace" alla "guerra", come ci insegnava la poesia-refrain de "Il cielo sopra Berlino". Solo mediante questo amore si può ribaltare la "catastrofe dell'immagine" in autentica "apocalisse dell'immagine". "E vidi cielo nuovo e terra nuova", recita l'"Apocalisse di Giovanni", "perché il cielo e la terra di prima se n'erano andati"(Ap. 21,1). Perché le immagini tornino ad essere "rivelatrici di cose" non serve elidere l'intenzionalità dello sguardo, bisogna rieducare lo sguardo mediante l'amore. Ma questo sguardo d'amore è lo sguardo dell'inizio, è lo sguardo del bambino, è lo sguardo del creatore nei confronti della sua creatura, senza tuttavia immaginarci il creatore molto diverso da un bimbo che gioca e, giocando, scopre per la prima volta i colori e le forme degli oggetti. Cerchiamo allora di concludere il nostro prologo teologico, congedandoci dai versetti biblici del "Genesi". Spogliati da ogni teologia essi, infatti, non ci raccontano nulla di più che l'"origine dello sguardo", ossia l'"inizio stesso del vedere". Sulla buia negatività del principio, che l'antico sacerdote-poeta descrive come "informe" (o "caotica" (tohu)) e "deserta" - in ebraico "vuota", vocabolo che lo "Sefer ha-Bahir", il "Libro fulgido" della Kabbalah definisce così, interpretando il termine "bohu" come "bo hu", ossia "v'è in esso", il "luogo", lo "spazio" della chòra platonica (e cinematograficamente interpretabile come la pellicola non ancora impressionata) (tutte le citazioni dei testi della Kabbalah sono tratti da "Mistica ebraica", Einaudi 1995, a cura di G. Busi e E. Loewenthal) -, e noi traduciamo, sedotti da altre immagini, "tenebra" ed "abisso", prorompe il "fiat lux", il "sia la luce!" divino. Ci raffiguriamo tutto ciò come un raggio intenso e progressivo, che con il suo stesso apparire marca il primo orizzonte e traccia la prima forma, la linea curva del globo. È esattamente ciò che Wenders fa nell'inizio di "Fino alla fine del mondo", dove alla prima inquadratura, il quadro nero dell'estrema rarefazione, fa succedere l'alba orbitale, ossia l'apparire del sole visto da un punto dell'orbita terrestre. La terra è, quindi, un'ombra scura definita da un alone luminoso che si espande fino a rivelare la superficie terrestre, piena di scoscendimenti, ferite e fratture della crosta che prendono la forma di monti, valli, pianure e mari. Adesso, forse, comprendiamo meglio la chiusura dei primi cinque versetti del "Genesi": "Dio vide che la luce era cosa buona e separò la luce dalle tenebre e chiamò la luce giorno e le tenebre notte". Qui, infatti, non si racconta nulla di più che la "nascita dello sguardo". È solo grazie al vedere, che a questo punto inizia, che la luce è luce e le tenebre sono tenebre, perché è questo vedere che, appunto, li separa nella loro distinzione, ma nella loro distinzione insieme, saldamente, li congiunge.
Anche questa interpretazione, del resto, trova piena conferma nell'ambito dell'esegesi ebraica della Bibbia. Nello "Zohar", il "Libro dello splendore", ovvero l'opera più nota della mistica ebraica, leggiamo "quando il Santo, sia Egli benedetto, volle creare il mondo, "guardò" ("istakkel", "guardare", "fissare con attenzione") la "Torah", parola per parola, e in corrispondenza di essa compì l'arte del mondo; giacché tutte le parole e tutte le azioni di tutti i mondi sono nella "Torah""(II,161a). Nel "Genesi Rabba" (I,1), un "midrash" del "Genesi" redatto, molto probabilmente, agli
inizi del V secolo d. C., è detto "il Santo, Egli sia benedetto, "guardò" (radice ebraica "navat") la Torah e creò l'universo". Sia nel "Libro di Giobbe" (Gb. 28,25-27) che in quello dei "Proverbi" (Pr. 8,22-30) è presente la figura di Dio che "vede" la sua stessa sapienza e "questo vedere" è già, in qualche modo, l'atto creatore. Ma non dobbiamo credere che questa figura dell'"atto del vedere" come "atto creatore" appartenga solo alla tradizione ebraica. Un altro esempio lo possiamo trarre dalla tradizione greca. Il filosofo neoplatonico Proclo di Atene, nel "Commento al Timeo di Platone", ci riporta, infatti, questa spiegazione "teologica" del mito di Dioniso fanciullo che, per gioco, si guarda allo specchio: "dicono che Efesto fece uno specchio per Dioniso e che il dio, guardandovi dentro e contemplando la propria immagine (eìdolon heautou theasamenos), si gettò a creare tutta la pluralità" ("In Plat. Tim." 33b). Per inciso, qui lo specchio è il simbolo che riassume tutti i mezzi di produzione dell'immagine adeguata. Riprendendo il testo di Proclo: "anticamente lo specchio è stato tramandato dai teologi come simbolo dell'adeguatezza (epitedeiòtetos) alla perfezione intuitiva dell'universo" ("In Plat. Tim." 33b). Esso è, quindi, per così dire, l'antenato del "cinema" inteso come depositario della "descrizione fenomenologica del reale", secondo cioè uno dei due poli della dialettica wendersiana di immagine e storia di cui si è detto in precedenza. "Il cinema", scriveva Wenders nel 1976, "è cominciato come una faccenda puramente fenomenologica. Chi ha inventato le prime macchine da presa, quando riprendeva le cose, era interessato solo alla loro rappresentazione. Tutte le altre idee del cinema si sono sviluppate in seguito. Al principio non c'era altro che la pura e semplice rappresentazione della realtà". Ancora una volta, allora, l'"atto di vedere" è il principio, principio che, tuttavia, implica "paradossalmente" la scissione fra guardante e guardato e, quindi, "retrospettivamente" la "storia" della loro dualità e del loro riunirsi nell'unità della visione. L'inizio, che al principio appariva come l'estrema rarefazione dello schermo nero è, ora, la "trasparenza" dello sguardo che accoglie l'estrema concentrazione dell'immagine. La trasparenza, infatti, si manifesta "nella differenza" di "tutti i colori", la trasparenza è l'iride, che altri, più poeticamente, chiamano "arcobaleno" e che in una "Lettera", attribuita a Basilio di Cesarea (un Padre della Chiesa greca vissuto dal 330 ca. al 379 d. C.), servirà ad affermare che "la medesima realtà è insieme unita e distinta", immaginando, "come in enigma", "una nuova e straordinaria distinzione congiunta e congiunzione distinta" ("Epistula XXXVIII",4,14-17). Questa luminosità dell'iride - leggiamo nel cuore dell'"Epistula" - "è insieme continua in se stessa e divisa. Poiché infatti presenta molti colori e molte forme, grazie alla varietà dei colori si mescola con se stessa in modo tale che sfugge al nostro sguardo e, senza farcene accorgere, sottrae ai nostri occhi la confluenza dei vari colori gli uni con gli altri, così che non distinguiamo la zona intermedia fra l'azzurro e il rosso, dove avviene insieme la mescolanza e la separazione di un colore dall'altro, e neppure quella fra il rosso e il purpureo o fra questo e il colore dell'ambra. Poiché infatti i riflessi luminosi di tutti i colori si mostrano tutti insieme, brillano di lontano e ci sottraggono i segni del loro congiungersi gli uni con gli altri, essi sfuggono ad un esame, così ch'è impossibile accertare fino a che punto della zona luminosa c'è il rosso o il verde, e da che punto un colore comincia a non essere più tale quale lo scorgiamo nel suo brillare di lontano"("Epistula XXXVIII",5,9-22). Nella trasparenza iridescente si dà, allora, il "paradosso" della "distinzione congiunta" e della "congiunzione distinta" che è la cifra di ogni relazione originaria dell'immagine - dell'"esser immagine dell'immagine", si potrebbe dire - e, quindi, dell'"apocalisse" di ognivisione, conoscenza o scrittura. Il vedere pone, quindi, la barra in base alla quale l'immagine contiene già la propria storia, sì che il buio delle tenebre, "solo a partire da questo vedere", diviene ora immagine delle tenebre, come la luce accecante di uno schermo bianco diviene, a sua volta, immagine della luce.
L'inizio di "Fino alla fine del mondo" mi pare che ben riassuma questo carattere autonomamente produttore di storia che è proprio dell'immagine, di modo che lo schermo nero della prima inquadratura diviene il "dark side", il lato oscuro della terra, solo "alla luce" dell'immagine successiva, ossia dell'apparire del sole e dell'alone dell'orizzonte, come una luminosa linea curva. Qui, dunque, non c'è affatto contraddizione con la linea che Wenders ha assunto sin dai primi film, i cortometraggi e la splendida "trilogia della strada", vale a dire quella per cui, come egli stesso affermava nell'intervista a "Jeune Cinéma" citata in precedenza (n. 94, aprile 1976), preferisco che "le storie o le azioni si addizionino e formino alla fine una storia", piuttosto che "seguire una storia in cui i personaggi sono vincolati dal dramma". Qui, la costrizione estrinseca della storia lascia il posto alla storia come "descrizione" dell'immagine, ma la purezza dello sguardo che consente all'"inquadratura" di diventare "posizione morale" è data dalla disposizione d'amore che lo muove, secondo la metafora dell'angelo. "La macchina da presa", diceva Wenders in un'intervista successiva all'uscita de "Il cielo sopra Berlino", "è l'occhio dell'angelo invisibile, molto mobile, molto flessibile; ma è anche uno sguardo pieno di affetto per gli uomini" ("L'atto di vedere", cit. p. 168). Propria dell'angelo wendersiano è la disposizione alla testimonianza e alla cura, cura che si fa partecipazione emotiva, finché l'angelo cade è si fa uomo. L'"e-mozione" diviene "mozione", sì che l'angelo abbandona la fissità eterna del suo bianco e nero per i colori in movimento della vita. Questo tragitto, topologicamente dall'alto al basso, è, a ben vedere, anche il tragitto dell'inquadratura di molti film di Wenders, che iniziano (o finiscono) con inquadrature aeree (si pensi, per esempio, a "Falso movimento" (1974) o al finale di "Alice nelle città" (1973)). Inquadratura dall'alto è, ovviamente, anche quella che riproduce lo sguardo angelico ne "Il cielo sopra Berlino", a partire dalla statua alata della Colonna della Vittoria. In un suo intervento sugli angeli wendersiani (in AA. VV., "Wim Wenders, il cinema dello sguardo", Loggia de' Lanzi, Firenze 1995, pp. 35-40), il compianto Sergio Quinzio segnalava l'affinità fra questo "sguardo angelico" e le "Storie del buon Dio" di Rilke, dove si racconta di un essere soprannaturale che "se ne stava contemplando, dall'alto, una grande città. Ma poiché, alla lunga, i suoi occhi si stancarono di tutto quel trambusto [...] risolse di fermare lo sguardo per un po' sopra un unico, altissimo, casamento. Lo riprese, nel tempo stesso, l'antico desiderio di vedere come fosse fatto un uomo vivo. E incominciò pertanto ad affondare lo sguardo dentro le finestre" (TEA 1989, p. 24). Ma, antenato di questo e di altri sguardi aerei è quello che ci viene raccontato nell'inizio dell'"Apocalisse di Giovanni" - libro, fra l'altro, traboccante di figure angeliche con trombe, spade, libri, coppe e sigilli - dove il Veggente di Patmos afferma "guardai, ed ecco una porta dischiusa nel cielo, e quella voce già udita parlarmi con voce di tromba, dicendo: "sali quassù e ti mostrerò le cose che, dopo queste, debbono accadere"" (Ap. 4,1). Lo sguardo apocalittico, lo sguardo angelico, parte da il non-luogo dello sguardo umano - l'alto del divino -, dall'autentica "u-topia" del cielo e si abbassa, teologicamente "si incarna", in un "atto di misericordia", ricuperando, come qualcuno ha osservato, quella coincidenza di "bellezza" e "misericordia" che l'antico pensiero kabbalistico concepiva unite assieme (nell'albero sefirotico della Kabbalah la sesta "sefirah", corrispondente al simbolo del
Sole che illumina tutte le altre "sefirot", può essere sia "Tiferet" (bellezza) che "Rahamin" (misericordia)).
Solo ciò che è amato può essere vero, ma l'uomo ama ciò che è bello, sì che la realtà stessa dev'essere bella. In questa declinazione estetica sembra risolversi, per Wenders, l'"atto morale" dell'inquadratura, in cui verità e bellezza si trovano congiunte nell'amore. In "Fino alla fine del mondo" l'atto d'amore, lo sguardo angelico che si abbassa e cade, raggiunge la massima apertura perché, nell'iperbole assoluta della veduta dall'alto con cui il film inizia, ora, ad essere inquadrato, è il mondo intero. Se il tutto diviene oggetto d'amore, allora tutto è "molto buono", lo sguardo del "Genesi", dove si dice la bontà di ogni cosa vista e creata, diviene lo sguardo dell'"Apocalisse", in cui si dice "non vi sarà più nulla di maledetto"(Ap. 22,3). Ecco l'anello elementare di ogni storia che, in quanto tale, non è estrinseco a nessuna immagine e che Nicholas Ray ci affida nel testamento di "Lampi sull'acqua" (1979-1980), più o meno con queste parole: "verso la fine di un film è importante riscrivere l'inizio, così verso la fine della vita è necessario rintracciare il percorso per riconquistare la stima di se stessi". Solo l'amore e la cura redimono le storie dal loro essere, come diceva il Fritz Munro ne "Lo stato delle cose", "todesboten", "portatrici di morte". L'Apocalisse fa questo su macroscala, perché l'oggetto dell'amore è, in essa, l'immane inventario di morte dell'intera "storia universale".
Apocalisse. Storia e immagine Detto questo, la storia di "Fino alla fine del mondo", non è un meccanismo narrativo di genere, produttore di menzogna e di allontanamento dalla verità dell'immagine, perché la storia di "Fino alla fine del mondo" non è una storia qualsiasi, ma, nell'intenzione di Wenders, è la" storia di tutte le storie", il modello della "storia per eccellenza", quello, per intenderci, che congiunge l'inizio con la fine in una totalità perfetta e compiuta e, proprio in quanto compiuta, assolutamente redenta. Questo modello è fornito, all'intera letteratura occidentale, dalla redazione finale del testo biblico e, in particolare, dalla geniale funzione di raccordo, chiusura e, insieme, apertura sulla storia del mondo che, in esso, è svolta dall'"Apocalisse di Giovanni".
L'"Apocalisse" è il libro che chiude la Scrittura e, chiudendola, ne ricapitola l'intero arco del significato, assieme al significato complessivo di qualsiasi libro a venire. Ciò accade perché l'"Apocalisse" è sia un "modello del tempo" che un "modello letterario". "L'"Apocalisse" - ha scritto il filosofo francese Paul Ricoeur nel secondo dei suoi tre volumi su "Tempo e racconto" - ha potuto rappresentare, al tempo stesso, sia la fine del mondo che la fine del libro. Ma la congruenza tra mondo e libro va ancora oltre: il principio del libro concerne il Principio e la fine del libro concerne la Fine; in tal senso la Bibbia è il grandioso intrigo della storia del mondo, e "ogni intrigo letterario è una sorta di miniatura che congiunge" l'"Apocalisse" alla "Genesi""(Jaca Book 1987, p. 45). Il modello apocalittico, come ha ben saputo mostrare il grande critico anglosassone Frank Kermode, trasmette alla storia della letteratura il "senso del punto finale"(sense of an Ending)(Rizzoli 1972), ossia l'idea di una compiutezza intrinseca all'universo della scrittura e della rappresentazione. Questa "perfezione" implica la possibilità che un'opera si presenti come specchio della totalità, come autentica "opera-mondo". Il "punto finale" è, allora, il Giudizio nella scrittura, quel punto di vista totalizzante che abolisce il "valzer degli addii e dei rinvii" della temporalità, per riconvertire il tempo del mondo e il tempo della scrittura
nella prospettiva dell'eterno epifanico, nella figura del "vieni-e-vedi" apocalittico o, per l'appunto, nel vedere fenomenologico dell'"immagine-movimento" di Wenders, che ha in sé, nel suo stesso apparire, la propria storia. Ma l'apocalisse wendersiana - anticipiamo -, come tutte le apocalissi moderne, è un'apocalisse senza Giudizio, cioè un'apocalisse che non si apre su alcuna dimensione ulteriore, che non dipende da un "aldilà" della storia. "Si annuncia qui - ammetteva il filosofo francese Jacques Derrida in un suo scritto sul tono apocalittico della modernità -, promessa o minaccia, un'apocalisse senza apocalisse, un'apocalisse senza visione, senza verità,
senza rivelazione, "degli invii" (perché il "vieni" è plurale in sé), degli indirizzi senza messaggio e senza destinazione, senza destinatore o destinatario decidibile, senza giudizio finale, senz'altra escatologia che il tono del "Vieni" stesso, la sua stessa differenza, un'apocalisse al di là del bene e del male" (Jaca Book 1984, p. 142). Pensiamo, per esempio, all'inizio de "Lo stato delle cose", a quel clima di attesa che, costruito sul paradigma di una catastrofe immaginaria - la catastrofe nucleare che il film di Fritz Munro "I sopravvissuti" sta rappresentando -, si esercita, in realtà, nella catastrofe reale della sospensione dei destini degli attori e del cast del film, abbandonati in un albergo dismesso sulla spiaggia di Sintra. Commenta il regista Fritz, alter ego di Wenders, "stanno succedendo molte cose simultaneamente. Tutto questo è un film. Sono tante storie. Storie che esistono solo nelle storie, mentre la vita scorre, tanto per citare me stesso, ****"Nel corso del tempo", senza bisogno di creare storie o di manifestarsi in teorie". Il passaggio fra le "storie che esistono solo nelle storie" e la vita che "scorre", "nel corso del tempo", "senza bisogno di creare storie", è il passaggio fra la struttura tradizionale dell'apocalisse che, come diceva Kermode, è il modello di ogni intreccio che congiunge un inizio con una fine, rendendoli entrambi "figure dell'inizio e della fine", e la struttura moderna dell'apocalisse, che si esaurisce nel concetto di "momento critico". Se nella struttura tradizionale, il vettore narrativo, in base al paradigma dell'inizio e della fine, assegnava differenze qualitative ai "momenti" della storia, nella struttura moderna dell'apocalittica "ogni" momento è "momento della crisi", epifania ed apocalisse congiunte insieme. Dobbiamo ricordarci dell'ultima delle "Tesi di filosofia della storia" di Walter Benjamin, la diciottesima che, a proposito del "tempo messianico", cioè il tempo dell'apocalisse, affermava "ogni secondo, in esso, era la piccola porta da cui poteva entrare il Messia" (Einaudi 1981, p. 86). La modernità, allora, sostituisce il tempo della Fine con il tempo della Crisi. Eppure, chi interpreta la Crisi come il contrario della Fine, quindi come una transizione "senza fine", vede nella Crisi la distruzione della Fine. Anche quando si dice, come fa Ricoeur, che "la Crisi non segna l'assenza di qualsiasi fine, bensì la conversione della fine imminente in fine immanente" ("Tempo e racconto", cit. vol. II, p. 112), ciò è esatto solo se si rimane all'interno delle vecchie categorie metafisiche della trascendenza e dell'immanenza. Ma l'imminenza dell'apocalittico, il "vieni-e-vedi" dell'"Apocalisse", esula dalle categorie della temporalità che appartengono alla tradizione del pensiero occidentale. Il "senso del punto finale" dell'"Apocalisse" non è il senso di una chiusura che rinvia, pur sempre, all'isolamento del punto, al "senso isolato" della parte, così come l'immagine tradizionale del Giudizio "divide" ed "isola" i Sommersi dai Salvati. Il "senso del punto finale" è quello di un'apertura che rinvia al suo stesso aprire, ovvero il senso di un "e" e di un "sì", non il senso di un "no". Ecco allora che per pensare il significato autentico della Crisi è necessario abbandonare l'esattezza della sua mera opposizione con la Fine. La parola Crisi deriva dal termine greco "krìsis", i cui significati si possono riassumere attorno a tre plessi principali: (1.) "krìsis" come "separazione" ; (2.) "krìsis" come "giudizio"; (3.) "krìsis" come "evento". "Krìsis" come "giudizio" è, quindi, l'identificazione della Crisi con la Fine, ma il suo senso - è facile intuirlo - diviene profondamente diverso qualora si intenda questa "krìsis" come "separazione" o come "evento". Di conseguenza, per cogliere il significato autentico della Crisi, bisogna abbandonare l'interpretazione tradizionale della "krìsis" come "separazione" - come "scisma" dai paradigmi della metafisica, come "secessione rivoluzionaria" dalla "legge" e dall'"ordine" della Tradizione -, pensando radicalmente la "krìsis" come "evento". La modernità ha fatto suo questo compito e, in questo modo, ha pensato la Crisi come "evento perfetto", ossia come "apocalisse". Ma cosa significa, propriamente, la parola "apocalisse"? Il verbo greco "apokalyptein", da cui deriva il sostantivo "apokàlypsis" significa, in senso materiale e figurato, "scoprire", "togliere il velo", "rivelare qualcosa di nascosto". Il termine è, tuttavia, piuttosto raro nel greco classico, mentre assume un senso religiosamente rilevante nella traduzione greca dell'Antico Testamento, la cosiddetta "Septuaginta". Come notava André Chouraqui nel suo breve "Liminaire pour l'Apocalypse", il greco "apokàlypsis" è la versione dell'ebraico "galah", che ricorre più di cento volte nella Bibbia. In base a queste ricorrenze, Chouraqui propone di tradurre "galah/apokàlysis" con "contemplazione": "l'Apocalisse", egli scrive, "è essenzialmente una contemplazione (hazon) o un'ispirazione (neboua) per la vista, per lo scoprimento di YHWH e, quindi, di Yeshoua, "il Messia"". Non possiamo fare a meno di ricordare una lontana intervista di "Filmkritik" del 1972 in cui Wenders dichiarava che "è maggiormente il fatto di contemplare che mi ha affascinato facendo dei film, che il fatto di trasformare, di muovere o di mettere in scena". Sviluppando il suggerimento di Chouraqui di tradurre "apocalisse" con "contemplazione", Jacques Derrida concludeva, nel libro già citato in precedenza, che l'"Apocalisse" è la rappresentazione paradossale, compiuta mediante dei segni, della fine dell'orizzonte segnico. "Di questo volume", egli afferma, "scritto, ve ne ricordate, "dentro e fuori", è detto tutto alla fine: non sigillarlo "non sigillare le parole dell'ispirazione di questo volume" (Ap. 22,10). Non sigillare, cioè non chiudere, ma anche "non segnare"". Questa apertura, cui l'assenza di sigilli del libro stesso dell'"Apocalisse" allude, è la riproduzione figurale del significato autentico del termine "apocalisse", il quale è, appunto, l'"apparire dell'apparire", l'apertura dello sguardo. La parola "apocalisse" si scopre, a questo punto, nella sua più prossima vicinanza con la parola greca che nomina la "verità", ossia "alétheia". "Lasciar-essere, nel senso di lasciar-essere l'ente come quell'ente che è, - scriveva il filosofo tedesco Martin Heidegger nel suo saggio "Sull'essenza della verità" (1930) - significa lasciarci coinvolgere da ciò che è aperto nella sua apertura, entro cui ogni ente sta, portandola per così dire con sé. Questo "aperto" è stato concepito dal pensiero occidentale, al suo inizio, come "tà alethéa", lo svelato. Se traduciamo "alétheia", invece che con "verità", con "svelatezza", allora questa traduzione non è solamente "più letterale", ma contiene anche l'indicazione che induce a pensare e a ripensare il concetto abituale di verità, come conformità dell'asserzione, in quell'orizzonte non ancora capito della svelatezza e dello svelamento dell'ente" (Adelphi 1987, p. 144). La "verità" come "svelamento" è la "verità" come "apocalisse", è l'apertura originaria della visione che manifesta l'autenticità dell'immagine, perché, apocalitticamente, ogni immagine "è la verità stessa". Questo svelamento, questa verità automanifestativa delle cose, che nei film di Wenders trova riscontro nell'esaltazione del cosiddetto "sguardo fenomenologico" - fenomenologico dal greco "phaìnesthai", ossia "apparire" - può essere tuttavia equivocato. È ciò che accade quando si traduce "apocalisse" con il latino "revelatio", "rivelazione". Rivelare è, infatti, una metafora costitutivamente infida, che gioca sul doppio registro del "togliere il velo" e del "rimettere il velo", giungendo a formulare i termini di un autentico "paradosso". Ciò che viene rivelato, allora, non è altro che la consistenza stessa del "velo". Nell'epilogo di "Al di là delle nuvole" di Michelangelo Antonioni - firmato, come il prologo e l'intermezzo, dallo stesso Wenders -, il personaggio narrante, il regista interpretato da John Malkovich, appare, in un inquadratura che lo ritrae dietro il vetro di una finestra, mentre fuori è notte e piove. È un'inquadratura cara a Wenders. Si pensi, per esempio, all'inizio di "Falso movimento", quando la ripresa aerea di Glückstadt scende, fra le case, nella piazza cittadina, inquadrando un edificio nel quale si scorge un uomo che guarda da dietro una finestra e poi avviene il famoso passaggio in soggettiva, ossia l'assunzione del punto di vista di Wilhelm, da dietro la finestra. "Nelle mie prime pellicole", ha dichiarato Wenders in un'intervista del 1991, "non succedeva mai niente, non c'erano né dialoghi, né azione, neppure personaggi. Era come stare a guardare dalla finestra. Di tanto in tanto apparivano delle figure che si muovevano sullo sfondo (nei totali, mai nei primi piani), a volte parlavano, anche se non era essenziale. In realtà, allora mi importava soprattutto l'immagine"("L'atto di vedere", cit. pp. 44-45).
Il gioco della finestra evoca, infatti, la pura trasparenza dell'immagine, quella "distinzione congiunta" o "congiunzione distinta" di cui si parlava in precedenza, sulla scorta dell'esegesi della "Lettera" di Basilio di Cesarea. Sulla trasparenza del vetro giochi di riflessi permettono, del resto, la sovrapposizione dei volti e, insieme, con un semplice giro di filtro polarizzato, quella dissolvenza del riflesso che ci fa vedere ciò che sta al di là della lastra riflettente. Si tratta di un espediente tecnico della scrittura cinematografica a cui Wenders ricorre spesso. Nello stesso "Falso movimento", non si può dimenticare quella sequenza, alla stazione di Amburgo, in cui Wilhelm vede Therese, che ancora non conosce, dal finestrino del suo treno, all'interno di un altro treno che corre parallelo al suo. Lì accadeva, allora, che il volto di Wilhelm si riflettesse sul finestrino "sopra" la visione di Therese, anticipando "in immagine" l'incontro e la conoscenza fra i due. In "Alice nelle città" v'è l'episodio in cui la piccola Alice scatta una polaroid a Felix, "per farti vedere come sei", ella dice. La successiva inquadratura della foto mostra la polaroid del volto di Felix e insieme, riflesso sulla superficie lucida della foto, il volto di Alice. Anche in "Fino alla fine del mondo", per concludere questo breve inventario, possiamo segnalare l'inquadratura in cui si vede il volto di Eugene riflesso sullo schermo del videofax con l'immagine di Claire che gli parla e gli invia altre immagini dalla Cina. Ma torniamo all'epilogo di "Al di là delle nuvole". Mentre Malkovich guarda la pioggia che riga la lastra della finestra, una voce fuori campo riproduce il pensiero del regista che dice "noi sappiamo che sotto l'immagine rivelata ce n'è un'altra più fedele alla realtà, e sotto quest'altra, un'altra ancora, e di nuovo un'altra sotto quest'ultima, fino alla vera immagine di quella realtà, assoluta, misteriosa, che nessuno vedrà mai".
Qui compare il limite costitutivo di quell'interpretazione che legge l'"apocalisse" come la dialettica fra il nascondimento del "velo" e l'apertura della "visione". L'immagine, per siffatta interpretazione, non è la "verità", ma un semplice "rinvio", presupponendo, secondo uno schema di lontana ascendenza platonica, oltre l'"immagine visibile", un'"immagine invisibile e assoluta", perfettamente adeguata al reale. È questa la tentazione ricorrente del cinema di Wenders. In "Alice nelle città",
guardando le polaroid che continuamente scatta, Felix osserva che esse "non riproducono mai ciò che si vede" e che esse, quindi, non "provano" nulla. C'è un detto del "Vangelo apocrifo di Filippo", uno scritto gnostico della seconda metà del II secolo d. C., che recita: "la verità non è venuta nuda in questo mondo, ma in simboli e immagini. Non la si può afferrare in altro modo"(67,10)("Vangeli gnostici", a cura di L. Moraldi, Adelphi 1984, p. 61). Questo antico detto, elaborato in epoca e ambiente apocalittico, ci dice la "necessità dell'immagine". Nel mondo, la verità si può afferrare solo "in simboli e immagini". Le immagini sono il modo in cui la verità si manifesta. Ma queste immagini, in quanto "immagini di verità", in quanto "immagini apocalittiche", contengono, in se stesse, il processo dello svelamento. C'è, nell'immagine, una dinamica intrinseca che porta sempre "oltre se stesse", pur rimanendo, anche questa, all'interno dell'immagine. Spesso, la cultura occidentale ha interpretato questa dinamica secondo la retorica della "nuda verità", ossia ritenendo i simboli e le immagini quali "mezzi" per una verità posta comunque "al di là" delle immagini e dei simboli. Ma questa interpretazione si rivela, a ben vedere, assolutamente ingenua. Oltre l'immagine c'è sempre, come spiegava il meditabondo regista di "Al di là delle nuvole", un'altra immagine. Anche la spoliazione assoluta dell'immagine, quello sguardo fenomenologico che Wenders trae dalla lezione della filosofia husserliana, dalla paradigmatica trasparenza dei dipinti di Vermeer - ma anche del romantico Caspar David Friedrich e dell'ipperealista americano Edward Hopper - e, infine, dal modello cinematografico dei film di Yasujiro Ozu, a cui sarà dedicato "Tokyo-ga" (1985), appartiene, comunque, alla retorica dell'immagine. Ascesi. La sottrazione del vedere e l'esercizio dell'amore Allora, la vera "apocalisse delle immagini" non deve intendersi come un impossibile fuga "oltre le immagini", ma piuttosto come una presa di coscienza del loro statuto veritativo, ossia di ciò che fa essere immagine l'immagine. A mio avviso, questa stessa "presa di coscienza di ciò che fa essere immagine l'immagine" è quanto, per Wenders, più si avvicina alla definizione strutturale dell'essenza del cinema.
"L'ottica fenomenologica", ha scritto Filippo D'Angelo nel "Castoro-Cinema" dedicato a Wenders, "che non frappone alcunché fra l'occhio e l'oggetto della visione, puntata sulla realtà allo scopo di restituire "iperrealisticamente" la "scandalosa" "fisicità" e l'"assurda" "evidenza" delle sue componenti, tende a recuperare una sorta di "primo sguardo", una visione innocente e straniata da contrapporre ai freddi stereotipi della percezione meccanizzata. Negare l'esistenza di significati sottesi all'immagine significa far balzare in primo piano l'evidenza del reale, renderne riconoscibili i lineamenti" (Il Castoro 1995, p. 19). L'ottica fenomenologica è, in questo senso, la separazione dell'immagine dalla sua retorica: una sorta di catarsi critica che riconduce, come abbiamo visto, allo sguardo u-topico dell'angelo e del bambino, là dove, come diceva Trakl in una sua poesia, "l'anima non è più che uno sguardo celeste"(Ein blazer Augenblick ist nur mehr Seele)("Infanzia", v. 8).
In un'intervista del 1976 Wenders affermava che, "nelle incisioni, i paesaggi sono ridotti a pure forme, come se stessi strizzando gli occhi e vedessi solo le forme". Questo singolare "atto di vedere" "per sottrazione" viene sottolineato dall'affermazione di Wilhelm in "Falso movimento" che dichiara "occorre chiudere gli occhi per vedere un paesaggio". In "Alice nelle città" la stessa piccola Alice, di fronte alla polaroid scattata da Felix, dal finestrino dell'aereo, che riproduce le nuvole del cielo esclama, "è bella questa foto... così vuota!". Anche qui il cielo, il vuoto dell'immagine, coincide con l'"a priori" del fenomeno, ossia con il non-luogo dello sguardo dell'angelo. In "Fino alla fine del mondo", film che abbiamo scelto come documento di partenza e filo conduttore di queste nostre considerazioni, il tema faustiano dello scienziato-maledetto, Heinrich Farber che, letteralmente, "vuole restituire la vista ai ciechi", va inteso proprio come esemplificazione "a contrariis" dell'ascetismo dell'immagine. L'ipertrofia dell'immagine che, in tutto il film in questione, viene testimoniata dalla presenza ossessiva di schermi e di riproduzioni, si contrappone alla semplicità visiva del deserto australiano - com'è noto dal tempo degli anacoreti della Tebaide, il deserto è il luogo d'elezione degli asceti e Wenders vi aveva già alluso nella seconda parte di "Paris, Texas" (1984) - e al desiderio di Edith Farber, moglie dello scienziato faustiano e madre di Sam, il cacciatore di immagini, a cui importa più la "presenza" del figlio, il sentire dei sentimenti, che il "poter vedere" la sua immagine, ossia il sentire della percezione. Come dice la voce narrante, mentre Sam, presso il saggio giapponese Mr. Mori - interpretato da Ryu Chishu, l'attore preferito di Ozu -, viene guarito dalla malattia agli occhi prodotta dallo sforzo nell'impiego della macchina che registra il fenomeno biochimico della vista, "l'occhio non vede allo stesso modo del cuore".
Questa stessa "vista del cuore", propria degli aborigeni australiani che collaborano con Farber, fa comprendere perché la fredda visione tecnologica riprodotta dallo scienziato faustiano (cieco nel cuore perché non vede l'amore del figlio) spinga Edith, la madre, a lasciarsi morire. La visione rende tristi, toglie la voglia di vivere, "chi aveva occhi per vedere", aggiunge la voce fuori campo (e questi occhi sono, ovviamente, gli "occhi del cuore"), "se ne rendeva conto".
Ecco allora che nella scena patetica della morte di Edith questa contrapposizione fra "visione" e "vita" appare in tutta la sua evidenza. A Farber che la richiama alla vita mediante le seduzioni della "visione del mondo" Edith risponde, infatti, "il mondo non è affatto vivo" e prosegue affermando che "la vita finisce ma io "finalmente" ho visto". Vorrei sottolineare il significato strettamente etimologico di questo "finalmente" - "at last", "da ultimo", "alla fine" -, in cui è chiaro il senso catastrofico di questo vedere "alla fine della vita". Di conseguenza, è come se Edith dicesse che "è perché ho visto di quel vedere che uccide la vita che la vita stessa finisce". Ecco l'altra traduzione di "apocalisse", la traduzione che legge l'"apocalisse" come l'accadere della "catastrofe" e della "morte", solo che qui ad essere "portatrici di morte", "todesboten" come diceva Fritz Munro in "Lo stato delle cose"; non sono soltanto le "storie", ma anche un certo tipo di immagini. "Come le parole possono uccidere", dichiarava Wenders, in un'intervista successiva a l'uscita di "Fino alla fine del mondo", "credo che anche le immagini, e non certo da oggi, possano farlo"("L'atto di vedere", cit. p. 51). In "Fino alla fine del mondo" si allude al superamento di questa "iconodulia", ossia schiavitù dell'immagine, mediante il ricorso al canto e alla parola, ma anche, ricollegandoci a quanto dicevamo prima, alla cura amorosa dell'immagine stessa, sì che all'immagine portatrice di morte, all'immagine micidiale della tecnica, possa infine contrapporsi un'immagine più semplice, portatrice di vita e d'amore. Abbiamo già ricordato, all'inizio, come Claire venga disintossicata dalla droga delle immagini oniriche mediante la lettura del romanzo di Eugene, "Una danza intorno al pianeta", romanzo che è la stessa storia narrata dal film, ma che soprattutto è la testimonianza dell'amore di suo marito per lei. Nella versione proiettata nelle sale poco spazio è dato, invece, alla descrizione della guarigione di Sam Farber (William Hurt). "La guarigione di Sam", raccontava Wenders nella stessa intervista appena citata, "è stata un po' accorciata nel film. In realtà, lui guariva immergendosi nel paesaggio ed esercitandosi nel disegno. Purtroppo le scene sono state tagliate. Sam dipingeva rocce e fili d'erba e, come succede a Eugene con le parole, ritrovava la semplicità di un'arte originaria, slegata dalla tecnica.
Restava seduto a dipingere acquarelli, e ritrovava così uno stato di benessere. La nostra storia prevedeva, quindi, una guarigione legata alle immagini. L'atto di magia, di dormire tra i due vecchi, era soltanto una parte del processo" ("L'atto di vedere", cit. p. 53).
Il tratto comune di queste guarigioni, al di là della critica alla tecnica che, come abbiamo detto in precedenza, non ci pare essenziale per la loro interpretazione, è che l'atto di rappresentare - nella pittura, così come nella scrittura - è ricondotto ad un semplice atto d'amore. Solo l'amore, si diceva, rende l'immagine vera e necessaria. Viene in mente quanto si augurava il giovane Wilhelm, in "Falso movimento", quando pensava allo scrivere come ad un atto naturale e spontaneo, quale il mangiare o il camminare: "vorrei poter scrivere qualcosa", egli diceva, "che sia assolutamente necessario, come una casa o un bicchiere di vino, la sera". Questa semplicità la troviamo nella "brocca" che Edith, la cieca a cui la tecnica del dottor Farber ridà la vista, scorge sul tavolo accanto alla figlia e alla nipote, famigliari che vede, entrambi, per la prima volta, più con il cuore, tuttavia, che mediante lo stesso espediente tecnico. D'altra parte la "Brocca" non pare innocentemente posta su quel tavolo da Wenders, dal momento che almeno due dei maggiori pensatori del Novecento, Ernst Bloch e Martin Heidegger, hanno usato l'esempio determinato della brocca per risalire al momento elementare dell'"esperienza autentica" (Bloch, in una splendida sezione di "Spirito dell'utopia", del 1918, Heidegger, nel saggio su "La cosa" (Das Ding), del 1950). La brocca, come il bicchiere di vino e la casa del Wilhelm di "Falso movimento", rappresenta un emblema della familiarità e della quotidianità dell'immagine, della capacità, evocativa di storia, che ogni cosa racchiude in corrispondenza con uno sguardo che sappia interrogarla ed ascoltarla. Scrive Wenders, subito dopo la lavorazione di "Fino alla fine del mondo": "Nel corso degli ultimi anni ho lavorato in Australia e ho avuto la fortuna di conoscere gli aborigeni. E mi ha sorpreso che per loro ogni singola conformazione del paesaggio incarni una figura del loro passato mitico. Ogni collina, ogni roccia porta in sé una storia intimamente legata alla loro epoca mitica. E mi è tornato in mente come anch'io, da bambino, nutrissi simili convinzioni. Un albero non era semplicemente un albero, ma anche uno spettro; e i profili delle case avevano tratti umani. C'erano case serie, case truci e case amichevoli. Un fiume poteva mettere paura, ma anche dare pace. Le strade avevano una personalità; alcune le evitavo, in altre mi sentivo al sicuro. Le montagne e i profili dell'orizzonte erano i riflessi di certe nostalgie e desideri, e ricordo ancora la mia paura di fronte a una grande roccia, in un bosco, che chiamavamo la "donna seduta". I paesaggi e le immagini delle città evocano nei bambini emozioni, associazioni, idee, storie. Diventando adulti tendiamo a dimenticarle, perché impariamo a difenderci dal "nostro sapere infantile", che "si affidava molto più ai nostri occhi: ciò che vedevamo determinava la coscienza di noi stessi e dei nostri luoghi"" ("L'atto di vedere", cit. p. 89). Ancora una volta, quindi, l'approfondimento fenomenologico delle immagini e l'appello allo sguardo infantile come "sguardo del cinema" - elementi, questi, presenti con forza nei primi film di Wenders -, non vengono rinnegati, bensì sussunti nell'ambito della nuova fiducia nella storia e nella narrazione che compare nella seconda fase della parabola creativa del regista tedesco. Adesso, tuttavia, l'immagine si è liberata dall'astratta oggettività dello sguardo fenomenologico ed è divenuta responsabile del suo stesso sguardo.
In "Alice nelle città" Felix usava la sua polaroid come una pistola, per sparare le immagini sugli oggetti. Analogamente, più di vent'anni dopo, in "Lisbon Story", il regista Friedrich afferma che "puntare una cinepresa è come puntare un fucile". Parlando delle sue foto e sul fatto che la morte ne fosse il soggetto ricorrente, Wenders ha affermato che "io credo che l'amore sia qualcosa che non si può fotografare... Per quanto riguarda la morte, la fotografia ne evoca immediatamente l'idea: perché ha a che fare col tempo, con la fine del tempo, con l'eternità". Secondo l'interpretazione di Cesare De Seta qui Wenders formulerebbe "un sillogismo che rivela la trama meno evidente della sua poetica": "il fotogramma è eternità, dunque morte, mentre il cinema, la sequenza dei fotogrammi è lo scorrere del tempo, dunque la vita, cioè amore"(AA. VV., "Wim Wenders, il cinema dello sguardo", cit. p. 45). Non credo di poter concordare con quanto dice De Seta, almeno finché non si sappia distinguere fra il fotogramma del cinema che, come ha spiegato Gilles Deleuze ("L'immagine-movimento", cit. pp. 16-24), è sempre "sezione immobile" del movimento, e la fotografia tradizionale, in quanto "posa eterna". "Il cinema", scrive Deleuze, "è il sistema che riproduce il movimento in funzione del "momento qualsiasi"" ("L'immagine-movimento", cit. p. 17). Al contrario, la fotografia d'arte parte dalla fissazione di un "istante privilegiato", la cosiddetta "posa". Qui Deleuze denuncia l'appartenenza della fotografia ad un orizzonte estetico ancora condizionato dalla metafisica, dove il movimento viene ricomposto a partire da elementi formali trascendenti ("le pose", appunto), mentre il cinema, in conformità con l'antimetafisica della scienza moderna, ricostruirebbe il movimento a partire da elementi materiali immanenti ("le sezioni"). Allora, le pose sarebbero l'"analogon" esemplaristico dell'idea platonica, mentre le sezioni avrebbero una caratteristica del tutto accidentale e quantitativa (assolutamente casuale, come le 18 immagini/secondo del cinema delle origini, corrette, in seguito, nelle 24 immagni/secondo del cinema attuale).
Il ricorso strumentale alla polaroid - tema ricorrente in tutti i film di Wenders - può essere visto, quindi, non solo come la scelta per un mezzo riproduttivo che produce solo originali (la polaroid, com'è noto, non ha negativo), ma anche come il tentativo di sfuggire alla fissità costitutiva della "posa", essa sì "mortifera", come interpreta De Seta. Tuttavia, è anche ben nota, sin da "Alice nelle città", la critica che Wenders svolge nei confronti delle stesse riproduzioni-polaroid, quelle che una volta si chiamavano "istantanee" che, diceva Felix, "non riproducono mai ciò che si vede". Del resto esse non lo riproducono, perché "isolano" l'"oggetto dell'immagine" dal "chi", ossia dal "soggetto della visione". In questo senso l'"immagine-movimento" del cinema non allude alla vita solo per la sua peculiare prerogativa tecnica (la sezione invece della posa), ma perché in essa il movimento della camera riproduce il flusso vitale in simmetria con il movimento delle cose che stanno all'interno dell'inquadratura, evocando la relazione di un movimento soggettivo-oggettivo. Tipiche del cinema di Wenders sono, infatti, le inquadrature in movimento di cose in movimento, che bene si esprimono, del resto, nel grande tema narrativo del "viaggio" e nella preferenza estetica per la rappresentazione dei "mezzi di trasporto" di qualsiasi genere (paradigmatica, in proposito, la celebre sequenza de "Lo stato delle cose", con Fritz in auto, presso l'aereoporto di Los Angeles, mentre i velivoli atterrano e decollano). Ecco allora che l'antitesi fra "foto/istante/morte" e "cinema/durata/vita" può essere letta, in realtà, come antitesi fra "isolamento" e "relazione".
La foto, diceva Wenders, "ha a che fare col tempo, con la fine del tempo, con l'eternità", in quanto si isola dalle altre immagini ma, soprattutto, perché simula un'autosufficienza emotiva che aspira ad elidere la reciprocità dello sguardo. L'alternativa si sposta, dunque, fra chi crede che ""l'immagine sia tutto"" (per esempio Felix nella prima parte di "Alice nelle città", ma anche il dottor Farber di fronte alle immagini dei sogni riprodotte dal computer), e chi crede, invece, che ""l'immagine non sia tutto"", (la piccola Alice e Claire di fronte alle stesse immagini oniriche di Farber). Chi crede che l'immagine sia tutto si perde narcisisticamente nell'immagine, vi si rispecchia, come i drogati di sogni del terzo finale di "Fino alla fine del mondo". Il fautore dell'immagine totalizzante e totalitaria non traduce l'immagine in un atto d'amore, come invece fa Sam Farber, che gira il mondo per raccogliere immagini "per amore della madre". Piuttosto chi si specchia nell'immagine, e non vede altro che l'immagine, ha a che fare con la "fine del tempo", con l'"eterno passato" quale ci è dato nella fissità mortale della posa fotografica. L'immagine totalizzante e totalitaria è, infatti, portatrice di morte, come le storie, nel celebre dialogo rivelativo fra Fritz e Gordon, all'interno del camper, in conclusione de "Lo stato delle cose".
Lì Fritz Munro dirà che "come c'è il soggetto", cioè la storia, "la vita se ne va", sicché "tutto viene compresso nelle immagini". Allora "tutti i soggetti raccontano la morte" e, infine, - si tratta di una delle ultime battute del film (l'ultima sarà la messa in guardia di Gordon, "occhi aperti") - Fritz sentenzierà: "la morte... non c'è nient'altro. È la più grande storia del mondo, seconda soltanto alle storie d'amore". La morte può essere la più grande storia del mondo solo se non c'è l'amore, solo se si riesce a mettere l'amore tra parentesi. Ecco che il finale de "Lo stato delle cose" annuncia, in qualche modo, il tema di "Fino alla fine del mondo" che, come si evince dai primissimi appunti sul film tratti dai quaderni di Wenders del maggio 1984, si propone come "un film d'amore. Un film sull'amore. Benché nessuno sappia cosa sia l'amore. Quindi un film per scoprire. E poiché i film su un argomento sono pensabili solo in quanto si trasformano in ciò di cui trattano questo film "sull'amore" diventerà anche un film "nel", "con", "di", "per", "a favore" e "contro l'amore""("L'atto di vedere", cit., p. 11). Proseguendo in queste annotazioni, Wenders definiva l'amore il "miglior soggetto" per il cinema "da quando esiste". Tuttavia, aggiungeva, ai giorni nostri, bisogna constatare che "il cinema ha fallito sul suo soggetto privilegiato". Ci dobbiamo, quindi, interrogare se, forse, l'amore non sia "fuori luogo" proprio "nel mondo delle immagini". Ecco la sfida da superare: "so che per me è venuto il momento", scrive Wenders, "adesso o mai più, di raccontare la storia a cui finora mi sono sottratto: una storia d'amore. Assolutamente. Una storia in cui l'amore sia possibile, funzioni, un amore vero, che vinca anche nel finale. A ogni costo. Contro ogni sorta di falsa coscienza [...] Col coraggio della disperazione, e la gioia di una scelta audace. Nonostante tutto e tutti, e se necessario "Fino alla fine del mondo""("L'atto di vedere", cit., p. 12).
"Fino alla fine del mondo" è, allora, il tentativo di superare l'"impasse" della morte, prodotta vuoi dalle storie e vuoi dalle immagini - il cinema come "la morte al lavoro", secondo la nota espressione di Cocteau -, mediante una storia d'amore raccontata nel mondo delle immagini. Sin dai primi abbozzi della sceneggiatura, buttati giù dallo stesso Wenders e da Solveig Dommartin, torna ricorrentemente una frase-guida tratta dai "Frammenti di un discorso amoroso" di Roland Barthes. "Immagine", scrive Barthes, "Nella sfera amorosa, le ferite più dolorose sono causate più da ciò che si vede che non da ciò che si sa" (Einaudi 1979, p. 105). Il vedere, per l'amore, è spesso una ferita. Nel film questo tema viene ripetuto più volte. In modo più deciso, come abbiamo visto, nella sofferenza di Edith Farber, che muore perché "finalmente ha visto". La morte di Edith rappresenta il secondo finale del film che, nella sua scrittura devastata dal montaggio (Wenders ne ha apprestato una versione più accettabile, dal punto di vista dell'autore, che dura più del doppio dell'attuale, cioè quasi sei ore), sembra avere almeno tre finali. Un primo finale coincide con l'abbattimento del satellite nucleare indiano e con l'"effetto Nell", ossia con il blocco di tutti i dispositivi elettromagnetici (orologi, radio, TV, computer, motori ad avviamento elettrico, ecc.). È risolto da Wenders con la splendida soluzione dell'arresto del motore dell'aereo di Sam e Claire in volo, mentre il paesaggio del deserto australiano riproduce le fratture della crosta terrestre già viste nell'immagine dell'inizio. "È la fine del mondo", ripetono pacatamente i protagonisti. L'abilita di Wenders - mi pare sia doveroso riconoscergliela - fa sì che la "fine del mondo" coincida con l'istante, con l'arresto epifanico del mondo. Nei "Vangeli apocrifi dell'infanzia" e, in particolare, nell'"Apocrifo di Giuseppe del Protovangelo di Giacomo", si dà questa descrizione dell'attimo della nascita di Gesù: "io Giuseppe stavo camminando, ed ecco che non camminavo più. Guardai per aria e vidi che l'aria stava come attonita. Guardai alla volta del cielo e la vidi immobile, e gli uccelli del cielo erano fermi. Guardai a terra e vidi posata lì una scodella e dei contadini sdraiati intorno, con le mani nella scodella, e quelli che stavano masticando, non masticavano più, e quelli che stavano prendendo del cibo non lo prendevano più, e quelli che stavano portandolo alla bocca, non lo portavano più, ma i visi di tutti erano rivolti in alto. Ed ecco, delle pecore erano condotte al pascolo, e non camminavano, ma stavano ferme; e il pastore alzava la mano per percuoterle con un bastone, e la sua mano restava per aria. Guardai la corrente del fiume e vidi che i capretti tenevano il muso appoggiato e non bevevano [...] insomma, tutte le cose, in un momento, furono distratte dal loro corso" ("I vangeli apocrifi", tr. M. Craveri, intr. G. Pampaloni, Einaudi 1969, pp. 5-ss.).
Analoga scena ci viene descritta dal "Vangelo dell'infanzia del Salvatore". "Nel più grande silenzio, in quel momento, si sono fermate, tremanti, tutte le cose: infatti, cessarono i venti, non dando più il loro soffio, non s'è più mossa alcuna foglia degli alberi, non s'è più udito alcun rumore di acque, non scorsero più i fiumi, non ci fu più il flusso del mare, tacquero tutte le fonti di acqua, non risuonò più alcuna voce umana: c'era un grande silenzio. In quel momento, lo stesso polo cessò l'agile movimento del suo corso; le misure delle ore erano quasi tramontate. Con timore grande, tutte le cose tacevano stupite, mentre noi eravamo nell'attesa della venuta della maestà, del termine dei secoli" ("Apocrifi del Nuovo Testamento", a cura di L. Moraldi, UTET 1971, vol. I, pp. 119-ss.). Tutti questi testi apocrifi, tuttavia, non fanno che tradurre, trasportandolo sulla scena della Natività, ciò che Paolo, nella "Prima Lettera ai Corinti", attribuiva all'istante finale: "ecco, io vi annunzio un mistero: non tutti, certo, moriremo, ma tutti saremo trasformati, in un istante (en atòmo), in un batter d'occhio (en rhipè ophthamoù), al suono dell'ultima tromba" (1 Cor. 15,51-52). Un secondo finale, abbiamo detto, è la morte di Edith, dove si manifesta il potere distruttivo e apportatore di morte dell'immagine che, come diceva Barthes, nella sfera amorosa produce ferite più dolorose del sapere. Siamo già "dopo la fine del mondo". È il febbraio del 2000. La voce del narratore fuori campo dichiara: "credevamo che la storia fosse finita". Un terzo finale, come si è visto, è quello che vede la felice conclusione della vicenda della riproduzione dei sogni. Qui l'immagine, dopo la prova della morte, che è la prova del narcisismo, dell'autorispecchiamento ipnotico nelle immagini private dei propri sogni, fa la prova dell'amore, ossia dell'apertura all'altro e all'ascolto. Eugene, lo scrittore, dichiara "credevo nella magia e nella taumaturgia della parola e del racconto". Queste parole non possono non ricordarci le frasi di un altro scrittore, non immaginario come Eugene, anche se mirabilmente pseudonimico. Si tratta del grande Pessoa, i cui splendidi pensieri intarsiano le immagini di "Lisbon Story". Fra essi ricordiamo, senza dubbio, quello che dice: "ascolto senza guardare e così vedo". Ascoltare è, senza dubbio, il modo in cui la violenza del vedere può apprendere, dalla disposizione accogliente di un altro senso, l'udito, la via per giungere al vedere dell'amore e, quindi, all'immagine responsabile di una storia d'amore. Come diceva sempre la parola di Pessoa, intercalata alle immagini di "Lisbon Story" e sulla falsariga di una delle più belle citazioni della "Prima Lettera ai Corinzi" di Paolo: "se anche avessi il dono della profezia, potessi svelare tutti i misteri e possedessi ogni conoscenza [...], ma non avessi l'amore, allora non sarei nulla" (1 Cor. 13,2).

 

 


 

A. Tagliapietra, L'apocalisse delle immagini. Esegesi del cinema di Wim Wenders a partire da "Fino alla fine del mondo", in "XÁOS. Giornale di confine", Anno II, N.3 Novembre-Febbraio 2003/2004, URL: http://www.giornalediconfine.net/anno_2/n_3/1.htm

 
     

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