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Andrea Tagliapietra

La Lotteria di Babele.
Appunti filosofici su caso e fortuna nella società della comunicazione

«So di un paese vertiginoso, dove la lotteria è parte principale della realtà»
(Jorge Luis Borges, Finzioni)


1. Nel nome del caso

Il caso è ciò che ci fa mancare la terra sotto ai piedi. Nella parola italiana «caso» risuona l'antica derivazione dal verbo latino «cadere», per cui il caso è ciò che, per antonomasia, ci «ac-cade», l'«accidentale». Potremmo dire che la casualità fa sperimentare la purezza dell'accadimento senza aspettative. Il caso è l'evento quod cuique evenit, nel senso di ciò che capita a qualcuno e non di ciò che capita in generale. I tedeschi dicono l'«evento» Ereignis, termine in cui, come già ricordava Heidegger, è chiara la radice di eigen, «proprio», sicché nella parola si esprimerebbe l'atto di appropriarsi dell'accadimento da parte di chi lo vive. I «casi», inoltre, per un uso più laterale del vocabolario, sono anche i «modi d'azione iscritti nella grammatica per modificare il linguaggio» - vi ricordate rosa, rosae, rosae, rosam, rosa, rosarum, rosis, ecc. -, per cui una «teoria dei casi», specificando, vuoi «l'azione di un soggetto su un altro soggetto», vuoi «la comunicazione per cui un soggetto attribuisce qualcosa a un altro soggetto», è sia una «teoria delle azioni e delle passioni» che una «teoria della comunicazione» (Fabbri 1994, pp. 55-56). D'altra parte, il linguaggio giudiziario e quello clinico chiamano «caso» ogni singolo tentativo di applicare l'universalità della legge, o il protocollo di una terapia, alla particolarità delle circostanze, foriere, ogni volta, della potenzialità individuale dell'eccezione. Il caso è, così, la radicalità del nuovo, che irrompe nella nostra vita, ci colpisce e ci spiazza, ma anche la caotica incoerenza del vissuto che, come enunciava Nietzsche per bocca di Zarathustra, è sempre «frammento, enigma e orride casualità» (Nietzsche 1884-1886, p. 169). «Nella lingua greca», scrive Emanuele Severino, «oltre che da tyche, il caso è nominato dalla parola autòmaton, che significa esplicitamente - quando la lingua greca viene parlata dall'epistéme [cioè dalla tradizione filosofica] - l'irruzione del divenire (màomai) da parte di qualcosa che è esso solo il protagonista e il responsabile dell'irruzione; onde esso irrompe "da sé"(autò) - e non è e non ha niente prima di irrompere» (Severino 1979, p. 24). Per questo, di fronte al caso non possiamo che essere indifesi, recettivi e, soprattutto, passivi. Pare che il nome francese del caso, hasard, derivi da quello di una fortezza dei Crociati in Terra Santa, che, per la sua posizione, era scarsamente difendibile, tanto che la sua espugnabilità divenne proverbiale. Il caso, infatti, è ciò che inevitabilmente si subisce. Di qui l'antico pregiudizio, alimentato non solo dal pensiero filosofico, ma anche dalle grandi tradizioni religiose, che il caso sia uno dei peggiori nemici della dignità e della libertà dell'uomo. Dante, com'è noto, confina nel Limbo, dentro le porte dell'Inferno, quel Democrito di Abdera «che il mondo a caso pone» (Inf. IV,136). Il caso, nella forma dell'azzardo, del gioco e dell'amore per il rischio, diviene la disciplina del diavolo, del male nemico dell'ordine. L'aleatorio, in cui risuona ancora l'alea, il nome latino del dado che ruzzola sul tavolo da gioco, è l'imponderabile e, di conseguenza, ciò su cui non si può fare alcun affidamento. Anagramma del caos, di cui prolunga e rispecchia il disordine, il caso non gode, anche presso il senso comune, di una grande reputazione, se è vero che «un lavoro fatto a caso» è, spesso, sinonimo di un'opera mal riuscita, senza criterio, di una prestazione inefficiente, buttata là, affrettata e pressappochista. Di una cosa riuscita «per caso» non si possiede l'intenzione, né il disegno preciso, ma, più propriamente, si confessa, a posteriori, che non si sarebbe affatto in grado di riprodurla così com'è venuta. Confessione, questa, che è, per i più, segno di modestia, dal momento che, in generale, non v'è nulla di più facile che impadronirsi dei meriti del caso. Così, nessun artista ammetterebbe volentieri che l'unicità della sua opera è determinata, in buona parte, da fattori indipendenti dalla sua mano, come nessuno scienziato sarebbe disposto a dichiarare il coefficiente di fortuna implicito nell'intuizione di una teoria o nella realizzazione di una scoperta scientifica. Anche del calciatore che, con atto irriflesso, colpisce la palla e la getta in rete, si ama sottolineare la prodezza del gesto atletico, quasi mai la casualità che vi sta dietro. Riconoscere il potere del caso, infatti, ci pare una forma di umiliazione e di diminuzione delle nostre capacità. E' l'ammissione di una carenza del nostro controllo sulle cose. Aristotele diceva che del caso non v'è scienza, dal momento che il dominio del caso non riguarda né il per lo più, né l'impossibile, né tantomeno il necessario, ma ciò che potrebbe anche non essere, o essere altrimenti (cfr. Berti 1989).

2. Il caso e la fortuna

«Un uomo scava una buca per piantare un albero e invece trova un tesoro». Con questo celebre esempio, tratto dalla Metafisica (Metaph. V,30,1025a 15-16), inizia la «storia» del caso nel pensiero occidentale. Il ritrovamento del tesoro, commenta Aristotele, è, per chi scava la buca, un evento puramente accidentale (symbebekòs). Infatti, i due accadimenti, vale a dire lo scavo della buca e il tesoro, non sono legati fra loro né dalla necessità logica (altrimenti chi scava una buca troverebbe sempre un tesoro), né dalla probabilità empirica (altrimenti chi scava una buca troverebbe per lo più un tesoro). Nella definizione aristotelica del caso è determinante la struttura finalistica che congiunge una serie di eventi. E' rispetto alla sequenza degli eventi finalisticamente orientati che il caso rappresenta l'irruzione del nuovo, dell'imprevedibile, dell'inatteso. Due azioni prevedibili in quanto perfettamente finalizzate ad uno scopo si sono svolte. Un uomo, terrorizzato dai ladri, ha nascosto il tesoro in un campo. Un altro, deciso a piantare il suo albero, si è messo a scavare una buca. L'incontro di queste due serie costituisce l'evento casuale. «Per evento casuale o accidentale», osserva Carlo Natali, Aristotele «non intende una "libertà assoluta, ma cieca", né una "causa irrazionale"; per "caso" egli intende un certo tipo di coincidenze che provocano, insieme, un risultato inaspettato» (Natali 1996, p. 59). Ritornando sulla questione del caso nelle pagine della Fisica, Aristotele ribadisce la sua tesi con un secondo esempio, altrettanto famoso. Un uomo va nell'agorà e si imbatte nel suo debitore. Questi, che stava raccogliendo i contributi per una festa, può così restituirgli il denaro (Phys. II,5,196b 33-35). Ciò che determina la casualità dell'evento non è, quindi, una qualità intrinseca dello stesso, ma una relazione posizionale, vale a dire il suo essere eterogeneo rispetto alla catena causale che lo ha preceduto. Infatti, il creditore non si è recato all'agorà per riscuotere il suo credito, ma per fare una passeggiata. A sua volta, il debitore non ha raccolto il denaro per risarcire il suo debito, ma per organizzare una festa. Nelle due catene causali, finalisticamente orientate, è avvenuto, come quando due fili elettrici si sovrappongono, una sorta di cortocircuito. Di qui l'avvento del caso. Come scriveva, alle soglie del Medioevo, Severino Boezio, si può «definire il caso (casum) come evento imprevedibile (inopinatum eventum), prodotto da cause confluenti (ex confluentibus causis) in azioni che si compiono per qualche motivo»(Philosophiae Consolationis V,1). Tuttavia, proseguendo nella sua analisi, sempre nelle pagine del secondo libro della Fisica, Aristotele sente il bisogno di distinguere, all'interno della più vasta categoria del caso (automatòn), il dominio, più circoscritto e limitato, della fortuna (tyche). «Tutto ciò che è dalla fortuna», egli scrive, «è anche dal caso, ma non tutto ciò che è dal caso è anche dalla fortuna. Infatti, la fortuna e le cose che derivano dalla fortuna sono fra quelle alle quali si può attribuire la possibilità di avere buona fortuna e, in generale, di agire» (Phys. II,6,197a 35- 197b 3). L'ambito della fortuna è, quindi, l'ambito umano della prassi, dove si esercita la capacità di scelta, l'intenzionalità e l'azione indirizzata verso uno scopo. Non è un caso, se ci è concesso il gioco di parole, che entrambi i due esempi di Aristotele - in cui, per inciso, alla fine v'è sempre l'immagine del premio, dell'oro, della moneta sonante di chi ha vinto una delle tante lotterie della vita - possano essere ridescritti nei termini del «colpo di fortuna» capitato all'«animale politico» per eccellenza. Quell'«animale politico» che si misura con l'orizzonte collettivo del commercio e del prestito, del furto e dell'agricoltura, e che, secondo il celebre monito di Marx, non può neppure permettersi di sognare l'isolamento dalla società di un Robinson Crusoe.

3. Strategie del caso: razionalizzazione e ritualizzazione

Nelle società umane l'esposizione al dominio del caso può dare origine a due atteggiamenti culturali solo apparentemente opposti, dal momento che costituiscono la risposta alla medesimo deficit di spiegazione. Da un lato si può rispondere all'avanzare del caso con «l'elevazione del tasso di razionalità o di donazione di senso a eventi che possono apparire a posteriori non accidentali», dall'altro si può «esorcizzare o padroneggiare il caso - nel suo carattere imprevedibile, inatteso, nuovo e perciò foriero di incertezza e di rischio - mediante narrazioni, atti o progetti che lo trasformino possibilmente in chance, in aumento di libertà o, almeno, di sicurezza» (Bodei 1994, pp. 98-100). Queste due strategie-antidoto del caso, vale a dire la sua razionalizzazione a posteriori - che per il senso comune corrisponde al tanto bistrattato «senno di poi» - e la sua ritualizzazione a priori, ossia l'inserimento del caso in procedure istituzionalizzate che, dischiudendone il campo d'esercizio, in qualche modo fungono da dispositivo rassicurante, anticipando l'angoscia per il nuovo, coesistono sempre. Se è vero che lo sviluppo della cultura umana verso la complessità è definibile in termini di incremento delle procedure di calcolo e di razionalizzazione del caso, è anche vero che l'orizzonte della complessità moltiplica esponenzialmente la possibile ricorrenza degli accadimenti fortuiti e casuali, trasformando, come vedremo, la stessa complessità in una maschera del caso. Viene meno, infatti, nel passaggio dalle configurazioni tradizionali dei poteri e dei saperi alle corrispondenti configurazioni della modernità quella super-spiegazione del tutto in termini onto-teo-logici che consentiva di interpretare il divenire degli eventi umani come mosso da una forza unitaria, un'autentica vis a tergo che orientava anche gli accadimenti inspiegabili, le più pure casualità, in vista del fine complessivo di tutte le cose. Ciò che le varie diagnosi della modernità come disincantamento (Max Weber), sdivinizzazazione (Martin Heidegger), secolarizzazione (Karl Löwith), disanimazione (Carl Gustav Jung), crisi (Theodor W. Adorno e Max Horkheimer), autonomia e autoaffermazione (Hans Blumenberg), tramonto degli immutabili (Emanuele Severino), hanno in comune è l'identica percezione, che è innanzitutto sociale e psicologica, dell'abbandono di questa super-spiegazione, rilevata in termini di crescita dell'incertezza e/o di aumento della libertà.

4. Razionalizzazione a posteriori del caso

Uno degli effetti dell'abbandono è, comunque, l'accresciuta sensibilità psicologica e sociale nei confronti del potere del caso. Al potere del caso la scienza moderna risponde con la prima delle strategie-antidoto indicate in precedenza, ossia con l'incremento del tasso di razionalità complessivo e con l'inserimento del caso in un sistema aperto di regole e leggi. Emblematico e asciutto come un aforisma è, in proposito, quanto affermava Karl Popper nel § 69 della Logica della scoperta scientifica, dedicato, appunto, a "Legge e caso". «Si sente dire», scrive Popper, «che i movimenti dei pianeti obbediscono a leggi rigorose, mentre la caduta di un dado è fortuita, o soggetta al caso. Dal mio punto di vista la differenza consiste nel fatto che finora siamo stati in grado di predire con successo i movimenti dei pianeti, ma non i risultati dei singoli lanci di un dado» (Popper 1934, p. 219). La scienza moderna, allora, ridisegna il caso come insufficienza conoscitiva e incapacità previsionale, lasciando aperta la possibilità che l'evento casuale appartenga o non appartenga, in una futura estensione delle conoscenze, all'ambito di una legge. Tuttavia, ciò che in prima battuta sembrerebbe una riconfigurazione in chiave tendenzialmente deterministica dello spazio della casualità, in un secondo momento si rivela come la più radicale esposizione al potere del caso dell'intero edificio del sapere. Infatti, anche le leggi scientifiche, per la stessa apertura con cui si consentiva all'evento casuale una possibile riconfigurazione all'interno di una regolarità, possono essere revocate, ossia, per dirla con Popper, sono costitutivamente falsificabili. Così, scrive Severino, l'ipotesi scientifica «non prescrive alcuna legge al niente, ma condiziona il proprio contenuto alla conferma casuale di ciò che viene da niente» (Severino 1979, p. 33). Detto altrimenti, per il sapere scientifico la legge non sancisce la necessità del sopraggiungere di una serie di eventi, ma dal momento che «ogni regolarità empirica è puramente casuale» (Severino 1979, p. 32), essa afferma che è il puro accadimento della serie, cioè il caso, a tenere assieme gli eventi previsionali a cui dà luogo, e ciò solo fintantoché essi sono interpretabili come conferma della prova. Il nucleo più intimo della modernità - che coincide, per altro, con la caratteristica dominante di ciò che François Lyotard chiamava il «postmoderno» (Lyotard 1979) - è, quindi, la fine dei grandi récits, l'esaurimento del quadro delle grandi narrazioni concettuali di spiegazione del mondo. Lo statuto epistemologico della scienza moderna rispecchia la realizzazione di questo programma, sicché la funzione di strategia-antidoto del calcolo razionale appare valida solo finché si ha fede nell'efficacia illimitata del sapere scientifico e nella prospettiva, altrettanto illimitata, di un suo indefinito incremento. Così, nelle società contemporanee il mondo sociale, dopo essere stato, per lungo tempo, condizionato da leggi che l'individuo doveva solo comprendere e assecondare, fossero esse la «meccanica razionale» della storia, la divina provvidenza, o la necessità intrinseca del mondo naturale, vede l'individuo di fronte ad un futuro ridiventato ricco di contingenza, disegnando per lui l'alternativa fra due specie diverse di casualità. Da un lato v'è il caso incalcolabile, ossia ciò che non consente, allo stato dei fatti, alcuna predizione, dall'altro, invece, v'è il caso calcolabile, dove si fanno delle ipotesi sulla probabilità oggettiva dell'accadimento. L'apparire della categoria del caso calcolabile è ben rappresentato dalla deriva del termine francese roulette, che inizialmente indicava un tipo di curva geometrica cicloide, studiata da Pascal, mentre oggi designa forse il più emblematico fra i giochi d'azzardo. Accanto a questo abbandono di ciascuno alla forza trainante del caso, è aumentata, nelle società moderne, un'altra specie di compensazione, vale a dire la fede nella capacità umana di determinarsi nelle scelte. La modernità vive, come ha scritto Odo Marquard, all'interno del «progetto di assolutizzazione dell'uomo» (Marquard 1987, pp. 142-145), quel progetto ben riassunto dalla formula di Sartre, che definiva se stesso le choix que je suis, «la scelta che io sono» (Sartre 1943, p. 638). Al centro della modernità sta l'immagine dell'individuo come risultato solo delle sue intenzioni e a cui nulla accade che non sia stato liberamente progettato e scelto. Gli uomini, dal punto di vista dell'idealismo, come del marxismo, del superomismo nietzscheano e delle altre metafisiche della modernità, devono essere o divenire assoluti. Benché dal punto di vista del crepuscolo della modernità che noi abitiamo, questa fede appaia alquanto ingenua, essa si insinua nei luoghi più imprevedibili. La ritroviamo, per esempio, nella Psicopatologia della vita quotidiana di Freud, là dove si afferma che la casualità è una categoria che si applica agli eventi esterni, non a quelli interni della vita psichica (Freud 1901, pp. 278-ss.; cfr. Preta 1994, pp. 113-127). Il determinismo della vita psichica diviene, allora, una sorta di membrana di compensazione per tollerare l'angoscia del cambiamento assoluto, che domina ormai gli accadimenti del mondo esterno. Ma, come si diceva in precedenza, i tentativi di sottoporre la marea degli eventi fortuiti alla razionalizzazione del calcolo, alla capacità previsionale dei vari paradigmi di razionalità, più o meno assoluta, che il pensiero moderno ha formulato nel corso del tempo, rappresentano solo una delle due possibili strategie-antidoto nei confronti della casualità. Nell'orizzonte complesso della tarda età moderna o, se volete, nel nucleo postmoderno della modernità, innanzi ai ripetuti scacchi della previsione basata sulla razionalizzazione a posteriori degli eventi casuali, ci si affida, sempre più spesso, a forme di ritualizzazione a priori dell'ambito del caso. L'uomo della contemporaneità, l'uomo postmoderno, proietta l'immagine di sé nella consapevolezza della finitudine, ossia nell'impossibilità dell'assolutizzazione razionale delle sue scelte. Anche quando ci illudiamo di scegliere, come quell'uomo dell'esempio classico di Aristotele, che si avviava a scavare la buca nel campo fiducioso di potervi piantare il suo albero, la brevità della vita non ci garantisce di conoscere veramente ciò a cui, di volta in volta, accordiamo le nostre preferenze, sicché, come scriveva Marquard nella sua splendida Apologia del caso, più che delle nostre scelte, finiamo per essere il risultato dei nostri accidenti (Marquard 1987, p. 151). Ecco allora emergere, anche nel cuore della società contemporanea, la necessità che la ritualizzazione a priori si consolidi in vere e proprie forme di istituzionalizzazione del caso nella vita sociale.

5. Ritualizzazione a priori del caso.Gli esempi antichi

Forme di istituzionalizzazione del caso sono sempre esistite nelle società pre-moderne. Nelle culture arcaiche il caso interviene, spesso, per generare, come ha scritto Jean-Pierre Dupuy, autotrascendenza: «L'autotrascendenza che produce il ricorso al caso si fonde col modo in cui gli uomini auto-esteriorizzano la loro violenza nella forma del sacro» (Dupuy 1994, p. 153). Attraverso il responso del caso, come nell'ordalia, è la divinità stessa che parla. Una decisione vitale per il singolo, per un gruppo o per l'intera comunità viene affidata ad un'istanza esterna che, per il pensiero arcaico, coincide con il dio e con il suo giudizio. Il soggetto del caso è, quindi, al di fuori della sfera umana, ossia al di fuori della sfera d'esercizio dei saperi e dei poteri riconosciuti dalla comunità. Per dirla nei termini della nota teoria sociale della violenza di René Girard (si veda, in proposito, Tagliapietra 1997a, pp. 91-98; id., 1997b, pp. 357-364) l'irruzione istituzionalizzata del caso produce una differenza asimmetrica e verticale rispetto alle relazioni simmetriche e orizzontali fra i membri del gruppo, foriere di un esercizio potenzialmente illimitato e indifferenziato della violenza. Il caso rappresenta, cioè, la soluzione di continuità che impedisce la sterminata reciprocità della violenza, creando un argine trascendente alla contrapposizione dei soggetti sociali, mediante la violenza senza soggetto del sacrificio. Il sacrificio, infatti, non ha altro soggetto che il gruppo sociale stesso che si autotrascende nella divinità, la cui violenza non può coincidere se non per caso con quella esercitata da un singolo (il sacerdote) o da un gruppo sociale (la casta sacerdotale). Una delle strategie per istituzionalizzare questa casualità fu il sorteggio della vittima sacrificale. Il sorteggio che designa la vittima sacrificale è ben descritto nelle pagine bibliche del Levitico (Lv. 16,7-22), là dove viene presentata l'istituzione del rito del capro espiatorio (sul significato complessivo di questa «espiazione» cfr. Girard 1982). Il sacerdote «prenderà due capri e li farà stare davanti al Signore, all'ingresso della tenda del convegno, e getterà le sorti per vedere quale dei due debba essere del Signore e quale di Azazel, il demone del deserto» (Lv. 16,7-8). Un altro esempio famoso di meccanismo sacrificale connesso con la pratica del sorteggio ci viene fornito in quell'immenso arazzo di miti e di riti che è Il ramo d'oro di James G. Frazer. Parlando dei «fuochi di Beltane», una serie di falò che, al Calendimaggio, si usavano accendere nelle Highlands scozzesi, Frazer espone la seguente testimonianza: «il 1° maggio, detto giorno di Beltan o Baltein, tutti i ragazzi di un comune o d'un borgo, si riuniscono nella brughiera. Foggiano una tavola nelle zolle erbose, scavando un terrapieno circolare di tal dimensione da dar posto a tutta la comitiva. Accendono quindi un fuoco, e preparano un piatto di uova e latte consistenti come la crema. Poi impastano una torta di farina d'avena e l'abbrustoliscono su una pietra fra la bragia. Avendo mangiata la crema, dividono la torta in tante porzioni quanti sono i componenti la brigata, tutte eguali di forma e di grandezza. Una di queste parti la tingono di nero con del carbone e mettono tutte le fette insieme dentro un berretto. Ognuno dei presenti, bendati gli occhi, estrae la sua porzione: l'ultima è di chi tiene il berretto. Chi prende il pezzo nero è il Dannato o Consacrato, il quale dev'essere sacrificato a Baal, di cui vogliono implorare la grazia, perché renda l'anno produttivo per gli uomini e per il bestiame. V'è poco da dubitare che questi inumani sacrifici fossero veramente offerti in questo paese come in Oriente, benché ora si tralasci l'atto del sacrificio, e la persona dannata sia soltanto costretta a saltare tre volte attraverso le fiamme: col quale atto si concludono le cerimonie della festa» (Frazer 1911-1915, vol. II, p. 956). Commentando questo brano, Roberto Calasso osservava che «la "brigata" di Beltane finge di costituire un essere solo, e che quell'essere sia un tutto: la torta divisa in tante parti uguali. Allora potrà rinunciare a una sua parte, che non sia la sua parte. Per rispondere al sacrificio divino, che avviene all'interno di un tutto, i sacrificanti umani fingono una loro totalità e onnipotenza» (Calasso 1983, p. 84). Ritroviamo ciò che Frazer descriveva con i «fuochi di Beltane» nei numerosi «re del Carnevale» del folklore europeo, in cui il sovrano carnascialesco, eletto per burla mediante un sorteggio, gode, durante il tempo festivo, della parodia di un'autentica sovranità, mentre, alla fine della festa, viene sbeffeggiato, deriso e fatto oggetto dei lazzi più triviali. In tutti questi casi il sorteggiato ha preso il posto della vittima sacrificale, in una versione depotenziata, ma ritualmente ancora significativa, del sacrificio stesso. Se Wittgenstein, commentando il passo del Ramo d'oro dei «fuochi di Beltane», trovava «particolarmente terribile» che il sorteggio avvenisse «mediante un dolce» - «quasi come un tradimento mediante un bacio» (Wittgenstein 1967, p. 249) -, va detto che l'addolcirsi dei costumi, vale a dire la sostituzione della vittima reale con una vittima simbolica, non intacca la struttura implosiva del meccanismo sacrificale, il bisogno di autotrascendenza che, come un buco nero, esso cela al suo interno e che si esprime nella procedura del sorteggio. Il sorteggio esteriorizza la decisione del gruppo sociale. Mediante il sorteggio il gruppo diviene un soggetto non riducibile, come diceva Calasso, alla mera somma delle sue singole parti, all'addizione dei suoi interessi particolari. Questa trascendenza, che gli antichi monarchi africani studiati da Leo Frobenius incarnavano nell'interezza del ciclo di sorteggio-regno-sacrificio (Frobenius 1929), ha, tuttavia, anche delle proiezioni meno cruente. Secondo Erodoto, per esempio, i Persiani usavano prendere le decisioni più importanti, dapprima formulandole in banchetti notturni, dove si lasciavano inebriare dal vino. Le riesaminavano, poi, da sobri, il mattino seguente, facendo una sintesi fra ciò che avevano deciso da ebbri e ciò che pensavano a mente lucida. Anche in questa circostanza la casualità indotta dall'ebbrezza rappresenta, nell'intenzione dell'uso, gli interessi della collettività, che possono emergere solo depotenziando le individualità diurne dei capi. Da qui, ossia da un dispositivo che mira a rendere ininfluenti il merito, la competenza, la ricchezza o il valore, deriva l'istituzione della democrazia ateniese che, com'è noto, procedeva alla nomina dei magistrati mediante estrazione a sorte. Questa pratica era corretta con l'elezione, vale a dire con il voto per alzata di mano, solo dove la magistratura, come nel caso degli strateghi, ossia dei capi militari, richiedeva competenze irrinunciabili. L'isonomia, la «legge più uguale», ovvero il metodo democratico, temendo l'inevitabile pressione delle singole parti sulla totalità della scelta, designava i governanti mediante la casualità del sorteggio, mentre l'elezione conservava il rispetto aristocratico per l'eccellenza (areté). Se ne ricorderà ancora Montesquieu che, all'inizio del suo capolavoro, affermava che «il suffragio per via di sorte è proprio per natura della democrazia; quello per via di scelta, dell'aristocrazia» (L'Esprit des lois II,2).

6. Forme di ritualizzazione a priori del caso nelle società moderne

Ma anche nelle società moderne, in cui la procedura democratica per eccellenza è il voto, e non il sorteggio, accade spesso che le votazioni assumano, rispetto alla responsabilità dei singoli elettori e alla loro concreta consapevolezza di incidere sulla decisione definitiva, il valore di una semplice lotteria. Schumpeter scriveva che le votazioni, in uno stato democratico, non contribuiscono a rendere gli elettori direttamente responsabili delle loro scelte, mentre in qualsiasi altra attività, anche ludica, come il gioco del bridge, essi, alla fine, sono chiamati a pagare di persona (Schumpeter 1942, p. 230-ss.). D'altra parte, la stessa teoria dell'informazione ci dice che il risultato del voto è la conseguenza della massimizzazione dell'entropia, ovvero del disordine del sistema, sì che dal punto di vista formale elezione e sorteggio si equivalgono. Il paradosso del voto è che, tranne l'eventualità, statisticamente rarissima, di due elettorati perfettamente spaccati a metà, «la scheda deposta nell'urna da ciascun elettore avrà avuto un effetto strettamente nullo» (Dupuy 1994, p. 156). L'incidenza del caso nella politica, mediante dispositivi legislativi ed istituzionali che, di volta in volta, mantengano, creino, escludano e rendano calcolabile il caso, è, tuttavia, solo un aspetto dell'istituzionalizzazione complessiva del caso nelle società moderne. Il caso, osservava Anatole France, è forse lo pseudonimo di Dio, quando non voleva firmare. Nell'orizzonte della modernità quest'omissione della firma si estende ad ogni cosa. L'immanenza ha bisogno di una trascendenza immanente e il caso gliela fornisce, sotto la maschera della complessità. Si pensi solo all'immagine del mercato fornita dai grandi teorici dell'economia politica del nostro secolo, come John M. Keynes o Friedrich A. von Hayek. La complessità del mercato significa che il sensoglobale del mercato è sempre esteriore rispetto ai rapporti intersoggettivi che lo compongono. L'emblema della comunicazione interna al mercato è, quindi, il qui pro quo, il fraintendimento, il quale,tuttavia, non è mai a resto zero per il mercato nel suo insieme, ma solo per alcune delle sue parti, le quali, tuttavia, non perdono per demerito, ma per caso, cioè, in linea di massima, non per insufficienza, ma per impossibilità previsionale. Del resto, il mercato stesso può avere delle regole solo perché coloro che le istituiscono e si accordano per osservarle, in virtù della complessità del sistema non possono prevedere gli eventuali vantaggi o svantaggi che il futuro potrebbe riservare loro. «Che sia l'ignoranza del risultato futuro», scrive von Hayek, «che rende possibile l'accordo su regole che servono da mezzo comune a fini diversi e molteplici, è ciò che riconosce implicitamente la pratica frequente, che consiste nel rendere deliberatamente imprevedibile un risultato, al fine di rendere possibile l'accordo su una procedura: ogni volta che ci accordiamo per tirare a sorte, sostituiamo deliberatamente delle probabilità uguali fra tutti i partecipanti a una certezza riguardo al beneficiario» (von Hayek 1976). Il mercato riscrive la lotteria naturale e la contingenza delle circostanze biografiche della nascita non più nei termini della probabilità sottoponibile al calcolo razionale, che illude i singoli soggetti sulla possibilità eventuale del controllo, ma in quelli della complessità, ovvero della non comprimibilità dell'informazione totale del sistema. In termini più generali, la società della comunicazione, di cui il mercato è forma eminente, si svela come complessità irriducibile ad un principio generatore che non sia la riproposizione, tale e quale, della forma medesima. Restringendo le nostre considerazioni dalla società nel suo insieme all'ambito specifico della comunicazione, ciò significa che l'elemento aleatorio o, se si vuole, della fortuita casualità, appartiene strutturalmente ad ogni comunicazione in quanto dimensione complessiva del senso. Infatti, non è il gioco a rappresentare una forma particolare di comunicazione, ma è la comunicazione stessa a configurarsi come gioco. Qui rimangono oltremodo illuminanti le splendide pagine che Gadamer ha dedicato al gioco come filo conduttore della teoria ermeneutica (Gadamer 1960, pp. 132-ss.), ove si ribadisce che «il soggetto del gioco non sono i giocatori, ma è il gioco che si pro-duce attraverso i giocatori». In questo senso, solo un'immagine arcaica della comunicazione come trasferimento di informazioni nello spazio e nel tempo, fra soggetti finiti, può essere descritta in termini di messaggio, ossia di gioco a resto zero fra latore e destinatario, a strategia tendenzialmente ottimale. Alla luce della teoria dei giochi (cfr. Morgenstern 1963; Eigen - Winkler 1975; ecc.: vedi riferimenti bibliografici) la comunicazione è, infatti, un gioco infinito, senza strategia ottimale. La comunicazione è, quindi, creazione e incremento, dal momento che la feconditàdel senso è data, tout court, dall'aumento delle relazioni, da quell'autotrascendenza del novum della comprensione che Gadamer rendeva con la magnifica metafora della «fusione degli orizzonti». Fra le splendide gemme che Jorge Luis Borges raccolse ne Il giardino dei sentieri che si biforcano, due racconti ispirano al lettore un'oscura e immediata simmetria. L'uno, celeberrimo, narra della famosa Biblioteca di Babele, che «include tutte le strutture verbali, tutte le variazioni permesse dai venticinque simboli ortografici, ma non un solo nonsenso assoluto» (Borges 1941, p. 76). E' questo, credo, il più poderoso simbolo dell'infinita semiosfera in cui abitiamo che la letteratura contemporanea ci abbia donato. La Biblioteca di Babele è l'ologramma, l'orizzonte della comunicazione totale: «tutto ciò ch'è dato di esprimere, in tutte le lingue» recita il bibliotecario. Borges, da buon neoplatonico, afferma l'assioma per cui «la Biblioteca esiste ab aeterno». Eppure, se noi riuscissimo ad immaginare la creazione di questa biblioteca, il suo farsi e il suo divenire nel tempo, ecco allora che la lettura dell'altro racconto di Borges, La lotteria a Babilonia, parrebbe, a suo modo, fatale. Vi si descrive, infatti, «un paese vertiginoso, dove la lotteria è parte principale della realtà» (Borges 1941, p. 56). Un luogo in cui «il numero dei sorteggi è infinito», «nessuna decisione è finale» e «tutte si ramificano in altre». Babilonia è la preistoria di Babele, il "prologo in terra" dell'universale biblioteca dei segni, nient'altro che «un infinito gioco d'azzardo» (Borges 1941, p. 62).


 

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Andrea Tagliapietra, La Lotteria di Babele. Appunti filosofici su caso e fortuna nella società della comunicazione, in "XÁOS. Giornale di confine", Anno II, N.2 Luglio-Ottobre 2003,
URL: http://www.giornalediconfine.net/anno_2/n_2/1.htm

 
     

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