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ANDREA TAGLIAPIETRA

Il volto del potere


Inerzia e ostaggio

"La natura del potere", osservava Thomas Hobbes nel "Leviatano", "è simile alla fama, che va aumentando man mano che avanza, o è anche simile al moto dei corpi pesanti, che acquistano tanta maggior velocità quanto più a lungo si muovono". Ci sono nel potere, secondo uno dei suoi più lucidi e disincantati investigatori dell'età moderna, un'essenziale dinamicità, un moto espansivo, un'inerzia che avvolge e travolgendo si propaga. Se il potere è, nella sua più generale ed astratta nozione, la capacità di esercitare influenza sulla condotta degli altri esseri e di far questo, come diceva Machiavelli, vuoi con la coercizione, vuoi con la convinzione, nessuno degli attori del teatro del potere può chiamarsi fuori da questa scena e ritenersi immune dal suo contagio. Il potere è per tutti, e quindi anche per colui che crede di possederlo, una realtà a sé stante, una forza che sovrasta e, per così dire, tiene in ostaggio. "Il potere", scriveva Carl Schmitt, "è più forte di ogni volontà di potenza, più forte di ogni bontà umana e, fortunatamente, anche di ogni malvagità umana". Ma non per questo il potere dev'essere inteso come qualcosa di sovraumano o divino, di "metafisicamente separato", come dicono i filosofi. Esso riguarda, infatti, esclusivamente il campo di relazione dell'uomo con l'uomo e Robinson Crusoe, malgrado ben presto, nel delirio della solitudine, si autonominasse governatore della sua isola deserta, avrà il potere soltanto quando, nel seguito del romanzo, potrà effettivamente esercitarlo su degli altri uomini. Il potere non ha identità, ma produce identità, quel "riconoscimento" per ottenere il quale servo e padrone si affrontano nelle pagine hegeliane della "Fenomenologia dello spirito". Del resto, proprio per conseguire la garanzia dell'identità, l'uomo, in genere, è disposto a lottare, a soffrire e, assai spesso, a rimanere sconfitto.

Davanti al potere. L'anticamera e il corridoio

C'è qualcosa di assolutamente tragico, di testardamente sisifeo, in questa definizione del potere. Quando Schmitt redige il suo breve "Dialogo sul potere" - siamo nel 1954 -, il potere si identifica già con l'illimitata capacità della tecnica, con la "machina machinarum" che domina, con la potenza della sua efficacia, sui destini, troppo più deboli, degli uomini che l'hanno prodotta. Pare, quindi, che la rappresentazione di un potere impersonale e senza volto debba necessariamente essere collegata all'anonimato imposto dalla struttura stessa dell'"impianto" tecnologico, ossia da quella che, proprio in quegli anni, Heidegger, buon amico di Schmitt, chiamava la "gabbia" della tecnica, che riduce gli uomini al ruolo di "strumenti", semplici "esecutori", di piccoli "funzionari" dell'apparato globale. Tuttavia, una rapida scorsa del libello schmittiano è sufficiente a fugare questa ipotesi. Il titolo esteso del "Dialogo" recita, infatti, "sul potere e sull'accesso a coloro che lo detengono". Il potere è, cioè, sin dall'inizio, il problema del suo accesso, ovvero di come sia possibile entrarne in contatto. Nelle pieghe dello scritto, in cui Schmitt, alla stregua del Socrate di Platone, finge uno scambio dialogico con un "giovane amico", si avverte subito una sorta di slittamento. Invece di cercare una definizione del potere in sé, si disegna un dispositivo di differimento. Partendo dall'affermazione che "ogni potere diretto è sottoposto immediatamente ad influenze indirette", si giunge a concludere che "non esiste alcun potere senza questa anticamera, senza questo corridoio". Chi ha seguito Schmitt fino a questo punto non può non provare una specie di delusione, perché, così, l'essenza del potere non viene affatto dichiarata. La condizione dell'uomo di fronte al potere sembra assai simile a quella del pellegrino kafkiano nella famosa novella "Davanti alla legge". Come quest'ultimo attende per una vita di varcare la porta della legge, sottomettendosi, in realtà, al volere del guardiano che glielo impedisce, così l'uomo, per Schmitt, non accede mai al potere direttamente, ma sempre mediante "un'anticamera", sottoponendosi, cioè, ad una mediazione. Anzi, sorge legittimo il dubbio che il potere consista proprio in questa mediazione, così come, nel racconto di Kafka, la legge pareva risiedere più nell'esasperante gioco dell'attesa che nella luce escatologica che si intravedeva al di là della porta.

Il ritratto di Eliogabalo

Ciò significa, quindi, che del potere non vediamo mai il volto, ma solo e sempre delle tracce e dei segni, delle semplici maschere dalle nere occhiaie vuote. Nella prosa visionaria dello splendido "Eliogabalo", Antonin Artaud ci racconta il grande teatro della cerimonia d'investitura del suo giovane e folle imperatore. Innanzi all'esercito romano riunito, in una notte di primavera del 217 d.C., fuori dagli accampamenti di Emesa, grandi specchi vengono eretti, perché possano riflettere il fuoco delle fiaccole. Poi, all'improvviso, ecco che "un dipinto alto trenta cubiti, largo venti, è srotolato dagli spalti, la luce innumerevole delle torce riflesse dai lunghi specchi cade, con tutto il suo fulgore, sull'immenso dipinto. E si rivela una specie di dio guerriero: Eliogabalo o Caracalla; è il costume di Caracalla, con la testa di Eliogabalo. Ma una testa d'Eliogabalo che sembra trasparire sotto i tratti di Caracalla. Il campo applaude, la musica cessa". Diderot, nei suoi "Saggi sulla pittura", pretendeva di riconoscere il tipo di governo di uno Stato dalla fisiognomica dei ritratti dei suoi cittadini, di volta in volta, fieri sotto la repubblica, affabili sotto la monarchia o dimessi sotto la tirannide. Per lui il potere ha un volto, o almeno delle categorie generali che fissano l'espressione dell'umana sembianza. Ma l'enorme ritratto di Eliogabalo che campeggia come un'insegna araldica sugli spalti di Emesa è un volto senza identità, senza connotati specifici. battagliaE' il vecchio imperatore che traspare nei tratti del nuovo, quasi che l'investitura imperiale consistesse nell'indossare una maschera uguale per tutti. Eliogabalo ha il volto di Caracalla, ma Caracalla indossa la maschera di Cesare e Cesare quella di Alessandro Magno, almeno così come ci appare nell'incerta copia del mosaico della Battaglia di Isso. Sulle monete dell'alto medioevo, per rappresentare il sovrano veniva spesso utilizzata l'imago, l'effigies di qualche antico imperatore romano. Il principio della "translatio imperii", della trasmissione del potere secondo la continuità della successione poggiava sulla costanza percettiva di una maschera che non ammette differenze. Come il volto di Eliogabalo si sovrappone a quello di Caracalla, ed entrambi perdono la specificità del tratto a vantaggio dell'identità dell'imperio, così la legittimità del potere cancella la peculiarità dell'espressione. Anche il potente indietreggia di fronte alla sua invisibile sembianza, ne diviene una maschera, è "un'anticamera", un semplice strumento dell'accesso al potere, e questo proprio nel momento in cui sembra stringerne in pugno l'essenza.

La pinacoteca del potere

Nonostante la grande stagione europea del ritratto ci abbia consegnato il dettaglio delle sembianze di innumerevoli potenti, spesso magnificamente raffigurati dai più valenti pittori dell'arte occidentale, la cancellazione dell'espressione è il tratto comune che ci fa scorgere una terribile continuità nella teoria dei volti di questa sterminata pinacoteca del potere. compQuando Antoine François Callet dipinge il ritratto di Luigi XVI, oggi conservato al Prado, si comprende facilmente che, nella posa e nell'intenzione, i suoi occhi vanno al grande modello del Luigi XIV di Hyacinthe Rigaud.

Eppure la verità di questi due ritratti converge e viene svelata solo nel volto da clown di Gilles, nella fissità dello sguardo senza fondo del celebre quadro di Watteau, clownche rappresenta questo perfetto "idiota" dostoevskiano in piedi, al centro della scena, nel suo costume da pallido pierrot, circondato dal concertino rococò di alcune maschere della Commedia dell'arte. Volendo formulare una teoria accessoria a quella di Schmitt, che sul piano dei volti riconduce il potere alla conformità di una maschera nuda, potremmo dire che l'inespressività del sovrano contiene, in un certo qual modo, l'insieme di tutti i volti del suddito. "Io sono tutti i nomi della storia", scrive Nietzsche, nei giorni convulsi della catastrofe torinese, quando invia i suoi "biglietti della follia" a tutti i potenti d'Europa. "L'intenzione autentica del vero potente", leggiamo dalla lucida penna di Elias Canetti è, per certi versi, "incredibilmente grottesca: vuole essere l'unico, vuole sopravvivere a tutti, affinché nessuno gli sopravviva" ("Potere e sopravvivenza"). Giocando d'anticipo con la morte, il potente indossa una maschera funeraria, cancella preventivamente la sua identità nei tratti di un volto che non ammette differenze. Del resto, se queste apparissero egli sarebbe irrimediabilmente perduto, perché tutti apprenderebbero, proprio in quell'istante, le prove della sua sovrana impostura.

Stupefazione

Eppure, il volto del potere, che i grandi artisti d'Occidente hanno saputo ritrarre, documenta l'attimo che precede questa paura. Prima cioè che il potente arrivi a nascondersi dietro il "corridoio" dei suoi intermediari. In quest'attimo il volto del potente non esprime null'altro che stupefazione, la stupefazione di fronte al niente in cui, diceva Georges Bataille, la sovranità conclude. carloCome il Carlo V di Tiziano, che negli anni dei suoi successivi ritratti mantiene la bocca socchiusa, testimone di un rigido stupore che va ben oltre la naturale inclinazione del famoso labbro degli Asburgo. L'allucinato Zeise de "L'armada" ci descrive il vecchio imperatore sul cui regno non tramonta mai il sole abbandonarsi al delirio melanconico di chi, anche nei panneggi arabescati della sua camera da letto, vede formarsi il volto di un sosia. L'ossessione del doppio accompagna il sovrano alla morte. Perché la tragedia del potente è la tragedia dell'identità, che solo nell'altro, cioè solo nella contraddizione, riceve riconoscimento e pace. Così, secondo il gioco di un singolare paradosso che ha a che fare, forse, con l'essenza stessa della storia, la sconfitta e non il trionfo restituisce al potente l'unicità del volto e i tratti inimitabili dell'individuo.
Quando, tuttavia, il potere si è già dileguato.

 


 

Andrea Tagliapietra, Il volto del potere, in "XÁOS. Giornale di confine", Anno II, N.1 Marzo-Giugno 2003,
URL: http://www.giornalediconfine.net/anno_2/n_1/6.htm

 
   
 
     

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