Queste parole nascono in modo
spontaneo, fra commozione e ricordi, senza la pretesa di
fornire né un'interpretazione psicologica, né
un saggio di critica letteraria.
Il libro è arrivato nelle mie mani inaspettato, silenzioso
ma ha fatto un gran chiasso in fondo all'anima perché
per la prima volta ho sentito dischiudersi una sensibilità
femminile non vittimistica.
La vera seduzione del testo sta, a parer mio, nella potenza
del coraggio, nella forza assolutamente invincibile dell'amore
e nell'uso colorato e caldo dell'espressione linguistica.
Mi tornano in mente le parole dello scrittore Joseph Conrad:
"Il compito che mi spetta e che cerco di assolvere
è riuscire, col potere della parola scritta, a farvi
udire, a farvi sentire
di riuscire, soprattutto, a
farvi vedere"
E' ciò che ha fatto l'autrice
fin dalle prime pagine, usando la parola in modo sensistico,
come una chiave per spalancare mondi.
Non è stato difficile sentire odori, vedere i colori
dell'Africa, udire le voci agli angoli delle strade soleggiate.
A tratti sembra di poter toccare con la punta delle dita
la stoffa degli abiti, gli intonaci delle case, le gocce
di sudore proprio perché persone e cose, affetti
e paesaggi non sono semplicemente "raccontati"
ma "rappresentati" tanto da interessare tutti
i canali sensoriali; il risultato è che, spesso,
si ha la sensazione di stare dentro le pagine con dei compagni
di viaggio in carne ed ossa.
I colori sono intensi, presenti, quasi un motivo dominante:
il GIALLO dei limoni di Giorgio e delle stoppie del campidano
inonda di luce solare il racconto anche quando cala la sera;
il giallo è scioglimento, è energia, è
"apertura verso l'altro". Questo motivo cromatico
ha dominato tutto il testo che sintetizza l'atto di scioglimento
di un "io" che si apre verso un "tu".
L'autrice, come "il guerriero della luce" di Paulo
Choelo, si mette in viaggio per il mondo "senza bisaccia
e senza sandali" cioè senza progetti prestabiliti,
capace di vivere il "qui ed ora" come un'esperienza
avvolgente, calda, gialla, solare.
C'è qui, innanzitutto, IL VIAGGIO come PERCORSO D'INDIVIDUAZIONE
(pag.9 Cominciava il viaggio della mia vita, in Africa naturalmente.
ed
io non ero mai uscita da quel pezzo di Campidano tra Cagliari
e il Rio Mannu; pag. 14
e d'altronde non sapevo neppure
chi ero io
..cominciai a realizzare che ero lì
per cercarmi). Il viaggio è un percorso interiore
che comporta una progressiva scoperta del sé, un
sé che emerge anche quando tutt'intorno non c'è
niente, come nel deserto e che approda al riconoscimento
dell'unicità fra microcosmo interiore e macrocosmo
sociale. In altri termini è la scoperta di un "mondo
senza confini" (pag. 30
fagocitati in una totalizzante
sensazione di compartecipazione).Così dalle sue parole
passa al lettore un'energia di vita che non progetta ma
vive ciò che le viene offerto in dono con armonia
e totalità: quando l'autrice "srotola un sacco
a pelo", quando medita leggera e si rilassa (pag. 15),
quando fruga nei visi dei bimbi pestiferi e rumorosi di
Algeri, quando ama, lo fa con la completezza della sua persona.
La sua maternità è, ancor prima che una particolare
scelta di vita, una modalità di rapportarsi al mondo
intesa come energia che si apre agli stimoli fecondi della
vita: l'autrice è capace di accogliere dentro di
sé il mondo di paglia e fango, di tetti imbiancati,
di bidonville, di persone con brocche di ceramiche tenute
sulla testa (pag. 23).., di fieno bagnato, di berberi e
beduini, di cagliaritani stanchi sotto il sole di luglio
ed è capace di alimentarlo d'affetti, facendolo crescere
come una creatura nel ventre e poi lo restituisce al lettore
vivo e rinnovato, come se vedesse la luce per la prima volta.
Questo si collega ad un'altra grande tematica: L'ABBANDONO
DELLA RIGIDITA' ed IL RICONOSCIMENTO DELLA DIVERSITA': il
contatto con un paese straniero fa da sfondo alla perdita
della convinzione di poter controllare tutto (pag. 17
era
gente di una dignità sconvolgente
l'Europa,
con le sue rigidità, era sempre più lontana;
pag. 28
la lontananza si dipanava, sciogliendo grumi
di certezze interiori, convinzioni sedimentate, ricordi
e dignità, come un'onda che lavava l'anima e svaniva
come una piena, lasciando ingombranti detriti.)
Quando parliamo di vissuti profondi che accompagnano la
maternità ci riferiamo proprio a questa capacità
di perdere il controllo accettando ed assecondando il dolore,
allargando non solo i confini del nostro corpo ma anche
della nostra anima. La società odierna, edonista
e materialista, proclama in varie forme l'evitamento del
dolore, la necessita di tenere tutto sotto controllo e questo
può aiutare a capire la difficoltà a pensare
alla maternità come una realtà da accogliere.
Questa capacità di sciogliere rigidità, accogliere
il dolore e pensarci come un mondo dai confini più
elastici è tanto più vera se si parla di maternità
adottiva perché il bimbo adottivo è, principalmente,
un bimbo abbandonato e questo in alcuni momenti potrà
sembrargli lacerante e, probabilmente, sarà una ferita
per sempre insanabile, per la quale non saranno sufficienti
1000 discorsi a spiegare perché sua madre non l'abbia
voluto: qui subentra il genitore adottivo cui viene chiesta
la straordinaria capacità di cui si è detto,
quella di sciogliere le proprie rigidità, di riconoscere,
accogliere e contenere il dolore del bimbo accettando anche
la sua insanabilità; se si nega questo si rischia
di operare violenza sul bambino.
Altra grande dote è IL RICONOSCIMENTO DELL'ALTRO,
DEL DIVERSO : la paura della diversità, che si può
manifestare in svariate forme , è di base connessa
alla paura di "perdere l'identità". Quanto
più siamo dotati di un'identità armonica ed
elastica, tanto più possediamo un mondo interiore
dai confini modificabili o addirittura assenti, tanto meno
si teme l'estraneo. Come nella gravidanza biologica anche
in quella adottiva ci si deve per forza "allargare"
fisicamente e psicologicamente, si deve essere capaci di
perdere il controllo per assecondare ed accogliere. L'autrice
ha proprio questa capacità di accogliere e non negare
le radici, quindi grande accettazione della diversità:
a pag. 39, quando descrive Omar per la prima volta, dice
"
e mi sorpresi a pensare che, se mi fosse venuta
in testa l'idea di un figlio, lo avrei voluto così
: scuro, riccioloso e pestifero. Forse è già
da qui che si delinea la magia del vissuto materno, il contatto
con il diverso e l'ignoto e questo è vero soprattutto
quando si parla di maternità adottiva che, a differenza
di quella biologica, non presuppone un investimento narcisistico
perché in essa non si può negare la diversità,
è lì sotto gli occhi di tutti.
Non sempre le persone che vogliono assolutamente avere dei
figli propri se la cavano così, senza alcun danno.
Fiabe di ogni parte del mondo raccontano storie di fertilità
negata e di accanimenti narcisistici cioè di donne
che non desiderano concepire un figlio per amor suo o per
donarlo al mondo ma per il mero soddisfacimento di un personale
bisogno: nella fiaba di Rosaspina la Regina desidera un
figlio per guarire dalla depressione. La versione francese
dice espressamente "C'erano una volta un re ed una
regina che erano molto tristi perché non avevano
figli, così tristi che non si può descrivere".
In una fiaba greca" Ferrandino nella torre di vetro"
l'amore egoistico dei genitori ed il loro desiderio di possesso
diventano simbolicamente visibili: "
Dopo lungo
tempo ed infinite preghiere i due genitori hanno un figlio
e per il grande amore e la paura che, una volta cresciuto
li abbandonasse e andasse via, il re e la regina fecero
costruire una torre di vetro e ve lo rinchiusero. Pochi
vi avevano accesso e non potevano assolutamente parlare
del mondo esterno."
Infinite storie, che raccontano di come spesso il confine
fra amore ed egoismo sia abbastanza sottile ma il messaggio
è molto chiaro: un figlio può essere soltanto
un regalo. Non è buona cosa se le persone, spinte
da deliri di onnipotenza o fantasie narcisistiche, vogliono
avere a tutti i costi un figlio. CHI NON SIA DISPOSTO A
SOFFRIRE PER UN FIGLIO E POI AD ACCETTARE LA SUA INDIPENDENZA
NON PUO' ESSERE GENITORE NEL PROFONDO, semplicemente si
SARA' APPROPRIATO indebitamente della vita di un altro essere
vivente.
L'autrice, come si è detto, andando in un paese diverso,
si è liberata delle sue rigidità (pag. 22
non
era più soltanto l'Europa ad essere lontana ma me
stessa , da quello che ero prima
; pag. 28
La
lontananza si dipanava, sciogliendo grumi di certezze interiori,
convinzioni sedimentate, ricordi e rigidità, come
un'onda che lavava l'anima e svaniva come una piena, lasciando
ingombranti detriti.), predisponendo la sua anima a quei
vissuti profondi che accompagnano la maternità: ma
quando inizia la maternità dell'autrice?
(pag. 52
" Mi sentivo piena come un uovo sodo:
volevo soltanto che quella pienezza non finisse mai").
Dopo essersi sperimentata in veste di colei che accudisce
Omar, il vissuto di maternità come pienezza e completamento
si delinea per la prima volta.
Ad un tratto, da pag. 61 in poi , prende corpo in maniera
quasi impercettibile una svolta: il coraggio della scelta,
il coraggio di pagare il prezzo dei propri sogni, in una
parola il coraggio di essere liberi.
Capire anche dopo 10, 15 anni che "il definitivo ordine
delle cose" è solo un confine immaginario e
che tutto può essere modificato ed ancora modificato
perché non esiste "quiete in quiete". La
vera quiete è il movimento continuo che ci restituisce
l'armonia con noi stessi e con il mondo: seguire i ritmi
del cuore, osare senza paura dell'impopolarità, lasciarsi
invadere, commuoversi, pulsare come un bambino di fronte
alla meraviglia della scoperta, attorcigliarsi alle emozioni
senza il timore di diventare ridicoli. Da questo atto di
coraggio viene alla luce Omar.
Chi è Omar?
E' un'ombra che diventa luce, è un carbone che un
giorno inizia a brillare come un diamante, è il coraggio
che diventa scelta.
Essere madre non può essere ridotto ad una pura esperienza
biologica: è, innanzitutto, una scelta d'amore, uscire
allo scoperto dalle prigioni della propria anima e vibrare
per la vita di un altro; quando si nasce predisposti ad
amare, l'amore si posa su ogni creatura senza distinzione
e, soprattutto, senza la sgradevole pretesa di avere qualcosa
in cambio.
La creatura che ho di fronte prenderà una sua forma,
che non risponderà al mio disegno ed io, in quel
momento, devo essere capace di accettare il suo volo, lontano
da quel nido in cui ci siamo fatti caldo assieme. Vedergli
spiccare il volo non è il segno del mio fallimento:
è il solo, vero dolorosissimo e meraviglioso ATTO
D'AMORE.
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