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ALESSANDRA TILOCCA, "OMAR di P. Basciu"

 

A. Tilocca, Omar di Pasquetta Basciu, in "XÁOS. Giornale di confine", Anno II, N.1 Marzo-Giugno 2003, URL: http://www.giornalediconfine.net/anno_2/n_1/23.htm

 

Queste parole nascono in modo spontaneo, fra commozione e ricordi, senza la pretesa di fornire né un'interpretazione psicologica, né un saggio di critica letteraria.
Il libro è arrivato nelle mie mani inaspettato, silenzioso ma ha fatto un gran chiasso in fondo all'anima perché per la prima volta ho sentito dischiudersi una sensibilità femminile non vittimistica.
La vera seduzione del testo sta, a parer mio, nella potenza del coraggio, nella forza assolutamente invincibile dell'amore e nell'uso colorato e caldo dell'espressione linguistica. Mi tornano in mente le parole dello scrittore Joseph Conrad:
"Il compito che mi spetta e che cerco di assolvere è riuscire, col potere della parola scritta, a farvi udire, a farvi sentire… di riuscire, soprattutto, a farvi vedere"

E' ciò che ha fatto l'autrice fin dalle prime pagine, usando la parola in modo sensistico, come una chiave per spalancare mondi.
Non è stato difficile sentire odori, vedere i colori dell'Africa, udire le voci agli angoli delle strade soleggiate. A tratti sembra di poter toccare con la punta delle dita la stoffa degli abiti, gli intonaci delle case, le gocce di sudore proprio perché persone e cose, affetti e paesaggi non sono semplicemente "raccontati" ma "rappresentati" tanto da interessare tutti i canali sensoriali; il risultato è che, spesso, si ha la sensazione di stare dentro le pagine con dei compagni di viaggio in carne ed ossa.
I colori sono intensi, presenti, quasi un motivo dominante: il GIALLO dei limoni di Giorgio e delle stoppie del campidano inonda di luce solare il racconto anche quando cala la sera; il giallo è scioglimento, è energia, è "apertura verso l'altro". Questo motivo cromatico ha dominato tutto il testo che sintetizza l'atto di scioglimento di un "io" che si apre verso un "tu".
L'autrice, come "il guerriero della luce" di Paulo Choelo, si mette in viaggio per il mondo "senza bisaccia e senza sandali" cioè senza progetti prestabiliti, capace di vivere il "qui ed ora" come un'esperienza avvolgente, calda, gialla, solare.
C'è qui, innanzitutto, IL VIAGGIO come PERCORSO D'INDIVIDUAZIONE (pag.9 Cominciava il viaggio della mia vita, in Africa naturalmente.…ed io non ero mai uscita da quel pezzo di Campidano tra Cagliari e il Rio Mannu; pag. 14…e d'altronde non sapevo neppure chi ero io…..cominciai a realizzare che ero lì per cercarmi). Il viaggio è un percorso interiore che comporta una progressiva scoperta del sé, un sé che emerge anche quando tutt'intorno non c'è niente, come nel deserto e che approda al riconoscimento dell'unicità fra microcosmo interiore e macrocosmo sociale. In altri termini è la scoperta di un "mondo senza confini" (pag. 30…fagocitati in una totalizzante sensazione di compartecipazione).Così dalle sue parole passa al lettore un'energia di vita che non progetta ma vive ciò che le viene offerto in dono con armonia e totalità: quando l'autrice "srotola un sacco a pelo", quando medita leggera e si rilassa (pag. 15), quando fruga nei visi dei bimbi pestiferi e rumorosi di Algeri, quando ama, lo fa con la completezza della sua persona. La sua maternità è, ancor prima che una particolare scelta di vita, una modalità di rapportarsi al mondo intesa come energia che si apre agli stimoli fecondi della vita: l'autrice è capace di accogliere dentro di sé il mondo di paglia e fango, di tetti imbiancati, di bidonville, di persone con brocche di ceramiche tenute sulla testa (pag. 23).., di fieno bagnato, di berberi e beduini, di cagliaritani stanchi sotto il sole di luglio ed è capace di alimentarlo d'affetti, facendolo crescere come una creatura nel ventre e poi lo restituisce al lettore vivo e rinnovato, come se vedesse la luce per la prima volta.
Questo si collega ad un'altra grande tematica: L'ABBANDONO DELLA RIGIDITA' ed IL RICONOSCIMENTO DELLA DIVERSITA': il contatto con un paese straniero fa da sfondo alla perdita della convinzione di poter controllare tutto (pag. 17…era gente di una dignità sconvolgente…l'Europa, con le sue rigidità, era sempre più lontana; pag. 28…la lontananza si dipanava, sciogliendo grumi di certezze interiori, convinzioni sedimentate, ricordi e dignità, come un'onda che lavava l'anima e svaniva come una piena, lasciando ingombranti detriti.)
Quando parliamo di vissuti profondi che accompagnano la maternità ci riferiamo proprio a questa capacità di perdere il controllo accettando ed assecondando il dolore, allargando non solo i confini del nostro corpo ma anche della nostra anima. La società odierna, edonista e materialista, proclama in varie forme l'evitamento del dolore, la necessita di tenere tutto sotto controllo e questo può aiutare a capire la difficoltà a pensare alla maternità come una realtà da accogliere.
Questa capacità di sciogliere rigidità, accogliere il dolore e pensarci come un mondo dai confini più elastici è tanto più vera se si parla di maternità adottiva perché il bimbo adottivo è, principalmente, un bimbo abbandonato e questo in alcuni momenti potrà sembrargli lacerante e, probabilmente, sarà una ferita per sempre insanabile, per la quale non saranno sufficienti 1000 discorsi a spiegare perché sua madre non l'abbia voluto: qui subentra il genitore adottivo cui viene chiesta la straordinaria capacità di cui si è detto, quella di sciogliere le proprie rigidità, di riconoscere, accogliere e contenere il dolore del bimbo accettando anche la sua insanabilità; se si nega questo si rischia di operare violenza sul bambino.
Altra grande dote è IL RICONOSCIMENTO DELL'ALTRO, DEL DIVERSO : la paura della diversità, che si può manifestare in svariate forme , è di base connessa alla paura di "perdere l'identità". Quanto più siamo dotati di un'identità armonica ed elastica, tanto più possediamo un mondo interiore dai confini modificabili o addirittura assenti, tanto meno si teme l'estraneo. Come nella gravidanza biologica anche in quella adottiva ci si deve per forza "allargare" fisicamente e psicologicamente, si deve essere capaci di perdere il controllo per assecondare ed accogliere. L'autrice ha proprio questa capacità di accogliere e non negare le radici, quindi grande accettazione della diversità: a pag. 39, quando descrive Omar per la prima volta, dice "…e mi sorpresi a pensare che, se mi fosse venuta in testa l'idea di un figlio, lo avrei voluto così : scuro, riccioloso e pestifero. Forse è già da qui che si delinea la magia del vissuto materno, il contatto con il diverso e l'ignoto e questo è vero soprattutto quando si parla di maternità adottiva che, a differenza di quella biologica, non presuppone un investimento narcisistico perché in essa non si può negare la diversità, è lì sotto gli occhi di tutti.
Non sempre le persone che vogliono assolutamente avere dei figli propri se la cavano così, senza alcun danno. Fiabe di ogni parte del mondo raccontano storie di fertilità negata e di accanimenti narcisistici cioè di donne che non desiderano concepire un figlio per amor suo o per donarlo al mondo ma per il mero soddisfacimento di un personale bisogno: nella fiaba di Rosaspina la Regina desidera un figlio per guarire dalla depressione. La versione francese dice espressamente "C'erano una volta un re ed una regina che erano molto tristi perché non avevano figli, così tristi che non si può descrivere".
In una fiaba greca" Ferrandino nella torre di vetro" l'amore egoistico dei genitori ed il loro desiderio di possesso diventano simbolicamente visibili: "…Dopo lungo tempo ed infinite preghiere i due genitori hanno un figlio e per il grande amore e la paura che, una volta cresciuto li abbandonasse e andasse via, il re e la regina fecero costruire una torre di vetro e ve lo rinchiusero. Pochi vi avevano accesso e non potevano assolutamente parlare del mondo esterno."
Infinite storie, che raccontano di come spesso il confine fra amore ed egoismo sia abbastanza sottile ma il messaggio è molto chiaro: un figlio può essere soltanto un regalo. Non è buona cosa se le persone, spinte da deliri di onnipotenza o fantasie narcisistiche, vogliono avere a tutti i costi un figlio. CHI NON SIA DISPOSTO A SOFFRIRE PER UN FIGLIO E POI AD ACCETTARE LA SUA INDIPENDENZA NON PUO' ESSERE GENITORE NEL PROFONDO, semplicemente si SARA' APPROPRIATO indebitamente della vita di un altro essere vivente.
L'autrice, come si è detto, andando in un paese diverso, si è liberata delle sue rigidità (pag. 22…non era più soltanto l'Europa ad essere lontana ma me stessa , da quello che ero prima ……; pag. 28…La lontananza si dipanava, sciogliendo grumi di certezze interiori, convinzioni sedimentate, ricordi e rigidità, come un'onda che lavava l'anima e svaniva come una piena, lasciando ingombranti detriti.), predisponendo la sua anima a quei vissuti profondi che accompagnano la maternità: ma quando inizia la maternità dell'autrice?
(pag. 52…" Mi sentivo piena come un uovo sodo: volevo soltanto che quella pienezza non finisse mai"). Dopo essersi sperimentata in veste di colei che accudisce Omar, il vissuto di maternità come pienezza e completamento si delinea per la prima volta.
Ad un tratto, da pag. 61 in poi , prende corpo in maniera quasi impercettibile una svolta: il coraggio della scelta, il coraggio di pagare il prezzo dei propri sogni, in una parola il coraggio di essere liberi.
Capire anche dopo 10, 15 anni che "il definitivo ordine delle cose" è solo un confine immaginario e che tutto può essere modificato ed ancora modificato perché non esiste "quiete in quiete". La vera quiete è il movimento continuo che ci restituisce l'armonia con noi stessi e con il mondo: seguire i ritmi del cuore, osare senza paura dell'impopolarità, lasciarsi invadere, commuoversi, pulsare come un bambino di fronte alla meraviglia della scoperta, attorcigliarsi alle emozioni senza il timore di diventare ridicoli. Da questo atto di coraggio viene alla luce Omar.
Chi è Omar?
E' un'ombra che diventa luce, è un carbone che un giorno inizia a brillare come un diamante, è il coraggio che diventa scelta.
Essere madre non può essere ridotto ad una pura esperienza biologica: è, innanzitutto, una scelta d'amore, uscire allo scoperto dalle prigioni della propria anima e vibrare per la vita di un altro; quando si nasce predisposti ad amare, l'amore si posa su ogni creatura senza distinzione e, soprattutto, senza la sgradevole pretesa di avere qualcosa in cambio.
La creatura che ho di fronte prenderà una sua forma, che non risponderà al mio disegno ed io, in quel momento, devo essere capace di accettare il suo volo, lontano da quel nido in cui ci siamo fatti caldo assieme. Vedergli spiccare il volo non è il segno del mio fallimento: è il solo, vero dolorosissimo e meraviglioso ATTO D'AMORE.