La fine del mondo non è un’oziosa
questione metafisica. Non è nemmeno, come con una certa
malizia si potrebbe supporre, un rompicapo escogitato dall’ingegno
postmoderno. È, più di ogni altra cosa, la risorsa estrema,
forse una delle ultime carte da giocare, della filosofia
occidentale. Un’istanza estrema, che si misura con l’estremo
e il vertiginoso. Non una semplice ed innocente, per quanto
a suo modo spinta, visione del mondo, ma un tentativo di
pensare senza il mondo (qui inteso anche come l’idea kantiana
finemente confutata nella Critica della Ragion pura),
per stabilire che cosa mai possa dire di nuovo la sua rivelazione.
Per pensare, insomma, il mondo al di là del mondo. Non un
oltremondo, perciò, né un regno dei fini ritagliato su misura
per l’uomo di Auschwitz, si tratti pure del sopravvissuto
o del suo responsabile.
Pensare la fine del mondo è ciò che in realtà oggi si fa
tutte le volte che si riflette sul senso della nostra esperienza
storica, sull’attualità o meno delle filosofie della storia
e su ciò che molto riduttivamente si potrebbe intendere
come destino. Dopo Nietzsche, attraverso Heidegger, sino
alle cosiddette “filosofie del postmoderno”, la filosofia
si è qualificata come una forma di pensiero estremo che
aspira in un certo senso a fare del mondo il soggetto di
una rappresentazione senza cornice, l’alter ego delle metanarrazioni,
come le definisce Lyotard, in cui la storia finisce con
l’avere sempre uno sviluppo ordinato e dotato di senso.
Un modo per pensare la fine del mondo è, fra i tanti possibili,
quello del pensiero pensante, il pensiero di pensiero
che non coincide con una sterile appercezione intellettuale,
quasi si trattasse di un aggiornato δαίμων
socratico. Ha un po’ dello sventurato naufrago del Titanic,
questo pensiero che pensa se stesso, costretto a vivere
in un mondo senza orizzonte [1] , a lustrarsi senza potersi specchiare, a resistere sul ponte
di maestra alla forza montante delle onde. È un pensiero
che potrà non piacere, ma è il pensiero (vale a dire la
caratteristica posa speculativa del soggetto postmoderno)
con il quale oggi ancora si è in grado di pensare la fine,
comune a filosofi, poeti, artisti, per molti dei quali l’essere
obliato di cui parla Heidegger non merita di essere riscattato
con la memoria.
Esemplari sotto questo profilo ci sembrano le esperienze
estetiche di Fernando Pessoa, Thomas Bernhard ed Edmond
Jabés, tre scrittori che oggi si tende forse un po’ arbitrariamente
a considerare sub specie philosophiae. Le loro esperienze,
il modo in cui hanno tradotto sotto uno stile che fa tutt’uno
con il suo contenuto l’oggetto delle rispettive visioni
del mondo – e qua weltanschaung non può significare
ideologia – è segno che il pensiero è diventato in
campo letterario l’espressione più alta della dissoluzione,
la diretta sperimentazione sulla propria pelle – quella
dello scrittore che non finge di raccontare se stesso –
della possibilità della fine. È in parte vero che tanta
scrittura letteraria sia oggi perdutamente personale e troppo
coinvolta con le vicende del suo autore, ma ciò non toglie
rilievo al fatto che la scrittura sia sempre più l’ambito
di esercizio di quel tipo di pensiero di cui la filosofia
rivendica da tempo e con urgenza un maggiore controllo.
Come nascondere o spiegare altrimenti la simpatia che i
filosofi dimostrano di avere per Char, Genet, Rilke, per
non parlare dell’Hölderlin heideggeriano, modello di una
propensione filosofica per la poesia che regge ancora il
passo? Lo Juan de la Cruz tanto amato da Edith Stein non
è ad esempio il santo che rivoluzionò gli schemi della religiosità
carmelitana (non solo quelli, comunque), quanto, piuttosto,
il poeta del Canto della notte oscura [2]
? Con ciò si vuole dire che dopo aver gettato la
maschera e tirato le somme della sua rivoluzione copernicana,
la filosofia si è resa debitrice di spazi, risorse e meccanismi
di analisi alla letteratura, da cui attinge a piene mani
e in cui si concede frequenti incursioni. Che ciò non sia
poi così inverosimile lo dimostra proprio la nostra domanda
di partenza (quella che, non ancora formulata, abbiamo semplicemente
voluto lasciare intendere): la fine, la raccontano meglio
i filosofi o gli scrittori di “professione”? possono i filosofi
“raccontarla”? il racconto non tradisce forse un ritorno
a forme di lettura degli eventi del mondo abbondantemente
superate almeno in campo filosofico? Come si può capire,
allora, prendere brevemente in esame i casi di Pessoa, Jabés
e Bernhard (tre autori a noi cari) è un’operazione che non
contraddice affatto il senso del nostro lavoro.
La scrittura contabile di
Bernardo Soares
L’opera nella quale Fernando
Pessoa si sarebbe identificato è quel Livro do Desassossego
[3] che non riuscì (o che forse non
avrebbe mai potuto) realmente completare. Il desassossego,
l’inquietudine che si fa parola, è la condizione limite,
il perno sdrucciolevole e strutturalmente instabile attorno
al quale gravita l’universo pessoano, in cui una strana
forma di indolenza dettata dalla “vecchiaia dell’eterno
nuovo” [4]
, impone l’esigenza di un radicale spossessamento,
un mettersi a nudo dell’anima, per togliersi di dosso, “come
un abito pesante, vicino al grande letto, lo sforzo involontario
di essere” [5] . Operazione tutt’altro che facile e per niente indolore che
ha gia propiziato numerosi tentativi letterari che sarebbe
opportuno non confondere con quello messo in atto da Pessoa,
che cerca, con la penna, di prendere congedo da sé, rinunciando
volontariamente all’inalienabilità del personaggio incarnato
(“spossessandosi”, appunto), malgrado l’uso di eteronomi,
di cui quello di Bernardo Soares, protagonista del Livro,
è la somma che li comprende tutti.
Che cosa significa “spossessarsi”? E perché poi Pessoa avrebbe
trasformato la sua tecnica di scrittura in un “esercizio
apocalittico”? Forse perché “Vivere è essere un altro”
[6] o perché, ma in fondo è la stessa cosa, “è essere oggi il
cadavere vivo di ciò che ieri è stata la vita perduta”
[7] . Verrebbe da pensare ad una forma di malheur letterario,
ad un’esistenza che non si eleva oltre la mediocrità malgrado
lo stato di autentica angoscia, e di estrema solitudine,
in cui versa. Ma non è semplice solitudine, e se lo fosse,
se fosse cioè sensato chiamarla così, coinciderebbe con
uno stato esistenziale ancor più esclusivo.
La mia solitudine non consiste in una ricerca di felicità,
che non ho la forza di raggiungere; né di tranquillità,
che si ottiene soltanto se non la si è mai perduta. Ma è
una ricerca di sonno, di annullamento, di piccola rinuncia
[8] .
D’altronde, il pensiero della fine del mondo attraversa
tutto Pessoa. È un pensiero per così dire riflesso, sdoppiato,
disingannato, follemente vigile, come quello di chi pensa
che non ci sia niente di nuovo da pensare, niente di nuovo
da vedere e che il detto dell’Ecclesiaste – “niente di nuovo
sotto il sole” – tradisca il più beffardo degli assunti
metafisici: l’inessenzialità dell’essere e la vanità del
pensiero che lo riflette. Un gioco di specchi, sul quale
si regge l’onirismo pessoano, il desassossego, per
il quale “l’artificiosità è un modo di assaporare la naturalità”
[9].
Una forma di puro e ingenuo onirismo, nient’altro che questo?
Lo sarebbe potuto essere, se non fosse stato che il sogno
è un accesso abusato, un luogo troppo comune per non essere
anche volgare [10] . Quello che le circostanze esigerebbero è una forma di aristocratico
pudore per “trattare i nostri sogni e i nostri desideri
più segreti in modo altero, en grand seigneur, porre
un’intima delicatezza nel non averne cura” [11] . Vale a dire che, “per poter stare a nostro agio, dobbiamo
ricordarci sempre che siamo costantemente alla presenza
di noi stessi, che non siamo mai soli” [12] .
Sognare, allora. O vivere come se la vita fosse sogno o
“un viaggio sperimentale fatto involontariamente”
[13] . Sognare, allora, senza misura, perché non è possibile alcuna
moderazione. Anche perché smettere di sognare – decidere
realmente di interrompere il sogno così come si smette un
antico vestito – è come decidere di non vivere più e vivere
nello stesso tempo o, per usare le parole che Paul Eluard
riferiva comunque ad altro genere di esperienza, “vivere
e non più vivere”. Non resta che sognare, allora.
Ho sempre sognato molto. Sono stanco di aver sognato, ma
non sono stanco di sognare. Nessuno si stanca di sognare,
perché sognare è dimenticare e il dimenticare non pesa ed
è un sonno senza sogni fatto in stato di veglia. In sogno
ho raggiunto tutti gli scopi. Talvolta mi sono anche risvegliato,
ma cosa importa? Quanti Cesari sono stato! E i gloriosi,
che meschini! Cesare, salvato dalla morte dalla generosità
di un pirata, lo fa crocifiggere appena l’ha catturato dopo
un’accurata ricerca. Napoleone fa il suo testamento a Sant’Elena
e lascia un’eredità a un facinoroso che aveva tentato di
assassinare Wellington. Oh, grandezze, pari alla grandezza
d’animo della dirimpettaia strabica! Oh, grandi uomini della
cuoca di un altro mondo! Quanti Cesari sono stato e sogno
ancora di essere! [14]
Questo è inchiostro apocalittico. E apocalittico è l’atto
della serpe che tenta invano – ma non le resta altro da
fare – che mordersi la coda. Ricerca dell’estremità, di
concavità inesplorabili, votata allo scacco dell’autoderisione.
Ci dica il lettore se nel passo che di seguito proponiamo
si consuma o no tutto il senso residuo della kantiana rivoluzione
copernicana? È o non è l’atto di congedo dal mondo (e qui,
su questa nozione di “mondo”, si potrebbe davvero aprire
una parentesi interminabile) di un soggetto che non sa che
farsene del suo dominio assoluto?
Ma che cosa? Che cosa c’è nell’aria se non l’aria alta,
che non è niente? Che c’è nel cielo se non un colore che
non è suo? Che cosa c’è in quegli stracci men che nuvole,
di cui pur dubito, se non l’incisione di riflessi di luce
di un sole già tramontato? Che cosa c’è in tutto questo
se non io? Ah, ma il tedio è questo, è solo questo. In tutto
questo – cielo, terra, mondo – ciò che c’è in tutto questo
non è se non io! [15]
Il libro diveniente di Edmond
Jabès
L’opera
di Edmond Jabès, poeta ebreo e francese, segue lo sviluppo
di uno spartito a spirale. È come una partitura senza cornice
costituita da una gamma di variazioni tutte incentrate sulla
stessa questione: il Libro. Jabès scrive libri [16]
perché va alla ricerca del Libro, il grande Libro, che può
far giustamente pensare al testo sacro dell’ebraismo, nel
quale cova e si esaurisce l’atto di ogni autentica sovversione.
In Jabès, più che in altri scrittori [17] , si può cogliere quella dimensione apocalittica della scrittura
che è un tratto caratteristico del nostro tempo. Scrittura
che è esercizio di morte, esperienza della fine, ricerca
di nuovo e vecchio senso, subversion [18].
La scrittura o il Libro – termini difficili da distinguere
in un significato appartato – hanno in comune lo stesso
destino, impulso, direzione: la morte. “«Noi andiamo verso
il libro, come si va con certezza alla morte. Ah, chi ci
leggerà dopo di noi?», diceva Reb Stein. La razza si estingue
con l’estremo vocabolo”[19] .
L’esaurimento della parola equivarrebbe all’estinzione della
razza, e, si badi, non solo per inciso, come questo riferimento
non sia affatto innocuo in Jabès. La parola troncata coinciderebbe
con il muto silenzio che non dice più niente. Insomma, la
parola lambisce la morte e, non a caso, “la morte è l’apoteosi
del nome” [20] .
“Nella morte, il vocabolo diventa visibile. È la legge letta.
Questa rinascita del segno è il mistero che denuncia la
scrittura; mistero umano che, senza il libro, nessuno potrebbe
sospettare. Tutte le fasi della creazione sono nella frase.
La morte è la tappa in cui la vita prende un senso, in cui
la perla, al di fuori della collana, prova la sua profonda
e immortale libertà” [21] .
Come dire che (e Jabès lo sostiene realmente) “per il fatto
di rivelare l’oggetto nominandolo, la parola inaugura un’esistenza
mortale” [22] . La parola interrompe la morte, se la morte può dirsi silenzio
assoluto e se mai tale esperienza potrà raccontarsi e diventare
(ma chissà come) parola. “Nel silenzio, per Jabès, siamo
sempre in ascolto della morte” [23].
L’esaltazione del linguaggio (perché a questo complesso
“ufficio” speculativo si riduce in fin dei conti la metapoesia
di Jabès) rivelerebbe superficiali e sorprendenti affinità
con l’Heidegger cultore di Hölderlin, se non fosse però
per la forte connotazione religiosa, e più autenticamente
lirica, in cui Jabès, ebreo scampato ad Auschwitz, immerge
le proprie riflessioni. La facilità del parallelo non è
sfuggita a Vitiello, che, rinvenendo “radici più profonde”
nella scrittura jabèsiana, pensa, sulla scorta di quanto
aveva già annotato Scholem, di scorgere una sua possibile
connessione “alla concezione cabalistica della creazione
come autolimitazione divina” [24] . Basterebbe prendere in esame due passaggi tratti rispettivamente
dal terzo e dal secondo Libro delle interrogazioni per
avere una facile conferma.
“Il destino della parola è il destino delle nostre
passioni. Lo scrittore si interroga all’infinito nell’infinita
solitudine di Dio di cui ha ereditato il gesto spento. Riaccendere,
ogni volta, il gesto divino, questo è il nostro contributo
alla luce. Siamo nel cuore della creazione, assenti nel
Tutto, nel midollo o nei riflessi dell’Assenza, con il Nulla
per risorsa, come mezzo per essere e sopravvivere. Di modo
che, nell’atto creatore, siamo, e sino al superamento, il
Nulla di fronte al Tutto rigeneratore.
Libro del libro escluso e rivendicato.
La parola, di cui fui la meditazione ed il dolore, scopre
che il vero luogo è il non-luogo dove Dio sta, dove risplende
di non essere, di non essere mai stato. Da allora, ogni
interpretazione di Elohim, ogni incontro di Adonai non può
essere che personale; ogni legge che legge individuale,
ogni verità che verità solitaria nel grido che ci strappa.
E ciò nella trasmettibilità di una Verità riconosciuta,
di una legge comune e chiusa” [25] .
“Verrà forse un giorno in cui i vocaboli perderanno
per sempre i vocaboli. Verrà un giorno in cui la poesia
morirà. Sarà l’era del robot e della parola imprigionata.
La sventura degli Ebrei sarà universale” [26] .
La parola è gesto creatore. È λόγος.
Creazione [27] . La si dica pure “Verbo”, ma tenendo conto della possibile
e non esplicitamente dichiarata simpatia di Jabès per le
culture religiose ebraiche ai margini della ortodossia
[28] . La parola imprigionata – l’urlo strozzato di un deportato
che respira l’aria di morte di un campo di sterminio – sarà
la grande sventura. L’ultima parola coinciderà con il gesto
irreparabile. Si capisce allora che “non è la parola scritta
a cancellarci, ma la parola cancellata nella parola”
[29] . Parole, solo in apparenza nuove [30] , che cancellano altre parole, in cui consiste l’humus del
mondo (la ricetta della creazione, se si vuole dare corpo
all’espressione impiegata) e in cui sono possibili il gioco
della con-divisione e la prospettiva dell’alterità, l’essere
straniero e il non essere Dio. Alla parola viene perciò
delegata la più autentica forma di trascendenza. Lo ha sostenuto
Lévinas in rapporto a Maurice Blanchot, nel quale si può
cogliere più di una suggestione jabèsiana (e viceversa,
comunque). “Il dire è Desiderio che l’approssimarsi del
Desiderio esaspera, scava e dove, così, l’approssimarsi
del Desiderabile si allontana. Tale è la modalità della
trascendenza, di ciò che avviene veramente” [31] . Lo ha detto Lévinas – lo ripetiamo – ma poteva dichiararlo
negli stessi termini anche Blanchot, così come lo stesso
Jabès.
Thomas Bernhard: pensare
come scrivere, scrivere come pensare
Se Jabès pratica la sovversione
– modalità “non sospetta” di lettura del Libro – Bernhard
è più incline a quella che lo stesso autore di Korrektur
e Verstörung ha piuttosto chiamato “inversione”,
ma anche “Widerdenken” (“pensare contro”) o “correzione
della correzione”. Pensare contro che cosa – verrebbe da
chiedersi – e quale correzione correggere? In gioco sarebbe
la verità. La sua posta – non molto gradevole sotto il profilo
filosofico – sarebbe la non-verità. In Korrektur
si legge che “la verità è sempre un abisso. La non-verità
è un lassù, un sopra, soltanto la non-verità non è la morte
come verità è la morte, soltanto la non-verità non è l’abisso”
[32]. Eccoci, allora, ancora una volta in presenza di una scrittura
che ha scelto di misurarsi con la morte tentandole però
tutte per non cadere nell’abisso. Optando, quindi, per la
menzogna, la vita, la non-verità. Insomma, Bernhard avrebbe
praticato un uso esorcistico della scrittura. Lo ha creduto
– e, a nostro avviso, non a torto – Giorgio Gargani
[33] , che ne ha ricondotto lo stile ad una forma di espressività
densamente speculativa, perché quello che Bernhard racconterebbe
non sarebbe il pensiero di un oggetto (di un qualsiasi oggetto),
ma, e di questo rende ragione anche l’impianto a spirale
di alcuni suoi romanzi, la cura affannosa e tormentata dello
stesso pensiero [34].
Se “il pensiero è l’inversione di tutte le
verità riconosciute” [35], pensare, per Bernhard e i suoi personaggi, significherà
compiere, attraverso una serie di esercizi speculativi,
una continua e salutare correzione della realtà. Il lettore
di Bernhard può anche avere talvolta la sensazione che le
trame si svolgano attorno ad un soggetto inconsistente e
che tutto si riduca in fin dei conti ad un gioco (ma dove
c’è fiction, si dovrebbe sapere, non c’è vero inganno) di
pure prestazioni cerebrali. Sensazione che è forse un effetto
deliberatamente ricercato dallo stesso Bernhard in A
colpi d’ascia, romanzo del 1984, in cui un personaggio
senza volto e senza nome, identificabile nello stesso autore,
usa il pensiero come un’affilata ascia che sbriciola, senza
risparmio (nemmeno di chi la impugna), tutto ciò su cui
si abbatte. Holzfällen [36]
è un romanzo non facile, in cui potrebbe sembrare
che il vero oggetto della trama sia l’irritazione (e Eine
Erregung, Una irritazione, ne è il sottotitolo),
un moto d’ira contro la decadente e anacronistica Vienna
della seconda metà del Novecento. Si tratta, invece, a ben
guardare, di altro. E cioè di una tecnica del racconto che
assume il ruolo di protagonista, di una serie di pensieri
ininterrotti la cui apparente continuità è data da un puzzle
di frammenti. Una vera e propria “scepsi linguistica”
[37], si potrebbe dire, consistente in una saldatura di impercettibili
interruzioni, malgrado l’apparente e banale contraddizione
in termini. Come dire che pensiero e linguaggio – e il pensiero
è per Bernhard la forma più estrema di linguaggio – non
devono compromettersi con il mondo, tenendosi sempre ben
distanti da questo. Altrimenti come potrebbero rifletterlo
[38], raccontarlo, prenderne le misure? È disincantamento? Esilio
forzato del concetto nel verbo che trattiene a stento la
parola pensata? Sembra, più che altro, un’opera di resistenza
contro la vanità delle cosiddette verità e l’impossibilità
per la parola, che gli dovrebbe dare corpo, di stringerle
e afferrarle. Movendo dalla lettura di Verstörung,
Eugenio Bernardi ha osservato come la “constatazione che
tutto è già stato detto e scritto non porta a un gioco con
le parole e le strutture sintattiche, anzi, continua a indicare,
a ogni aggressione, un margine di resistenza, una reticenza”
[39]. Difficile non essere d’accordo.
La parola perde così ogni carica consolatoria, non sutura
ferite, ma lenisce solo il dolore. Cioè: non è chiamata
a riprodurre il senso di un mondo della cui caduta è semplice
testimone. Non le resta da dire che ciò che non può assolutamente
cambiare, vivendo quasi in bilico (e lo pensa Bernardi
[40] ) tra dissoluzione e trascendenza, nichilismo e vitalismo.
Non è dissoluzione assoluta. Se lo fosse, la parola non
potrebbe raccontare nemmeno sé stessa. E non è nemmeno –
se si vuole dare ragione a quel che in proposito ha scritto
Claudio Magris [41]
– una forma di sopravvivenza residuale al mondo
che non c’è più. È una parola deteriorata, senza speranza,
che si presta ad un esercizio di morte, al racconto di un’esperienza
della fine verso cui si sente inadeguata, come un moto sterile
che non sa esprimere ciò che lo provoca. O, se volessimo
utilizzare le parole che, in Ungenach [42],
il notaio Moro di Gmunden riferisce a Robert Zoiss, potremmo
definire la scrittura bernhardiana come “un’enorme attività
diretta contro la noia… un’insensatezza rivolta contro la
mancanza di senso” [43]. Siamo o non siamo nel punto nave della meno escatologica
delle apocalissi?
[12] Ibid. Nella stessa pagina del
Livro si legge che “L’aristocratico è colui che
non si dimentica mai di non essere mai solo; perciò la
prassi e il protocollo sono appannaggio delle aristocrazie.
Dobbiamo imparare l’aristocrazia interiore. Strappiamola
ai saloni e ai giardini e trasferiamola nella nostra anima
e nella nostra coscienza di esistere. Stiamo sempre al
cospetto di noi stessi in protocolli e prassi, in gesti
studiati e fatti per gli altri”.
[16] “Libri, scrive, ad esempio, Jabès,
il cui destino – immobile avventura – io ho sposato quando
li ho decifrati, quando mi sono identificato in essi fino
a diventare davvero la loro stessa scrittura. Miracolo
reso possibile al prezzo del mio dissolvimento” (Il
libro della sovversione non sospetta, Milano, Feltrinelli,
1984, p. 95).
[17] Non neghiamo di aver pensato al
Blanchot de L’infinito intrattenimento. Scritti
sull’insensato gioco di scrivere (Torino, Einaudi,
1977).
[19] E. Jabès, Il libro delle interrogazioni.
II. Il libro di Yukel, Genova, Marietti, 1988, p.
80.
[23] Ibid, I, p. 92. E
in un’altra pagina del Libro delle interrogazioni
si legge: “Ho voluto, amore mio, chiamarti con un nome
che sfugge alla morte, nome inviolabile, dalle catene
divine.
Ti
ho voluto chiamare «LM». Ero il merito di questo nome
privo di storia, senza età né luce.
Ero,
di fronte a questo nome, con te, senza te. La mia emozione
non era terrena.
Passavo attraverso
la scrittura” (LI, 148).
[24] Vincenzo Vitiello, La scrittura
del frammento. La teologia apofatica di Edmond Jabès,
in “aut aut”, gennaio-febbraio 1991, n. 241, p. 42. Così, più estesamente, Vitiello: “Das Sein entzieht sich. Jabès
ripete Heidegger? No, la sua scrittura ha radici più profonde.
Si connette alla concezione cabalistica della creazione
come autolimitazione divina (Scholem GJ, 41-73). La parola
ebraica tzimtzum (contrazione) nomina l’atto originario
di Dio, che per far essere le cose, il mondo, si è ritirato
in sé. Da questo originario ritrarsi è sorto l’Urraum,
lo spazio originario, lo ‘splendore dell’universo’, il
luogo della rivelatività dell’ente, degli enti. La verità
o disvelatezza, l’αλήθεια,
dell’ente in generale. Die Lichtung des Seins” (p. 42).
[27] “La parola va alla parola per
promuovere prima la frase, poi la pagina, ed infine il
libro: per sopravvivere infatti, essa deve attivamente
contribuire ad emancipare il mondo della parola, essere
un elemento dinamico della sua trasformazione e della
sua unità. All’ombra o a fianco del pensiero, la parola
si unisce a quella che la segue logicamente nell’inflorescenza
della frase, o a quella di cui presagisce la venuta. Ogni
sillaba, ogni lettera di tale parola gioca la sua parte
di noto e d’ignoto nella meditazione o nell’audacia. Il
pensiero assiste ai segreti incontri di vocaboli che ha
provocato; ne favorisce le alleanze ed il proposito sottile,
poiché grazie ad essi o attraverso essi il pensiero si
precisa, si prolunga, supera se stesso, s’inventa, rinuncia
(LI, p. 56).
[28] Cfr. Vincenzo Vitiello, Op.
cit., pp. 33-49, in cui si indica nel “nomadismo radicale”
di Jabès il tramite che lo porterebbe diritto nell’“alveo
del nichilismo europeo”.
[29] Jabès, Uno straniero con, sotto
il braccio, un libro di piccolo formato, Milano, SE,
1991, p. 34.
[30] “Nominiamo ciò che, da sempre,
possiede un nome nascosto. Gli diamo un nome che ci permetterà
di nominarlo; nome della con-divisione” (Ivi, p. 56).
[31] Emmanuel Lévinas, Su
Blanchot, Bari, Palomar, 1994, p. 68.
[32] Bernhard, Korrektur,
Suhrkamp, Frankfurt a M., 1984, p. 361.
[33] Aldo Giorgio Gargani, La frase
infinita. Thomas Bernhard e la cultura austriaca,
Bari, Laterza, 1990.
[34] “Il pensiero, quale esercizio
di inversione e perversione delle verità comuni e usuali,
come pratica della continua correzione che ha l’effetto
di mostrare che tutto è diverso, che tutto è sempre diverso
attraverso la dissoluzione di qualsiasi dato, fatto e
concetto, questo pensiero dunque è il pensiero che incontra
quella che è poi la condizione fondamentale della vicissitudine
da cui è tormentata l’esistenza umana disegnata da Bernhard,
e cioè un mondo che si autodistrugge, che si scompagina
attraverso lacerazioni tormentose, è la natura, che è
una natura crudele, ingannevole, infame, l’amore per la
quale è perversione” (Gargani, Op. cit., p. 33).
[37] Cfr. Gargani, Op. cit.,
p. 29.
[38] “L’immagine, in quanto identificazione
di un’idea con il mondo, costituisce però l’arresto stesso,
la paralisi mortale del pensiero; essa costituisce la
sottrazione delle possibilità alternative sull’oscillazione
delle quali poggia il pensiero stesso, in quanto esso
esiste contro i fatti” (Ivi, p. 16).
[39] Eugenio Bernardi, Prima dell’ultimo
spettacolo, postfazione critica all’edizione italiana
di Verstörung (Perturbamento, Milano, Adelphi,
1981, p. 234).
[42]
T. Bernhard, Ungenach (tr. it. di E. Bernardi),
Torino, Einaudi, 1993.
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