Antonio Di Gennaro
Fabrizio De André: le forme dell’amore
…ma c’è amore un po’ per tutti /
e tutti quanti hanno un amore…
(F. De André, 1975)
1. Premessa
Una pluralità di motivi caratterizza l’esperienza poetica di Fabrizio De André. Idee, sentimenti, avvenimenti prendono forma nello schiudersi della parola in versi. Come d’incanto, frammenti di emozioni si calano e si celano sotto le spoglie di un linguaggio poetico. Storie di uomini e donne, storie di vita raccontate nella fluidità di un testo, spesso accompagnato da pochissime note. Storie di una quotidianità vissuta, lasciata trasparire attraverso le tracce della poesia.
Certo, in quest’universo poetico – come poteva non esserlo – balza in primo piano il tema dell’amore, poetato e “sviscerato” dal De André sotto le sue molteplici sfumature, come amore dei sensi, amore sognato, amore tradito, amore pagato. L’amore come condizione strutturale del nostro essere-al-mondo è analizzato nella complessità e nella problematicità della sua essenza, senza mai smarrirne il carattere propriamente umano. Dall’amore offerto con gratuità e sensualità (1), si passa all’amore venduto per strada (2), lì dove s’incontrano i destini di solitudine di offerente e acquirente, sino ad arrivare poi ad amori sfiorati (3), amori sfioriti (4), amori nutriti unicamente dal ricordo di ciò che è stato (5).
Ciò che è importante evidenziare, sin d’ora, è il fatto che in De André non si ponga una visione unitaria dell’amore, quanto piuttosto una visione polisemica, pluriprospettica. L’amore non si cristallizza in un’idea da cantare, ma in virtù della sua connotazione umana (terrena e finita), segue i molteplici orizzonti della vita. Non un amore in sé, assoluto o ideale, ma amori, vicende d’amore, forme d’amore, ognuna portatrice di un vissuto, di una storia, di un pathos. Per questo motivo, allora, il nostro discorso cercherà di rintracciare “ambiti generali”, “categorie formali” in cui far convergere le diverse esperienze d’amore (amore perduto, amore venduto, amore sognato) col solo intento di poter offrire una possibile chiave interpretativa dei testi del cantautore genovese, senza per questo volerne esaurire la pienezza e la vivacità ermeneutica.
2. L’amore perduto
Il tema dell’amore perduto è presente in numerosi testi e trova, forse, la sua più emblematica rappresentazione in un testo del 1968, intitolato per l’appunto “La canzone dell’amore perduto” di cui riportiamo per intero le parole:
Ricordi sbocciavan le viole
con le nostre parole:
«Non ci lasceremo mai,
mai e poi mai».
Vorrei dirti ora le stesse cose
ma come fan presto amore
ad appassire le rose
così per noi
l’amore che strappa i capelli
è perduto ormai
non resta che qualche svogliata carezza
e un po’ di tenerezza.
E quando ti troverai in mano
quei fiori appassiti
al sole d’un aprile
ormai lontano, li rimpiangerai.
Ma sarà la prima
che incontri per strada che tu coprirai d’oro
per un bacio mai dato
per un amore nuovo.
E sarà la prima che incontri per strada,
che tu coprirai d’oro
per un bacio mai dato
per un amore nuovo.(6)
È evidente, dopo la lettura di questo testo, il nesso tra idealità e realtà, tra il desiderio di eternità e di stasi e l’inesorabile fluire del tempo. L’amore nel tempo è una promessa che va alimentata giorno dopo giorno: “non ci lasceremo mai, / mai e poi mai”, ma al tempo stesso, nonostante questo suo carattere di assolutezza, è soggetto all’estrema possibilità della fine, in virtù della storicità e della finitezza dell’umano. Vi è il rischio che quanto consideravamo imperdibile, vada definitivamente perduto, proprio perché il primo, il vero, non è l’immutabilità di una condizione raggiunta (in sé soltanto un’idea), ma la concretezza del cambiamento, l’inarrestabile fluire del tempo.
L’amore in quanto sforzo, fatica, continua conquista, può essere minacciato dal venir meno di stimoli e interessi e allora lentamente può spegnersi o “appassire” come “le rose”. In ogni caso però, ciò che svanisce può anche rinascere o presentarsi sotto forma diversa. Un nuovo amore, inaspettato, può regalarci quel mondo perduto e ricucire lo stappo insinuatasi tra noi e la vita. La scissione causata dalla perdita improvvisa può essere superata nella magia di un nuovo inizio: “sarà la prima che incontri per strada / che tu coprirai d’oro per un bacio mai dato, / per un amore nuovo”.
Un esito meno rasserenante caratterizza invece una lirica del 1969 “Inverno” ove prevale lo struggimento e il dolore infinito per un rapporto volto ormai al termine:
Sale la nebbia sui prati bianchi
come un cipresso nei camposanti
un campanile che non sembra vero
segna il confine fra la terra e il cielo.
Ma tu che vai, ma tu rimani
vedrai la neve se ne andrà domani
rifioriranno le gioie passate
col vento caldo di un’altra estate.
Anche la luce sembra morire
nell’ombra incerta di un divenire
dove anche l’alba diventa sera
e i volti sembrano teschi di cera.
Ma tu che vai, ma tu rimani
anche la neve morirà domani
l’amore ancora ci passerà vicino
nella stagione del biancospino.
La terra stanca sotto la neve
dorme il silenzio di un sonno greve
l’inverno raccoglie la sua fatica
di mille secoli, da un’alba antica.
Ma tu che stai, perché rimani?
Un altro inverno tornerà domani
cadrà altra neve a consolare i campi
cadrà altra neve sui camposanti. (7)
La fine di un amore provoca in questo caso l’“inverno” della coscienza, paralizzata dal freddo della solitudine e dal presentificarsi della notte. L’“inverno” è la cifra di una precarietà vissuta come perdita di senso, crollo di un “fondamento”, smarrimento di coordinate vitali. Tutto sembra definitivamente compromesso con l’allontanamento dell’amato, per cui, a chi ancora ama, non resta altro che l’implorazione o la supplica: “Ma tu che vai, ma tu rimani”. Nel ritornello finale però, alla disperazione e alla sofferenza si sostituisce la piena accettazione della frattura avvenuta, la presa di coscienza di una realtà in atto, non più modificabile, che richiede soltanto l’accelerazione degli eventi: “Ma tu che stai, perché rimani?”.
Altre canzoni sviluppano il tema dell’amore come “perdita”. Nel testo “Per i tuoi larghi occhi”, ad esempio, l’allontanamento della persona amata è vissuto con apparente distacco:
Io ti dico che mai
il ricordo che in me lascerai
sarà stretto al mio cuore
da un motivo d’amore. (8)
Eppure ciò che s’impone alla fine del testo, è ancora il legame con lo sguardo dell’altro, il ricordo di “occhi” che avrebbero potuto rischiarare una vita:
Ma i tuoi larghi occhi chiari
i tuoi larghi occhi chiari
anche se non verrai
non li scorderò mai. (9)
Infine come non ricordare le tragiche storie d’amore narrate in “La canzone di Marinella” e in “Fila la lana”, testi carichi di malinconia per la scomparsa fisica della persona amata. In entrambi i casi si avverte lo sgomento vissuto dal soggetto, la spasmodica ricerca di tracce in grado di lenire la ferita del cuore:
e lui che non ti volle creder morta
bussò cent’anni ancora alla tua porta. (10)
recitano alcuni versi di “La canzone di Marinella”, e ancora in “Fila la lana”:
Fila la lana, fila i tuoi giorni
illuditi ancora che lui ritorni,
libro di dolci sogni d’amore
chiudi le pagine al suo dolore. (11)
L’amore sottratto, per volontà di un atroce destino, si tramuta, in questo caso, in follia, illusione, folle illusione, in una parola: delirio.
3. L’amore venduto
Il tema dell’amore come mezzo da mercificare costituisce una costante fondamentale all’interno del percorso poetico compiuto dal De André. L’amore si presenta infatti non soltanto come il sentimento puro che lega gli amanti, ma anche come ciò che può essere messo a disposizione in vista di una fruizione temporanea. In De André però, ricordiamolo, manca qualsiasi tipo di giudizio etico in merito alla mercificazione dell’amore, qualsiasi tipo di pre-giudizio verso quel tipo di condotta, considerata dai più, immorale. Chi è costretto a vendere il proprio corpo (sia esso un uomo o una donna) è solamente una vittima della società borghese (12), non un diverso da condannare, ma un individuo, una persona portatrice di emozioni, di una storia interiore spesso caratterizzata da un profondo dolore.
In De André potremmo affermare vi è un’estrema attenzione verso la prostituzione come fenomeno sociale, attenzione che si snoda negli anni da “Via del Campo” (1967), sino ad arrivare a “Prinçesa” (1996). Questo non a caso proprio perché il mondo narrato e cantato dal De André è il mondo della emarginazione, il mondo dei deietti, di tutti coloro che per un destino di vita si sono ritrovati a vivere una vita fatta di sconfitte e di amare delusioni: i “dannati della Terra” (13). Soffermiamo quindi, in primo luogo, la nostra attenzione sul testo di “Via del Campo” e ascoltiamo quanto esso ha da dirci:
Via del Campo c’è una graziosa
gli occhi grandi color di foglia
tutta notte sta sulla soglia
vende a tutti la stessa rosa.
Via del Campo c’è una bambina
con le labbra color rugiada
gli occhi grigi come la strada
nascon fiori dove cammina.
Via del Campo c’è una puttana
gli occhi grandi color di foglia
se di amarla ti vien la voglia
basta prenderla per la mano.
E ti sembra di andar lontano
lei ti guarda con un sorriso
non credevi che il paradiso
fosse solo lì al primo piano.
Via del Campo ci va un illuso
a pregarla di maritare
a vederla salir le scale
fino a quando il balcone ha chiuso.
Ama e ridi se amor risponde
piangi forte se non ti sente
dai diamanti non nasce niente
dal letame nascono i fior. (14)
“Via del Campo” si presenta con un linguaggio semplice e diretto come metafora viva di un luogo ove ha luogo, ogni volta, il consumarsi di uno stesso dramma: quello della solitudine. “Via del Campo” è lo spazio reale e ideale in cui è possibile comprare la finzione di un amore, l’illusione di possedere un’anima e un corpo. “Via del Campo”, ancora, è la fatticità di una condizione precaria, ambigua di una notte vissuta nella “notte” alla ricerca di un po’ di compagnia, o per dirla con Cesare Romana «il ritratto emblematico di una condizione umana, la dimostrazione di quanto possa essere disagevole – oltre che improduttivo – il mestiere di vivere» (15).
Il tema della solitudine costituisce dunque il leit motiv di “Via del Campo”, solitudine esistenziale vissuta tanto dalla “graziosa” quanto dall’“illuso”. Il “sorriso” della “bambina” è infatti un “invito” al “paradiso”, un “invito” a sfuggire, per brevissimi istanti, l’inferno di un vuoto vissuto giorno dopo giorno. Ma anche quel “sorriso” racchiude in sé un aspetto di mistero: esso, offerto come richiamo all’amore, si pone come denuncia di una mancanza, di un amore che non c’è.
Sulla stessa scia di solitudine esistenziale, di disagio e di malessere, si articola poi un testo del 1975, “Nancy”:
Un po’ di tempo fa
Nancy era senza compagnia
all’ultimo spettacolo
con la sua bigiotteria.
Nel palazzo di giustizia
suo padre era innocente
nel palazzo del mistero
non c’era proprio niente
non c’era quasi niente.
Un po’ di tempo fa
eravamo distratti
lei portava calze verdi
dormiva con tutti.
« Ma cosa fai domani »
non lo chiese mai a nessuno
s’innamorò di tutti noi
non proprio di qualcuno
non solo di qualcuno.
E un po’ di tempo fa
col telefono rotto
cercò dal terzo piano
la sua serenità.
Dicevamo che era libera
e nessuno era sincero
non l’avremmo corteggiata mai
nel palazzo del ministero.
E dove mandi i tuoi pensieri adesso
trovi Nancy a fermarli
molti hanno usato il suo corpo
molti hanno pettinato i suoi capelli.
E nel vuoto della notte
quando hai freddo e sei perduto
È ancora Nancy che ti dice
«Amore sono contenta che sei venuto». (16)
“Nancy” è la storia di una ragazza “senza compagnia”, eppure scrive De André “dormiva con tutti”. In questa opposizione di termini tra il “senza” che fissa un bisogno e il “tutti” che identifica una vuotezza dei rapporti, si consuma la tristezza di un’anima. Nancy è certamente una delle figure più fragili e più belle descritte dal De André, una donna sola in cerca soltanto di un po’ di “serenità”. Pur tuttavia, nonostante questa sua costante ricerca di pace, Nancy è sempre pronta ad obliare se stessa, il proprio esser-ci, per donare ad altri l’emozione di un amore.
Come è possibile notare, lo sguardo di De André si spinge sempre a fondo, non resta mai in superfice. Penetra la realtà con occhio critico, cercando di cogliere l’aspetto psicologico dell’individuo, il particolare, l’elemento singolo, il fulcro e il dramma del soggetto nella vita, secondo una prospettiva etica, mai moralistica. “Prinçesa”, ad esempio, vive il disagio di un corpo non suo, che non le appartiene, e sogna un altro corpo: una diversa anatomia. Imprigionata nella fatticità di forme e lineamenti maschili, Prinçesa ricorre al bisturi per “correggere la fortuna” e per riappropriarsi della propria identità femminile, di quella femminilità e di quella sensualità che, nel profondo di sé, sente essere il proprio destino, la propria intima natura. Ora “Fernanda è una bambola di seta”, che finalmente si riconosce nei tratti somatici e nel profilo di donna e che quindi può esprimere e regalare ad un altro il proprio amore:
A un avvocato di Milano
ora Prinçesa regala il cuore
e un passeggiare recidivo
nella penombra di un balcone. (17)
4 L’amore sognato
Eccoci giunti alla terza e ultima sezione di questo breve percorso interpretativo. Dopo aver analizzato l’idea dell’“amore perduto” e di quello “venduto”, ci sembra doveroso soffermare ora la nostra attenzione sull’idea di un amore che non si è mai realizzato, dunque ideale. La canzone che certamente, più di tutte, esprime tale concetto risale al 1974: “Le passanti”.
Io dedico questa canzone
ad ogni donna pensata come amore
in un attimo di libertà:
a quella conosciuta appena,
non c’era tempo e valeva la pena
di perderci un secolo in più.
A quella quasi da immaginare
tanto di fretta l’hai vista passare
dal balcone a un segreto più in là
e ti piace ricordarne il sorriso
che non ti ha fatto e che tu le hai deciso
in un vuoto di felicità.
Alla compagna di viaggio
i suoi occhi il più bel paesaggio
fan sembrare più corto il cammino
e magari sei l’unico a capirla
e la fai scendere senza seguirla
senza averle sfiorato la mano.
A quelle che sono già prese
e che vivendo delle ore deluse
con un uomo ormai troppo cambiato
ti hanno lasciato, inutile pazzia,
vedere il fondo della malinconia
di un avvenire disperato.
Immagini care per qualche istante
sarete presto una folla distante
scavalcate da un ricordo più vicino
per poco che la felicità ritorni
è molto raro che ci si ricordi
degli episodi del cammino.
Ma se la vita smette di aiutarti
è più difficile dimenticarti
di quelle felicità intraviste
dei baci che non si è osato dare
delle occasioni lasciate ad aspettare
degli occhi mai più rivisti.
Allora nei momenti di solitudine
quando il rimpianto diventa abitudine
una maniera di viversi insieme
si piangono le labbra assenti
di tutte le belle passanti
che non siamo riusciti a trattenere. (18)
Il testo “Le passanti” racchiude, attraverso il fluire dei ricordi, l’idea di un amore latente oramai consegnato all’esercizio del rimpianto. È evidente, in questo caso, il riferimento del soggetto alla propria memoria, il ritornare su quanto è stato mediante una rielaborazione di vicende diverse accomunate da uno stesso elemento: l’amore vissuto in potenza.
Il testo si apre con una lunghissima dedica (vv. 1-24) che il poeta rivolge a tutte le donne incontrate lungo il viaggio della propria esistenza. Poche righe per ognuna. Brevi accenni che però lasciano trasparire tutto il naufragio di un’anima sola. Il poeta rivive “le passanti” ricordandone il “sorriso”, gli “occhi”; ognuna è un mondo appena intravisto che non si è mai avuto il coraggio di fermare e di conquistare. Ognuna è un rimpianto per qualcosa che sarebbe potuto accadere e che invece non è mai accaduto.
Molte donne, tanti ricordi, troppi rimpianti. Perché tutto questo? La risposta la ritroviamo in quel “Ma se la vita smette di aiutarti” (v. 31) ove si ravvisa la coscienza dell’impossibilità, la consapevolezza del venir meno di qualsiasi speranza. Riprendendo alcuni versi di Cesare Pavese è possibile affermare che: “Non c’è cosa più amara che l’alba di un giorno / in cui nulla accadrà” (19). Ecco, chi vive di questo mesto sentimento si è già incamminato lungo la strada dei propri ricordi cercando in essi un possibile rifugio alla desolazione del presente. Se è il futuro a venir meno con la sua carica di novità, è il passato ad impegnare il nostro presente, o, detto in altre parole, quando è la speranza a cedere il passo ai ricordi, un unico sbocco attende il nostro vivere quotidiano: “il rimpianto” che “diventa abitudine”.
Nel testo della canzone “Leggenda di Natale”, tratta da Le Père Noël et la petite fille di George Brassens, assistiamo invece alla rappresentazione di un amore immaginato, come qualcosa di puro ed eterno, ma che la realtà ci presenta poi come effimero e crudele.
Parlavi alla luna, giocavi coi fiori
avevi l’età che non porta dolori
e il vento era un mago, la rugiada una dea
nel bosco incantato di ogni tua idea.
E venne l’inverno che uccide il colore
e un Babbo Natale che parlava d’amore
e d’oro e d’argento splendevano i doni
ma gli occhi eran freddi e non erano buoni.
Coprì le tue spalle d’argento e di lana
di perle e smeraldi intrecciò una collana
e mentre incantata lo stavi a guardare
dai piedi ai capelli ti volle baciare.
E adesso che gli altri ti chiamano dea
l’incanto è svanito da ogni tua idea
ma ancora alla luna vorresti narrare
la storia d’un fiore appassito a Natale. (20)
Un’ingenua fanciulla – un’adolescente, “avevi l’età che non porta dolori” –, sogna, forse di incontrare, per la prima volta, un grande amore. L’atmosfera della prima strofa è fiabesca, idilliaca: “…il vento era un mago, la rugiada una dea / nel bosco incantato di ogni tua idea” (vv. 3-4). La giovane attende presumibilmente di innamorarsi, di cadere in amore (to fall in love, secondo l’espressione anglosassone), di incrociare l’altra metà, idealizzata come una candida creatura. Di tutt’altro tono la seconda e le successive strofe. Contrariamente alle attese, alla ragazza non si presenta nessun “principe azzurro”, nessun “angelo dolce”, ma un uomo adulto, subdolo, i cui “occhi eran freddi e non erano buoni” (v. 8).
L’atmosfera magica e solare che caratterizza la prima strofa si dissolve, d’un tratto, diventando sempre più cupa, triste, malinconica, monocromatica: “E venne l’inverno che uccide il colore”. L’uomo seduce/raggira la ragazza e approfitta della sua innocenza: “dai piedi ai capelli ti volle baciare” (v. 12). La fanciulla che parlava “alla luna” e giocava “coi fiori”, scopre l’amara distanza/dissonanza tra i sogni e la realtà, tra i desideri (prodotti dell’immaginazione) e la concretezza del reale vissuto. “Leggenda di Natale” si pone così come la storia di un sogno infranto, di “un fiore appassito”, cifra dell’esistenza di ogni singolo uomo, che sperimenta nello scacco e nel dolore, l’essenza profonda della vita.
5 Quasi una conclusione
Nonostante questa dimensione tragica dell’esistenza, De André sembra lasciarci con un invito, un monito da seguire e applicare: “carpe diem”, come imperativo nell’arte di amare. Seguendo le orme di Ovidio, Orazio e di Nietzsche, De André esorta a vivere la vita nella sua pienezza, senza lasciare nulla di intentato, con “spirito dionisiaco” e responsabilità. La vita, secondo il cantautore genovese, non và teoricamente (e semplicisticamente) “pensata”, ma praticamente (e paticamente) vissuta in tutte le sue sfaccettature, in termini di apertura, possibilità, edonismo e, per dirla con Onfray, in un’ottica di “erotica solare” (21). Rubare alla vita quanto c’è di buono, mettersi in gioco, immergersi nel divenire del mondo e imprimere al mondo la propria impronta, è questo l’insegnamento lasciatoci dal De André. Non sognare e basta, come l’ingenua e meravigliosa Amélie di Jean-Pierre Jeunet (22), ma passare dalla dimensione ideale a quella reale, dall’immaginario al concreto, dal mondo delle idee al mondo della carne. Vivere, soffrire, patire, in prima persona, assertivamente. Amare e ancora amare, perché l’amore è la più grande illusione e la forza più potente in grado di dare un senso alla vita:
Vola il tempo, lo sai che vola e va
forse non ce ne accorgiamo
ma più ancora del tempo che non ha età
siamo noi che ce ne andiamo.
E per questo ti dico amore amor
io t’attenderò ogni sera
ma tu vieni non aspettare ancor
vieni adesso finché è primavera... (23)
(1) Cfr. F. De André, Bocca di rose (1967).
(2) Cfr. F. De André, Via del campo (1967).
(3) Cfr. F. De André, Le passanti (1974).
(4) Cfr. F. De André, Leggenda di Natale (1968).
(5) Cfr. F. De André, Fila la lana (1966).
(6) F. De André, La canzone dell’amore perduto (1968).
(7) F. De André, Inverno (1969).
(8) F. De André, Per i tuoi larghi occhi (1969).
(9) Ibid.
(10) F. De André, La canzone di Marinella (1966).
(11) F. De André, Fila la lana, cit.
(12) Cfr., F. De André, La città vecchia (1966).
(13) Cfr. in particolare: R. Giuffrida-B. Bigoni, Canzoni corsare, in Fabrizio De André. Accordi eretici, Euresis Edizioni, Milano, 1997, pp. 24-26.
(14) F. De André, Via del campo, cit.
(15) C. Romana, Dalla nota di copertina dell’album Volume 1°.
(16) F. De André, Nancy (1975).
(17) F. De André, Prinçesa (1996).
(18) F. De André, Le passanti (1974). In realtà il testo di De André è il riadattamento di una canzone di Georges Brassens “Les passantes” (1972), la quale a sua volta è il riadattamento di una poesia del poeta francese Antoine Pol “Les passantes”, tratta dalla raccolta di versi Émotions poétiques (Éditions du Monde Nouveau, Paris, 1918).
(19) C. Pavese, Lo steddazzu, in Id., Poesie, Einaudi, Torino, p. 104, vv. 10-11.
(20) F. De André, Leggenda di Natale (1968).
(21) Cfr. M. Onfray, Teoria del corpo amoroso, tr. it. di G. De Paola, Fazi Editore, Roma, 2006.
(22) Cfr. Il favoloso mondo di Amélie (Le Fabuleux Destin d’Amélie Poulain), film scritto e diretto da Jean-Pierre Jeunet (2001).
(23) F. De André, Valzer per un amore (1968).
Antonio Di Gennaro, Fabrizio De André: le forme dell’amore in "XÁOS. Giornale di confine", Novembre 2014
URL: http://www.giornalediconfine.net/2014/de_andre_le_forme_dellamore.htm