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Francesca Gruppi

Ultimi incontri con le Sirene


Svetonio racconta che l‟imperatore Tiberio, appassionato di mitologia, usasse mettere alla prova i suoi amici grammatici domandando loro cosa cantassero di solito le Sirene (quid Sirenes cantare sint solitae?). La domanda è insidiosa: nessuno poteva saperlo. Non Orfeo che, nel momento del passaggio di Argo dinnanzi allo scoglio, sovrappose la musica della sua lira alle voci ammalianti delle Sirene (1). Non Enea che, ripercorrendo la rotta di Ulisse attraverso il Mediterraneo, udì soltanto il rumore delle onde infrangersi sulle rocce (2). E neppure Ulisse, che ascoltò soltanto l‟incipit di quel canto e potrebbe addirittura avere mentito di fronte ai Feaci (3).
Sulla natura di quella melodia esistono innumerevoli versioni: dall‟epos omerico ove la voce della Sirena seduce con la parola e con una promessa di conoscenza, alla tesi secondo cui la magia del canto risiede in una pura vocalità «estranea a ogni elaborazione artistica» e a qualsiasi contenuto, simile «alle qualità di spontaneità e irrazionalità proprie dei suoni udibili in natura» (4). Ciò che non è mutato, nel corso dei secoli, è il potenziale significativo del mito, racchiuso nella curiosità di Tiberio e condensato in forma perfetta nell‟episodio dell‟incontro con Odisseo.
D‟altra parte i miti somigliano tutti a sequoie millenarie cresciute aggiungendo al flebile arbusto sempre nuovi strati di corteccia: conservano il proprio nucleo, ma ampliato e mutato dalle successive concrezioni; in tal modo si trasformano nella mappa di una cronologia, proprio come tronchi di alberi secolari solcati da sottili cerchi concentrici. Il contenuto narrativo arcaico del mito si accresce e muta attraverso la ricezione fino ad alterare profondamente il proprio aspetto, serbando tuttavia i tratti e i caratteri che lo rendono riconoscibile. Per utilizzare le parole di Hans Blumenberg, la libertà del mito si declina come «gusto della variazione di fronte al potere della ripetizione» (5); e in tale intreccio di costanza e variabilità, sopravvive nel tempo in quanto espressione e manifestazione di «significatività» (Bedeutsamkeit), ossia di un «rapporto vitale» che possiede uno status di realtà basato sulla riconosciuta «ovvietà» e «familiarità» dei contenuti, sul loro essere parte del mondo fin dagli inizi (6).
Dall‟antichità ai giorni nostri, da Omero a Platone, da Cicerone a Clemente Alessandrino, da Agostino a Montaigne, da Pascoli a Eliot – per citare solo alcuni nomi celebri – l‟episodio di Odisseo e le Sirene è stato interrogato, allegorizzato, riscritto, caricato di infiniti e opposti sensi (7). Vi è anche chi sostiene che le Sirene – figure di contrasto ma dotate di autonomia, diverse, in virtù del segreto del canto, dai mostri che dominavano la terra in età arcaica – siano gli «esseri mitologici meglio adattabili in assoluto alle più diverse esigenze culturali ed artistico-letterarie, e quindi singolarmente pronti ad assumere sempre nuovi valori simbolici a opera di filosofi, teologi, narratori e poeti» (8).
Ma scandagliando questa lunga vicenda vale la pena di indugiare su una data: l‟anno 1917, quando il genio di Franz Kafka si appropria del racconto omerico, gettando lo sguardo nell‟abisso spalancato dall‟enigma di quel canto e dall‟esperienza insondabile di Odisseo. Inaugurando così una stagione di riscritture e interpretazioni filosofiche che – esplicitamente o meno – non potranno prescindere dalla sua rettifica.

Kafka: il silenzio delle Sirene

Nel 1917 Franz Kafka scrive a Zürau un frammento che sarà dato alle stampe dopo la sua morte col titolo Das Schweigen der Sirenen. Nella stesura originale non è che una semplice speculazione, un pensiero o, si potrebbe anche dire, un teorema, preceduto da una vaga indicazione cronologica («23. a letto presto»). Il suo vero titolo è in realtà la frase di apertura: «Dimostrazione del fatto che anche mezzi insufficienti, anzi infantili, possono servire alla salvezza» (9). L‟esempio di cui Kafka si serve per provare il teorema è proprio l‟episodio di Ulisse e le Sirene, ma ancor prima di nominare l‟eroe, egli ha già derubricato le sue rinomate astuzie.
Applicando al mito la sua originale propensione a trasformare il racconto in esegesi, Kafka punta a smascherarne la fragilità e l‟armonia tramite un lieve spostamento d‟accento: dichiarando che «per difendersi dalle Sirene, Odisseo si riempì gli orecchi di cera e si fece incatenare all‟albero maestro» (10), con un trucco a sua volta puerile Kafka rende Odisseo sordo al pari dei propri compagni, introducendo così un sassolino negli ingranaggi del mito. L‟eroe deformato dalla sua penna, cui una precauzione sola non basta più, diviene così «fino in fondo Kafka» (11). A quest‟uomo tanto premuroso manca il coraggio dell‟eroe omerico, che non si accontentava mai di avere semplicemente salva la vita, ma si sottraeva sempre alla morte in extremis onde carpire almeno una parte delle meraviglie e dei segreti che gli sarebbero stati preclusi. Benché nel mondo intero, scrive Kafka, sia noto che il canto delle Sirene penetra e spezza tutto, Odisseo a ciò non pensa, sicuro della sua «manciata di cera» e delle sue catene. La proverbiale astuzia dell‟eroe diventa qui l‟atteggiamento naif di chi si illude di avere scovato soluzioni non ancora praticate, semplicemente perché giudica l‟impresa molto più facile di quanto non sia.
Ma va detto, a difesa di Odisseo, che «anche le Sirene sono Sirene di Kafka»: una specie che, attraverso una mutazione genetica, si assicura la sopravvivenza in un ambiente divenuto più ostile; Sirene contemporanee, che hanno sviluppato un‟arma più terribile del canto, il loro silenzio. Il silenzio è lo strumento più subdolo e potente con cui la divinità può sopraffare l‟uomo, poiché consiste in una finzione di morte (12), astuzia insidiosa che dà all‟uomo l‟illusione inebriante di esserne stato l‟artefice: «al sentimento di averle vinte con la propria forza, e all‟orgoglio che ne discende e che tutto travolge, nulla di terreno può resistere» (13). Gli dèi cessano di mostrarsi nella loro sublime potenza e autorità, si fingono deboli e inducono colui che li affronta a peccare di hybris, trasformando la vittoria presunta in sconfitta definitiva, in accecamento (14).
La parabola kafkiana potrebbe anche concludersi in questo punto, con lo scacco e il naufragio di un soggetto che si crede tanto autosufficiente da non avere più bisogno degli dèi. O del mito. Ma la narrazione prosegue. Anche le Sirene infatti temono Odisseo; se così non fosse non avrebbero sentito il
bisogno di sfoderare la loro arma più letale. Tuttavia ci si può ancora domandare perché le Sirene tacciano: se per infliggere una bruciante mortificazione all‟astuto eroe dinanzi al mondo degli dèi e degli uomini (15), o per ammirazione verso colui che, unico fra i mortali, le ha affrontate grazie al solo ausilio di una corda e un po‟ di cera. In fondo Odisseo è pago della propria capacità di sopravvivenza, ma non certo accecato da un delirio di onnipotenza; passato il pericolo il suo sguardo si volge altrove, senza indugiare sui resti della vittoria consumata. Non sfida apertamente la potenza delle Sirene e in questo modo, forse, rende loro omaggio (16). Ciò che a prima vista sembra mancanza di eroismo nasconderebbe allora un timore da intendersi come devozione verso il divino, più che come meschina codardia. Oppure si tratta solo della stoltezza di chi «non comprende neppure il proprio sguardo, e invece di acquistare conoscenza, dimentica tutto e piomba nella più totale ignoranza» (17). In effetti le due interpretazioni non conducono a esiti contradditori: ciò che importa è che Odisseo si è ingannato, ma ingannando se stesso ha ingannato anche le maliarde; ignaro motore di una curiosa serie di casualità, «è l‟unico uomo che sopravvive alla scomparsa del divino» (18). E le Sirene? «Se avessero avuto coscienza», quella volta sarebbero state annientate; invece rimasero, «soltanto Odisseo riuscì a sfuggir loro» (19).
Fin qui un racconto paradossale nel quale il lieto fine viene accordato solo per caso. Ma c‟è un‟ultima ipotesi, che aprirebbe uno spiraglio di speranza – una speranza, beninteso, tutta kafkiana: la tradizione aggiunge un‟appendice, secondo cui Odisseo era così scaltro «che neppure la dea del destino riusciva a penetrare nelle pieghe più segrete del suo animo»; forse dunque egli si è accorto davvero che le Sirene tacevano e, «a guisa di scudo», ha opposto loro, e agli dèi, una «commedia» (Scheinvorgang), una rappresentazione (20).
Ma che cosa vuole dire allora Kafka? In cosa vuole sperare? Nell‟Odisseo a cui nulla sfugge e che ha previsto ogni possibilità traspare certamente quel «cerimoniale dell‟angoscia» cui Kafka affidava la quotidiana gestione dell‟inquietudine (21). Ma la personalità dell‟autore non emerge soltanto nell‟aver fatto «scivolare il mito nella direzione della debolezza umana» (22). Nel ricorso finale alla commedia, alla pantomima, Odisseo svela la propria identità di alter-ego kafkiano soprattutto in rapporto alla sua attività di narratore e creatore di mondi immaginari. Presagendo e descrivendo l‟avvento di un‟epoca di disumanità, Kafka sa che essa sarà caratterizzata da un‟«erosione del Logos» e da un conseguente imporsi dell‟«autorità del silenzio» (23). O forse, più semplicemente, sa che non c‟è alcun mondo intelligibile, giacché tutto è interpretazione, che spesso la coscienza funge da «alleato inconsapevole» alle potenze esterne nell‟imporre un sistema di intelligibilità, e di fronte a ciò il silenzio può sembrare più potente del rumore (24).

La tentazione che il silenzio esercita su Kafka è fortissima; in tutta la sua produzione egli si pone il problema nei termini più radicali: «il poeta dovrebbe smettere? In un‟epoca in cui gli uomini sono indotti a stridere e squittire le proprie sofferenze come scarafaggi e topi, il discorso letterario, la più umana tra tutte le cose, è ancora possibile? Kafka sapeva che all‟inizio era il Verbo. Egli ci chiede: che cosa c‟è alla fine?» (25). Che si legga il ricorso alla finzione come tacito adeguamento allo stato di cose esistente o, al contrario, come strategia volta a «spezzare il circuito di rumore e silenzio» (26), ciò che non muta è la necessità per lo scrittore di continuare a scrivere. Sebbene si tratti di un compito paradossale, «l‟esilio dell‟uomo dalla verità e della verità dall‟uomo» va testimoniato (27). Per questo Ulisse è l‟eroe kafkiano per eccellenza: colui che «ha, sì, smarrito la strada ed è preda dei mostri ripugnanti partoriti dalla sua solitudine, ma conosce ancora il piacere della poesia, ha ancora voglia di sfidare il silenzio delle Sirene» (28). Sebbene il silenzio sia la più grande tentazione, egli passa oltre, ne abbandona il richiamo e lo muta in commedia, ovvero in quella forma del narrare capace di ridere della propria natura fittizia: «al circo si rappresenta oggi una grande pantomima, una pantomima d‟acqua, l‟intera pista verrà inondata, Poseidone correrà sulle acque col suo seguito, comparirà la nave di Odisseo e le Sirene canteranno, poi Venere sorgerà nuda dai flutti; questa scena costituirà il passaggio alla rappresentazione della vita nella stanza da bagno di una famiglia moderna» (29).

Brecht: la menzogna di Ulisse

Bertolt Brecht procede nel solco tracciato da Kafka (30), ma è altresì convinto che la sua rettifica abbia perso credibilità «ai nostri tempi». Del racconto kafkiano accoglie la messa in dubbio della veridicità dell‟episodio epico, ripristinando però la gerarchia omerica che voleva l‟eroe unico del proprio equipaggio a godere della libertà di udire il canto delle Sirene: giunto nei pressi dell‟isola, Odisseo si fa legare all‟albero della nave e tura ai compagni le orecchie con la cera, in modo da poter soddisfare il proprio «gusto per l‟arte» (Kunstgenuβ) senza gravi conseguenze. Così i servi resi sordi assistono, remando, alla scena muta delle seducenti gole femminili che si gonfiano e dell‟uomo che stretto all‟albero maestro, si contorce per liberarsene; di fronte ai loro occhi ogni cosa sembra svolgersi come previsto, tanto che «l‟intera antichità ha creduto al successo dello stratagemma dell‟astuto». Ma allora, si domanda Brecht, «dovevo essere io il primo a dubitarne?» (31). Come sa egli stesso, i dubbi erano già venuti a Kafka, il quale tuttavia, individuando il tratto orrorifico delle Sirene nel silenzio, aveva consentito a Odisseo di sfuggirvi attraverso l‟illusione del canto (32) o addirittura grazie a un‟astuzia superiore. Brecht non accorda all‟eroe nessuna di queste possibilità: il suo Odisseo è un ometto meschino, che ha recitato la commedia davanti ai compagni e ai Feaci solo per celare il proprio imbarazzo. Egli assicura che le Sirene cantassero, tuttavia sembra improbabile che quelle donne potenti ed esperte abbiano davvero «sprecato la loro arte per gente che non godeva di alcuna libertà di movimento». Con una domanda retorica, Brecht si chiede allora se possa mai essere questa l‟essenza dell‟arte. È convinto che le gole che i rematori videro gonfiarsi urlassero insulti, con tutta la loro forza, «contro quel provinciale così maledettamente circospetto» e che Odisseo si desse da fare nell‟eseguire le sue contorsioni «semplicemente perché anche lui, all‟ultimo, provava vergogna» (33). Rispetto all‟epos omerico e alla versione kafkiana, la sensibilità delle Sirene cambia completamente. Non è certo il timore, né la meraviglia, ma il disprezzo che fa decidere loro di non offrire la propria arte a chi pretenda di saggiarla senza esserne sedotto (34). I rapporti di forza si invertono e il tentativo del soggetto di padroneggiare la realtà coi propri mezzi improvvisati è avvertito come una rinuncia e una perdita di autenticità.
Sostenere che Ulisse sia un simulatore significa introdurre un cortocircuito nella trasmissione del racconto, smentire la riuscita del ciclo virtuoso del mito e, più in generale, di ogni forma di narrazione. Omero intendeva la propria arte come direttamente ispirata dalla Musa, la quale non avrebbe mai potuto ingannare il poeta né essere fraintesa; egli sapeva che il canto aedico era in relazione con la conoscenza divina nella forma di una riduzione, ma non di una mistificazione, perché rendeva pur sempre disponibile agli uomini una porzione di verità e – cosa ancor più importante – ciò bastava loro. L‟effetto di coinvolgimento emotivo e coesione sociale affidato all‟epica veniva così garantito. Se l‟epos sapeva sovrapporre il racconto al canto inaudito delle Sirene, trasformandolo in parola udibile e addomesticabile, ora la finzione mitica e narrativa sembra non essere più capace di allontanare la domanda a cui non si può rispondere: che cosa cantano, davvero, le Sirene? La chiusura armonica del cerchio, la riuscita di tutte le imprese odissiache, è divenuta definitivamente incredibile. Nessuna fonte divina l‟assicura. Quale deve, quale può essere allora, in uno scenario disabitato dagli dèi, la funzione dell‟arte? Può ereditare il lavoro del mito, o soltanto testimoniarne l‟inefficacia? É in rapporto con la verità o si limita a denunciare la falsità?
Ma la questione per Brecht – allorché si domanda: «è questa l‟essenza dell‟arte?» – è piuttosto un‟altra: è ancora possibile la poesia in assenza di un pubblico che accetti di venirne coinvolto? Che fine ha fatto la dimensione comunicativa, partecipativa e coesiva dell‟arte? Come può essa restare ciò che era di fronte a un uditorio di distratti e circospetti «provinciali» che – al pari di Odisseo – non sono capaci che di un godimento futile, passeggero, superficiale? Non è costretta, a tali condizioni, a trasformarsi in grido scomposto, in verso rabbioso, in insulto?

Benjamin e Adorno: astuzia della favola o compito paradossale dell’arte?

Il Kafka di Walter Benjamin viene pubblicato nel 1934 e comprende una lettura molto significativa del racconto sul silenzio delle Sirene, che evoca a sua volta i motivi e i temi fondamentali del pensiero benjaminiano: il mito e la favola, la contemporaneità e la preistoria, il diritto e la salvezza. Prima di Horkheimer e Adorno, Benjamin ha già riconosciuto come un segno di crisi il riproporsi di elementi mitici in seno alla modernità. L‟ordine del mito – soggiogato alla «legge senza nome» del destino che riduce la vita a «umana natura» e le strappa un «debito infinito», intimamente intrecciato alla colpa e impermeabile alla felicità come forza di disgregazione e opposizione, regolato dal tempo dell‟eterno ritorno (35) – sopravvive entro il moderno in molteplici forme. È depositato nello spirito del diritto, nel feticismo della merce, nelle utopie irrealizzate della città moderna, nel connubio tra ripetizione e progresso che scandisce la moda (36).
Nell‟opera pur „fallimentare‟ e privata di Kafka vengono appunto alla luce gli elementi mitici e arcaici di un tempo che si rappresenta come assolutamente nuovo; il suo limite sta però nel non aver saputo pensare la redenzione in rapporto al proprio contesto di riferimento, nell‟aver riservato la salvezza alle creature intermedie, inclassificabili, incompiute, che si muovono negli spazi percorribili dell‟universo che le circonda, senza tuttavia potervi incidere. Eppure, sebbene non abbia trovato una speranza «per noi», Kafka ha intravisto a tratti un percorso praticabile. Per questo – scrive Benjamin – è in relazione con l‟universo del destino in maniera analoga a come lo fu Odisseo: si è comportato, nei confronti del mito, come questi dinnanzi al canto delle Sirene: «non ha ceduto alle sue lusinghe» (37). Odisseo, secondo la versione kafkiana, ha lasciato che le potenze mitiche scivolassero via lungo il suo sguardo già rapito da un altrove.
Le Sirene sono figure emblematiche dell‟universo mitico e dei suoi nessi coercitivi e violenti. Ulisse invece, cui Benjamin guarda con ammirazione, sta già varcando la soglia che consente di abbandonare il mondo mitico per accedere a un‟altra dimensione. La parabola kafkiana priva le Sirene della voce proprio perché raffigurano il nesso di colpa e destino, perché «la musica e il canto sono un‟espressione, o almeno un pegno di salvezza» (38) e il mondo del mito non ammette salvezza alcuna. Il destino di morte, in cui incorre chiunque si avvicini alle Sirene, risponde precisamente alla norma della ripetizione infinita di una colpa alla quale nessuno può scampare; ogniqualvolta essa venga applicata, il potere mitico conferma se stesso e sull‟agire dell‟uomo si imprime «il sigillo della necessità» (39).
Eppure questa fatalità apparentemente inappellabile è soggetta a momenti di crisi, è infranta da azioni di resistenza. La prima forma di opposizione si registra, secondo Benjamin, nella tragedia antica, ove l‟eroe alza la testa contro il destino e assume la colpa su di sé con gesto libero e risoluto, interiorizzandola nella coscienza, trasformandola in «bene interiore» e scampando così alla «soggezione demoniaca» (40). Ma di tragico, a dire il vero, Ulisse non ha nulla. La sua via di fuga dinnanzi ai decreti divini non passa mai attraverso un confronto a viso aperto; non di meno egli scampa al potere mitico. In che modo? «Ulisse è sulla soglia che divide il mito e la favola» (41). La favola è da sempre, forse ancor prima della tragedia, la miglior consigliera dell‟umanità. Gli eventi meravigliosi che narra, la magia della promessa di felicità che sempre la conclude, mostrano l‟esito trionfale della contestazione umana nei confronti dell‟«angustia del mito». «La favola c‟informa delle prime disposizioni prese dall‟umanità per scuotere l‟incubo che il mito le faceva gravare sul petto» (42), operando mediante la finzione e l‟astuzia, minimizza il carattere pericoloso della realtà e lo mette in ridicolo, mostra il volto semplice e innocuo di
ciò che a prima vista appare terribile. La favola ci fa vedere «nel tipo dello sciocco, come l‟umanità si “finga tonta” davanti al mito; […] ci fa vedere, nella figura dell‟astuto, che le questioni che il mito ci pone sono semplici come quella della Sfinge […]. Il meglio – ha insegnato la favola anticamente all‟umanità […] – è affrontare le potenze del mondo mitico con astuzia e impertinenza» (43).
L‟astuzia con cui Odisseo si salva dalle insidie e l‟impertinenza con la quale sbeffeggia e aggira le norme divine fanno già parte di questo atteggiamento, sebbene egli conduca le proprie imprese all‟interno di un universo ancora completamente mitico. Con lui «ragione e astuzia hanno inserito nel mito le loro finte; le sue potenze non sono più invincibili. La favola è il ricordo della vittoria su di esse» (44). Benjamin sposa così l‟ipotesi conclusiva del racconto kafkiano, secondo la quale non una sciocca incoscienza, ma l‟acume più fine ha consentito a Ulisse di passare indenne davanti alle silenziose Sirene. L‟astuto greco – che qui non viene mai chiamato «eroe» – ha recitato agli dèi una commedia e grazie a ciò si è salvato. I mezzi «puerili e insufficienti» cui ricorre non costituiscono un motivo di discredito, poiché appartengono all‟universo fiabesco che con la furbizia e l‟incanto dei bambini mette in scacco le potenze mitiche.
Sebbene Kafka abbia aperto solo flebili spiragli alla redenzione, egli – seguendo i consigli di Ulisse – ha intuito la strada dialettica verso la liberazione dal carattere mitico del moderno, allorché «si è proposto di scrivere delle leggende», come il breve racconto sul silenzio delle Sirene. Esso è realmente una «favola per dialettici» (45), un suggerimento lasciato a chi voglia affrontare il presente non con lo sguardo meccanico della ragione calcolatrice, ma con l‟astuzia liberatoria propria del racconto di fate, capace di «liberare e redimere momenti utopici autentici sepolti in forme mitiche, […] accendendo ciò che può prendere fuoco ed è segretamente nascosto» (46).
Il lavoro euristico di Theodor W. Adorno e Max Horkheimer sull‟epos, la loro ricerca «archeologica» sulla razionalità e sulla «preistoria della soggettività borghese», costituiscono il punto cardine di un‟«indagine storico-genetica» (47) volta a scandagliare quell‟«intrico di mito e illuminismo» (48) che già Benjamin aveva riconosciuto. Anche qui il mito viene inteso come giustificazione dell‟esistente tramite la relazione simbolica con una «preistoria favolosa» (49), come regno della coazione, dell‟ineluttabilità e del nesso tra destino e «rappresaglia» (50). L‟epos omerico, in particolare l‟Odissea, si pone però a metà strada tra il pensiero mitico da cui attinge e la mentalità illuministica di cui preconizza la nascita.
Ciò conduce a esiti molto distanti da quelli benjaminiani, ove gli stratagemmi di Odisseo venivano ricondotti al mondo della favola. Nella lettura adorniana il nostos di Odisseo è un viaggio «attraverso il mondo del mito verso l‟autoconsapevolezza e l‟identità» (51), un cammino volto a costruire la propria autonomia affrancandosi da ogni legame di dipendenza esterna o interna, tramite l‟affinamento della ragione strumentale. Il mezzo cui Odisseo ricorre per sfuggire alle forze esteriori è sempre l‟astuzia, la metis, quella forma di «accorta prudenza» volta al successo nel campo dell‟azione (52); essa però – anziché insinuare, come voleva Benjamin, le sue salutari finte nei rapporti mitici eternizzati – mantiene un legame indissolubile col sacrificio: scaltro è innanzitutto colui che sa rinunciare a un bene presente per ottenerne in seguito uno maggiore.
L‟episodio delle Sirene rispecchia altresì un preciso atteggiamento nei confronti della dimensione temporale. Pur imbrigliate nella legge mitica del destino e della ripetizione, le Sirene rinviano allo stadio fusionale mimetico da cui il mito si sta progressivamente allontanando. In quest‟ambivalenza risiede la ragione del canto meraviglioso che Benjamin, attraverso Kafka, aveva loro sottratto. Come le creature incontrate precedentemente, anche le Sirene rappresentano per Odisseo la tentazione «di perdersi nel passato», un passato vivente, non imprigionato e reso innocuo dalla sublimazione estetica o dal depotenziamento del racconto. Il canto delle Sirene non è ancora ridotto a pura manifestazione artistica, poiché esso è veicolo di «tutto ciò che avviene sulla terra ferace»: contiene un portato di conoscenza che rievoca eventi recentissimi nell‟esperienza di un soggetto appena nato, minacciando con la sua irresistibile promessa di piacere l‟ordine patriarcale. La resistenza alle lusinghe dissolutrici delle Sirene si attua allora come imposizione di una struttura cronologica lineare e tripartita, che esclude la circolarità dell‟eterno ritorno e la possibilità di rivivere ciò che è già stato. Si tratta di una rimozione originaria nella quale il sacrificio si identifica con la «cronologia»: le catene e la cera, grazie a cui Ulisse e i suoi compagni si salvano, fungono come un «incatenamento del tempo» che sostituisce al fascino del passato mitico «la povertà di quella che Proust chiama la “memoria volontaria”» (53).
Legato e immobilizzato, Odisseo presta ascolto alle Sirene senza pagare il prezzo della dissoluzione di sé, ma si tratta ormai di una forma di godimento «ridotto e neutralizzato», trasformato nel «rimpianto di chi prosegue» (54) senza fermarsi. All‟arte viene così inflitta una ferita che la segnerà in eterno. Ascoltando il canto senza esserne assorbito e avvinto, Odisseo lo tiene «lontano dalla prassi», trasformandolo definitivamente in esperienza estetica: «l‟incatenato assiste a un concerto, immobile come i futuri ascoltatori, e il suo grido appassionato, la sua richiesta di liberazione, muore già in un applauso» (55).
Il comportamento di Odisseo preconizza già l‟atteggiamento patologico del «regresso dell‟ascolto» (56) tipico di un‟epoca in cui l‟arte si è pervertita in «patrimonio culturale», l‟assenza di partecipazione dei consumatori dell‟«industria culturale» nell‟epoca del capitalismo completamente dispiegato. Non solo: l‟obiettivo in nome del quale il borghese Odisseo reprime una parte di sé è perseguibile solo a condizione di un‟inibizione maggiore imposta ai suoi compagni. Così, nel momento in cui l‟attività artistica si rivolge a una minoranza privilegiata, si macchia di una «colpevolezza irreparabile», trasformandosi in lusso e privilegio di una classe (57).
Eppure il canto ferito delle Sirene contiene anche l‟unica occasione di riscatto dell‟arte. Testimoniando l‟assurdità di cui la civiltà la costringe a soffrire, essa la può trasformare in ispirazione. Abolendo la distanza di sicurezza dello spettatore disinteressato, ma rifiutando al contempo il dissenso aperto – che verrebbe immediatamente «registrato nella sua differenza dall‟apparato dell‟industria
culturale» (58) – l‟opera può decifrare «la legge infame», coattiva, che regola la società e di cui l‟arte stessa si è resa complice. Solo in questa forma, che già affiora nel canto di dolore delle Sirene, può tornare a costituire, dinnanzi ai traumi della società contemporanea, una «protesta contro una condizione sociale che ogni singolo sperimenta come a lui estranea, fredda, nemica, opprimente» (59). Come compito doloroso e paradossale, essa deve fare a meno della consolazione della distanza di sicurezza, che stempera l‟orrore col ricorso rassicurante al «c‟era una volta», trasformando l‟epos in romanzo e così in favola.

Blanchot e Foucault: l’incontro con l’immaginario e il pensiero del fuori

Quasi certamente influenzato dal racconto di Kafka (60), Maurice Blanchot torna a domandarsi che cosa cantino le Sirene, o meglio, se si possa attribuire loro un vero e proprio canto e non piuttosto qualcosa di simile a un preludio, un‟ouverture, una promessa – peraltro impossibile da mantenere: «pare» – dunque non è detto – che le Sirene cantassero, ma «in un modo che non soddisfaceva, che lasciava appena intendere in quale direzione si aprissero le vere sorgenti e la vera felicità del canto» (61). Omero conosceva e rispettava quell‟insoddisfazione, allorché scrisse le parole: «vieni, celebre Odisseo, grande gloria degli Achei,/ e ferma la nave, perché di noi due tu possa udire la voce» (62); la udrai dunque, la potrai presto udire, sebbene ora non si tratti ancora di questo, ma solo dell‟annuncio di qualcosa che giungerà. Questi „canti preliminari‟, le poche righe in cui le Sirene avvicinano l‟eroe alludendo alla vastità del loro sapere, non sono che «canti imperfetti», canti «ancora a venire», voci che indicano soltanto una direzione, che guidano il navigante «verso lo spazio dove il canto può cominciare veramente» (63).
Il canto difettoso delle Sirene, capace di rapire col solo invito a perdersi nell‟abisso aperto da ogni parola, è esso stesso una «navigazione», una distanza che rivela la possibilità di essere percorsa e accende l‟insopprimibile desiderio di arrivare fino in fondo. Tuttavia, il traguardo cui conduce somiglia a un gorgo che risucchia; è al tempo stesso il limite estremo e la sorgente della musica, della parola: come le gradazioni cromatiche sgorgano e spariscono nell‟assenza di colore, così l‟al di là meraviglioso, meta e fonte di ogni canto, rappresenta «un deserto, come se la regione-madre della musica fosse […] il solo luogo privo di musica, un luogo di aridità dove il silenzio, come il rumore, [brucia], in chi vi si [è] trovato disposto, ogni via di accesso al canto» (64). Questa estremità, che Blanchot chiama «il fuori», è al contempo l‟essenza nascosta e il confine più remoto del nostro linguaggio, che prima di essere logos, discorso che veicola l‟interiorità di una coscienza, è parola in cui la realtà, le cose e il soggetto stesso dileguano; potenza neutrale e anonima che corrode e dissolve scivolando verso il Neutro e la «passività» in cui la parola tende verso il silenzio e l‟indicibilità.
Lo scrittore è un sopravvissuto, come Ulisse; un reduce che scampa al fondo scuro in cui nasce e muore il linguaggio, al regno del silenzio, per consegnare la sua opera al giorno (65). Quell‟esteriorità verso cui egli è attratto fino alla perdita della volontà è a sua volta la fonte notturna dell‟ispirazione, lo spazio dell‟immaginario, che intrattiene con la realtà una relazione di «somiglianza», ma sotto la forma di una radicale alterità: l‟immagine non è il luogo in cui si deposita il senso di un oggetto per tramite di una coscienza, ma un altrove irriducibile in cui l‟identità, specchiandosi, si espone alla vertigine e si perde; in tal senso ogni poeta è Narciso, non perché la creazione – romanticamente intesa – sia il luogo in cui si realizza una soggettività assoluta, ma nella misura in cui «Narciso è anti-Narciso: colui che, sviato da sé, portando e sopportando lo sviamento, morendo del fatto di non-riconoscersi, lascia la traccia di quel che non ha avuto luogo» (66).
Solo nelle parole di Omero avviene l‟incontro di Ulisse con le Sirene; in tal senso il racconto non è mai relazione di un evento, ma evento in sé, anzi, evento ancora a venire. A sua volta però la narrazione di Omero non è altro che il movimento compiuto da Ulisse nello spazio aperto dal canto delle Sirene, poiché la «legge segreta del racconto» consiste nella navigazione incosciente verso l‟orizzonte ignoto del fuori, in cui l‟avvenimento è chiamato a prodursi. O meglio, l‟esperienza della scrittura oscilla tra una forma batailleana di dispendio e noncuranza, simile al gesto imprudente con cui Orfeo volge lo sguardo verso la «notte» – la profondità infera ove appare e subito svapora il volto invisibile di Euridice (67) – e la prudenza astuta e ostinata di Ulisse che, ingannando il canto delle Sirene, completa l‟opera e tuttavia tradisce e svaluta l‟arte tramite un godimento mediocre (68). L‟arte è infatti legata al canto delle Sirene non perché intrattenga una relazione di dipendenza e distacco con una forma primitiva di fusione tra l‟io e la natura, ma poiché rinvia e deriva da un‟esteriorità assoluta dalla quale tuttavia deve riemergere se vuole dare vita a un‟opera. La letteratura apre al non-vero, ma non nella forma della falsa totalità che implica rinunce e rimozioni, bensì perché sbocca sull‟impensabile, sulla presenza di un‟assenza, su un non-luogo la cui impersonalità «è quella del silenzio che segue alla dipartita degli dèi» (69).
Michel Foucault, sulla scia di Blanchot, intende il fuori come il luogo in cui il soggetto si scopre infondato e si dissolve, ma fa al contempo esperienza della più autentica forma di libertà. Così, se nella dialettica negativa e sigillata di Adorno il Sé, fondandosi, si annienta, nel «pensiero del fuori» foucaultiano esso, perdendosi, si scopre libero di creare costantemente se stesso. La letteratura contemporanea – ormai molto vicina alla sua fonte, al «rumore inquietante» che mormora «al fondo del linguaggio» (70) – intrattiene un rapporto costitutivo con la «trasgressione» e con una certa forma di follia: benché mai fisso e sempre declinato in un particolare regime discorsivo, il linguaggio è una struttura, o meglio un dispositivo dotato di un codice, di un insieme di regole valide al suo interno. La scrittura, comunemente intesa come produzione da parte di un autore di un‟opera entro il discorso dominante, è in realtà potenzialmente «linguaggio delirante» che si rimette incessantemente in moto, «gioco che oltrepassa infallibilmente le proprie regole, passando così all‟esterno» (71). Come «follia del fuori» essa non è parola di verità che svela il senso nascosto delle cose, né parola autobiografica di una coscienza personale, ma gesto sovversivo che distrugge l‟ordine su cui riposa il linguaggio (72) e rimanda a un‟esteriorità radicale. Al di sopra e al di là delle stratificazioni storiche in cui l‟enunciabile e il visibile si condensano, il «fuori informale» si agita come una «battaglia», una «zona di turbolenza ciclonica» in cui si muovono e si scontrano echi sonori e pulviscoli visivi; è il «dominio dei doppi incerti e delle morti parziali, delle emergenze e delle evanescenze» e, per ciò stesso, delle resistenze in grado di «modificare il diagramma instabile», delle «singolarità selvagge» che rendono la linea del fuori una «linea di vita», di cambiamento (73).
Attraendo a sé l‟interiorità, il fuori la scava e la priva del suo diritto a dire «Io», facendo così albergare al suo interno l‟anonimato del linguaggio; in tal senso la lontananza più inaccessibile coincide con la presenza prossima di un «doppio», un «compagno», un Lui neutro che si sovrappone all‟Io parlante. Pertanto, rileggendo Blanchot, Foucault può dire che «tendere l‟orecchio verso la voce argentina delle Sirene», significa «sentire d‟un tratto crescere in sé il deserto all‟altra estremità del quale […] scintilla un linguaggio senza soggetto assegnabile, […] un altro che è lo stesso» (74). Ma soprattutto navigare verso le Sirene, o cercare con lo sguardo il volto di Euridice, ha a che fare con l‟attrazione nella forma di una distrazione nei confronti della legge, di una «negligenza» il cui rovescio è la massima forma di «zelo»: ciò che brilla, nella lontananza del canto sirenico, è la proibizione di udire quanto esso si impegna a dire; per questo è vero che Ulisse, rifiutando di ascoltare il canto futuro, si assicura la sopravvivenza e, insieme, un racconto possibile, compiuto. Eppure «può darsi che sotto il racconto trionfante di Ulisse regni il pianto inudibile per non aver ascoltato meglio e più a lungo, per non essersi immerso il più vicino possibile alla mirabile voce, là dove il canto forse si sarebbe compiuto. E sotto il pianto di Orfeo splende la gloria d‟aver visto, per un solo istante, il volto inaccessibile, nel momento stesso in cui si voltava e rientrava nella notte» (75), la gloria di disubbidire con un gesto irresponsabile, dissolutore e, pertanto, sovranamente libero.

Ultimi avvistamenti

E se il racconto di Kafka andasse letto ancora diversamente? Se testimoniasse l‟esito di una storia che poteva andare altrimenti? Se la conversione del canto sirenico in silenzio non riguardasse il destino dell‟arte entro la vicenda di un unico soggetto, ma le peripezie di un altro soggetto? Le Sirene hanno semplicemente perduto la parola, o essa è stata loro sottratta nel corso del tempo?
Secondo Adriana Cavarero, la scena kafkiana fotografa l‟ultima tappa di un processo secolare che da Omero in avanti ha condotto alla progressiva separazione del semantico dal vocalico, connessa al «sogno metafisico» di un logos completamente emancipato dall‟ordine discorsivo e ridotto alla pura contemplazione. Temendo il nesso tra eccedenza vocalica, singolarità, fisicità, animalità e femminilità, la filosofia ha voluto sostituirsi all‟epica, sede del predominio della voce rispetto al linguaggio, ove il semantico «si piega alla musicalità del vocalico», all‟ambito dei suoni che sollecitano il godimento fisico. Eppure nel canto poetico arcaico la phonè è sempre intesa come phonè semantikè: sebbene sia innanzitutto suono, «il fatto specificamente umano della parola» resta la sua destinazione essenziale. Privilegiando il semantico rispetto al vocalico, l‟ordine simbolico patriarcale ha perciò separato forzosamente due ambiti strutturalmente connessi, inaugurando da un lato la «storia maggiore», tutta maschile, del pensiero videocentrico e devocalizzato, dall‟altro la «storia minore», tutta femminile, di una pura voce priva di contenuto e di significato.
Quella vicenda minore è inaugurata dal «tradimento riservato alle Sirene omeriche». Secondo l‟epos, il canto sirenico trasmetteva una sapienza totale, impossibile per i mortali. E ciò perché Omero voleva le Sirene controfigure di se stesso, poiché un canto femminile – quello delle Muse – era fonte divina e garanzia di verità del racconto epico. Ma lungo la storia in cui la filosofia ha preso il posto della poesia come sorgente del sapere, anche le Sirene sono state private della loro sapienza e, infine, della voce stessa. Come già aveva compreso Simone de Beauvoir, la Sirena si è identificata progressivamente con la donna così come essa ha preso corpo nell‟immaginario maschile: immanenza del dato, «oggetto pregno di fluidi» in opposizione alla soggettività astratta e trascendente con cui il maschile rappresenta se stesso. Così la donna, mai perfettamente integrata nel mondo degli uomini, ha assunto caratteri di solitudine, polarità, esclusione, incarnando un altro di cui l‟uomo cerca costantemente di impadronirsi, col rischio di perdersi divenendo straniero a se stesso (76).
Come Magritte, nel suo straordinario The Collective Invention, che raffigura l‟«ultima spiaggia» della Sirena – la sua definitiva trasformazione in corpo da possedere con testa di pesce muta –, anche Kafka racconterebbe allora la meta finale di una «controstoria» di suoni: Ulisse, «l‟uomo dello sguardo», è immediatamente distratto dalla visione famelica di nuove avventure e prossime mete: non appena incontra le Sirene le ha già dimenticate, rapito da un altrove verso cui continua a guardare, e la sua arroganza non può che metterle a tacere. «La logica insonora dello sguardo ingloba così anche i mostri canori nel suo sistema: le seduttrici vengono sedotte. Guardando lui che guarda altrove, esse tacciono perché ne sono ammaliate e non vogliono più sedurre. L‟ordine della visione vince sull‟ordine della voce e lo riduce al silenzio» (77).
Tuttavia, secondo Cavarero, si tratta di una vittoria dalle conseguenze nefaste, poiché solo una voce che sia al contempo annuncio di parola e trasmissione dell‟unicità irriducibile e musicalmente relazionale di ogni parlante può inaugurare una politica separata dalla disciplina e dalla subordinazione. La parola radicata nella sfera del corpo, che protegge i parlanti dalla loro riduzione a enti fittizi, si oppone all‟analogia tra linguaggio e politica sotto la specie della gerarchia e dell‟ordine. E poiché la vocalità, come espressione di singolarità, è il «primo che viene comunicato», precedente la parola articolata, la devocalizzazione del logos compiuta dalla cultura patriarcale si fonda su un «matricidio simbolico»: «la cancellazione del primo teatro acustico della risonanza, in cui le voci della madre e dell‟infante si comunicano, sradica […] la parola dalla relazionalità vocalica che, all‟origine, ne consente l‟avvento. Sorge così lo strano problema di affidare il legame politico a una parola che, essendo stata preventivamente separata dalla voce, non può più contare sul legame vocalico che pur l‟alimenta» (78).
Curioso che a simili conclusioni giunga Peter Sloterdijk, proprio riflettendo sulle Sirene. La tematica del «venire-al-mondo» e l‟indagine antropogenetica costituiscono tappe fondamentali nella sua «sferologia». All‟origine delle procedure di Befreundung, di amicazione e accasamento nell‟inospitale, volte alla costruzione di spazi comunitari, vi sarebbe la condizione di «lusso antropogenetico» in cui il feto sperimenta la propria nascita anticipata nel ventre materno: i vivipari vengono dall‟interno, dalla «baita originaria» del corpo della madre; sono anzitutto abitanti di una «città prima della città», pertanto il loro essere-nel-mondo consiste in un‟«estasi mondana», in un «non-essere-più-nella-madre». Dal momento della loro nascita, gli uomini si dedicano a rendere familiare il mondo, proiettandovi il modello della propria «patria originaria» uterina, tentando di riprodurre nel macrocosmo esterno, sociale, il «microcosmo del mondo prenatale» (79). Sembra esservi dunque, per Sloterdijk come per Cavarero, un legame essenziale tra la costruzione dello spazio politico e la natalità.
Lo stadio prenatale è al contempo la fase in cui l‟individuo opera la prima selezione sonora e stringe con la madre la «prima alleanza sonosferica», cui sono sempre apparentati i discorsi e le voci che in seguito, nel corso della vita, saranno in grado di toccare la profondità psichica, la «facoltà di risonanza» di chi ascolta, operando «un nuovo disarmo» in un udito divenuto duro e prudente (80), ridestando «commozione» in un soggetto fattosi adulto tramite processi di «defascinazione».
Ogniqualvolta gli uomini sono trascinati a un ascolto commosso si è in presenza, secondo Sloterdijk, di «componenti sireniche», legate a loro volta al sentimento di sé del soggetto, alla sua più intima attesa. Il comportamento comunicativo dell‟essere umano si caratterizza fin dal concepimento come una rigida selezione di stimoli acustici, prima che di significati: nella bolla sonora dell‟utero, in cui si sovrappongono innumerevoli rumori, «per il soggetto sono benvenute le sole note che gli fanno sentire di essere il benvenuto» (81), le parole amorevoli e accoglienti della madre, che spingono l‟individuo per la prima volta fuori-di-sé nella «vibrazione del saluto». L‟incantamento provocato dalle Sirene, ciò che Sloterdijk chiama in senso più generale «effetto-sirena» (Sirenen-Effekt), avrebbe dunque a che fare con «la ripetizione di un saluto costitutivo dell‟essere umano nella sua prima atmosfera» (82). Come le «buone voci materne» chiamano il loro ospite a cominciare la propria esistenza, così il canto sirenico nell‟Odissea va inteso come un‟ode di saluto e una promessa di benvenuto nell‟Aldilà di cui le fanciulle alate sono custodi. La loro melodia contiene un «invito a ultimarsi», con l‟assicurazione che la vita dell‟eroe sarà celebrata col più nobile suggello: un canto. Tuttavia, coi loro elogi postumi, alludono al «matriarcato vocale» da cui tutti scaturiamo e che determina il riprodursi dell‟effetto-sirena.
Così risponderebbe allora Sloterdijk alla domanda di Tiberio: le Sirene cantano «solo la musica dei viaggiatori» (83); ponendo l‟eroe al centro della celebrazione innica, gli mostrano il suo desiderio più profondo come già realizzato, riuscendo con questa raffinata «psicotecnica» ad accedere al centro della sua commozione artistica. Analogamente, ascoltando la voce materna «l‟eroe fetale parte per condurre la propria odissea» (84), alla costruzione di uno spazio collettivo, di una «sonosfera sociale» in cui la «musica da camera» possa infine trasformarsi in «politica del coro». «Nella casa dei suoni, che non ha muri, gli uomini [diventano] animali che si capiscono. D‟altronde, qualunque altra cosa essi possano essere, sono anche dei comunardi sonosferici» (85).


1 Cfr. Ap., IV, 890-911; Arg. Orf. 1264-1290; cfr. inoltre M. Lao, Il libro delle Sirene, Di Renzo, Roma 2000, p. 18.
2 Cfr. Verg., Aen. V, 862-866.
3 Cfr. L. Spina, Cosa cantavano di solito le Sirene?, Annali Online, Ferrara 2007, pp. 1-18.
4 L. Mancini, Il rovinoso incanto. Storia di Sirene antiche, Il Mulino, Bologna 2005, p. 46.
5 H. Blumenberg, Il futuro del mito, Medusa, Milano 2002, p. 82.
6 Cfr. W. Dilthey, Critica della ragione storica, Einaudi, Torino 1954, pp. 347-348; H. Blumenberg, Elaborazione del mito, Il Mulino, Bologna 1991, pp. 87-147.
7 Cfr. S. Nicosia, Il professore e la Sirena, in id. (a cura di), Ulisse nel tempo, cit., p. 609.
8 A. Grillo, Tra mito e letteratura antica e moderna. Appunti su Sirene e momenti di crisi, in P. Colace Radici (a cura di), Mito, scienza e mare: animali fantastici, mostri e pesci del Mediterraneo, Grafo Editor, Messina 1999, p. 25.
9 F. Kafka, Il silenzio delle Sirene. Scritti e frammenti postumi (1917-1924), Feltrinelli, Milano 1994, p. 44.
10 Ibidem.
11 J. Urzidil, Di qui passa Kafka, Adelphi, Milano 2002, pp. 66-67.
12 Cfr. J. Urzidil, Di qui passa Kafka, cit., p. 67.
13 F. Kafka, Il silenzio delle Sirene, cit., p. 45.
14 Cfr. P. Citati, Kafka, Adelphi, Milano 2007, p. 199.
15 Cfr. J. Urzidil, Di qui passa Kafka, cit., p. 67.
16 Cfr. R. Calasso, K., Adelphi, Milano 2005, p. 130.
17 P. Boitani, L’ombra di Ulisse, Il Mulino, Bologna 1992, p. 215.
18 P. Citati, Kafka, cit., p. 200.
19 F. Kafka, Il silenzio delle Sirene, cit., p. 45.
20 Ivi, pp. 45-46.
21 Cfr. J. Urzidil, Di qui passa Kafka, cit., p. 68.
22 Ibidem.
23 Cfr. G. Steiner, K, in Linguaggio e silenzio: saggi sul linguaggio, la letteratura e l’inumano, Rizzoli, Milano 1972, pp. 145-146.
24 Cfr. M.J. Shapiro, Politicizing Ulysses. Rationalistic, Critical, and Genealogical Commentaries, in «Political Theory», 1, 1989, pp. 27-28.
25 G. Steiner, K, cit., p. 146.
26 M.J. Shapiro, Politicizing Ulysses, cit., p. 28.
27 G. Baioni, Kafka: letteratura ed ebraismo, Einaudi, Torino 1984, p. 226.
28 Ivi, p. 227.
29 F. Kafka, Il silenzio delle Sirene, cit., p. 154.
30 Cfr. il breve scritto del 1933 contenuto in B. Brecht, Zweifel am Mythos, in Groβe kommentierte Berliner und Frankfurter Ausgabe, Band 19, Prosa 4. Geschichten, Filmgeschichten, Drehbücher 1913-1939, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1997, p. 338.
31 Ibidem.
32 Cfr. H. Blumenberg, Il futuro del mito, cit., pp. 115-116.
33 B. Brecht, Zweifel am Mythos, cit., p. 338.
34 Cfr. M. Bettini e L. Spina, Il mito delle Sirene. Immagini e racconti dalla Grecia a oggi, Einaudi, Torino 2007, p. 154.
35 Cfr. in particolare W. Benjamin, Le affinità elettive, in Angelus Novus, Einaudi, Torino 1995, pp. 173-20 e Destino e carattere, in Angelus Novus, cit., pp. 33-35; cfr. inoltre B. Moroncini, Walter Benjamin e la moralità del moderno, Guida, Napoli 1984, pp. 34-43 e F. Desideri, Apocalissi profana: figure della verità in Walter Benjamin, in W. Benjamin, Angelus Novus, cit., p. 323.
36 Cfr. W. Benjamin, Sul concetto di storia, Einaudi, Torino 1997, p. 45.
37 W. Benjamin, Franz Kafka. Per il decimo anniversario della sua morte, in Angelus Novus, cit., p. 281.
38 Ivi, p. 282.
39 Cfr. F. Desideri, Apocalissi profana, cit., p. 323.
40 Cfr. W. Benjamin, Il dramma barocco tedesco, Einaudi, Torino 1971, p. 133.
41 W. Benjamin, Franz Kafka, cit., pp. 281-282.
42 W. Benjamin, Il narratore. Considerazioni sull’opera di Nicola Leskov, in Angelus Novus, cit. p. 267.
43 Ibidem.
44 W. Benjamin, Franz Kafka, cit., p. 282.
45 Ibidem.
46 G. Gilloch, Walter Benjamin, Il Mulino, Bologna 2008, p. 174.
47 Cfr. S. Petrucciani, Ragione e dominio, Salerno Editrice, Roma 1984.
48 Cfr. J. Habermas, L’intrico di mito e illuminismo, in Il discorso filosofico della modernità, Laterza, Roma-Bari 1988, pp. 109-163.
49 Cfr. M. Horkheimer, T.W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo, Einaudi, Torino 1997, p. 35.
50 Ivi, p. 19.
51 D. Roberts, Arte e mito. Adorno e Heidegger, in «Nuova Corrente», XLV, 1998, p. 43.
52 Cfr. M. Detienne, J-P. Vernant, Le astuzie dell’intelligenza nell’antica Grecia, Laterza, Roma-Bari 1984, p. 3.
53 I. Wohlfarth, Entendre l’inouï. La Dialectique de la Raison et ses sirene, in «Tumultes», 17-18, 2002, p. 71.
54 M. Horkheimer, T.W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo, cit., p. 66.
55 Ivi, p. 42.
56 Cfr. T. Adorno, Il carattere di feticcio in musica, in Dissonanze, Feltrinelli, Milano 1974, p. 36.
57 Cfr. F. Jameson, Tardo marxismo. Adorno, il postmoderno e la dialettica, Manifestolibri, Roma 1994, p. 148.
58 M. Horkheimer, T.W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo, cit., p. 139.
59 T.W. Adorno, Discorso su lirica e società, in Note per la letteratura 1943-1961, Einaudi, Torino 1979, p. 49.
60 Cfr. J. Risset, Il silenzio delle sirene. Percorsi di scrittura nel Novecento francese, Donzelli, Roma 2006, pp. 97-101; J. Risset, Les fils d’Ulysse, in P. Boitani, R. Ambrosini (a cura di), Ulisse: archeologia dell’uomo moderno, Bulzoni, Roma 1998, pp. 187-199.
61 M. Blanchot, Il libro a venire, Einaudi, Torino 1969, p. 13.
62 Hom., Od. XII, 184-185.
63 M. Blanchot, Il libro a venire, cit., p. 13.
64 Ivi, p. 14.
65 Cfr. C. Tortora, Volti di sabbia sull’orlo del mare. Il pensiero del fuori in Maurice Blanchot e Michel Foucault, Monte Università Parma, Parma 2006.
66 M. Blanchot, La scrittura del disastro, SE, Milano 1990, p. 154.
67 Cfr. M. Blanchot, Lo spazio letterario, Einaudi, Torino 1967, pp. 139-151.
68 Cfr. W. Tommasi, Maurice Blanchot: la parola errante, Bertani, Verona 1984, pp. 61-65.
69 E. Lévinas, Su Blanchot, Palomar, Bari 1994, p. 50.
70 Cfr. M. Foucault, Il linguaggio all’infinito, in Scritti letterari, Feltrinelli, Milano 1971, p. 78.
71 M. Foucault, Che cos’è un autore, in Scritti letterari, cit., p. 3.
72 Cfr. S. During, Foucault and Literature. Towards a Genealogy of Writing, Routledge, London 1992, pp. 68-91; J. Revel, Foucault, le parole e i poteri. Dalla trasgressione letteraria alla resistenza politica, Manifestolibri, Roma 1996.
73 Cfr. G. Deleuze, Foucault, Feltrinelli, Milano 1987, pp. 121-123.
74 M. Foucault, Il pensiero del fuori, SE, Milano 1998, p. 49.
75 Ivi, p. 45.
76 Cfr. S. De Beauvoir, Il secondo sesso, Il Saggiatore, Milano 2002, pp. 199-201.
77 A. Cavarero, A più voci. Filosofia dell’espressione vocale, Feltrinelli, Milano 2003, p. 123.
78 Ivi, p. 226.
79 Cfr. B. Accarino, Peter Sloterdijk filosofo dell’estasi, in P. Sloterdijk, Sfere I. Bolle, Meltemi, Roma 2009, pp. 7-65.
80 Cfr. P. Sloterdijk, Sfere I, cit., pp. 444-445.
81 Ivi, p. 464.
82 Ivi, p. 466.
83 Ivi, p. 450.
84 Ivi, p. 469.
85 Ivi, p. 478.



Francesca Gruppi (Istituto Italiano di Scienze Umane), Ultimi incontri con le Sirene
"XÁOS
. Giornale di confine", Ottobre 2011, http:www.giornalediconfine.net/2011/francesca_gruppi.htm

 

 
   
 
     

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