XAOS 
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Massimo Donà

Novissima relatio

Ogni cosa è in relazione con tutte le altre; lo sapevano bene gli antichi. Lo sapeva bene Eraclito, che, nominando Polemos padre di tutte le cose, faceva della relazione oppositiva il “trascendentale” al cui abbraccio nulla può davvero sfuggire. Ma lo avrebbe ribadito a gran forza lo stesso Giordano Bruno, teorico di un vincolo universale che tutto avrebbe dovuto rendere espressione perfetta e originaria del ‘divino’.
In tempi ben più recenti se ne sarebbe accorta anche la scienza; in primis il fisico Edward Lorenz, che, il 29 dicembre 1979, presentò alla Conferenza annuale della American Association for the Advancement of Science, una relazione in cui ipotizzava come il battito delle ali di una farfalla in Brasile, a séguito di una catena di eventi, potesse provocare una tromba d’aria nel Texas. L’insolita quanto suggestiva relazione, diede il nome al cosiddetto butterfly effect.
Questo tipo di osservazioni avrebbe necessariamente condotto alla sviluppo di una Teoria del Caos in grado di porre limiti ben precisi alla prevedibilità dell’evoluzione di sistemi complessi non lineari. Diventò allora chiaro che, mentre nei sistemi lineari una piccola variazione nello stato iniziale di un sistema (fisico, chimico, biologico, economico) è destinata a provocare una variazione corrispondentemente piccola nel suo stato finale, nelle situazioni non lineari, piccole differenze nelle condizioni iniziali possono anche produrre differenze in nessun modo prevedibili nel comportamento successivo.
In ogni caso, costante sarebbe rimasta nel corso della storia la persuasione secondo cui non sarà mai possibile comprendere il senso della cosa, e dell’evento ad essa sempre connesso, se non guardando alle ‘relazioni’ entro cui essa si costituisce appunto come ‘cosa’, e l’evento ad essa connesso si costituisce come quel preciso evento che esso stesso è, in quanto diverso da qualsiasi altro.
Inamovibile, dunque, la convinzione secondo cui sarebbe proprio la specificità, l’irriducibilità dell’evento di volta in volta chiamato in causa, a dipendere dalla molteplicità infinita di connessioni che costituiscono il suo concreto accadere. Sì, perché le connessioni che determinato ogni possibile evento sono necessariamente infinite.
Se non fosse così, infatti – ossia se fosse possibile delimitare l’ambito delle medesime (e quindi circoscriverlo entro un orizzonte in qualche modo disegnabile o determinabile) –, ci si troverebbe costretti a riconoscere che anche tale ambito rinvia ad un oltre ad esso connesso, sia pure ‘polemicamente’ (ossia nella forma dell’esser-diverso), e dunque connesso al medesimo evento da cui aveva preso le mosse la nostra inesausta ricerca di senso. E così via…, in conformità ad un processo infinito di cui mai potrà essere stabilito l’ultimo passo. Di cui, ogni volta, cioè, dovremmo dire che non-è concluso.
Da ciò l’esclusione, da tale orizzonte, anche della semplice possibilità di una qualsivoglia conclusione, ossia di una ‘fine’… di un ‘ultimo’.
L’infinità del processo dice cioè l’impossibilità di una qualsivoglia conclusione, di un qualsivoglia compimento.
Compiuto è infatti solo il ‘finito’. Avevano ragione i greci: la perfezione sta nel ‘limite’. Guai a farsi sedurre dalle menzognere sirene dell’infinito ! Menzognere perché, mentre si affaticano a convincerci all’estasiante vertigine connessa alla natura divina da esse prospettata, finiscono in realtà per destinare al delirio di una irrisolvibile insoddisfazione che sempre vuole compiersi, ma non può. Perché è proprio questo il punto: anche la procedura infinitizzante è mossa dal desiderio del compimento; solo che… ad ogni guadagno, essa fa corrispondere il radicale naufragio della speranza, e dunque l’incessante ed instancabile riattivarsi del desiderio.
Eppure, l’infinito non è una semplice promessa; una illusoria promessa; una semplice possibilità che potremmo anche voler percorrere. Esso è piuttosto la nostra cruda ed irremovibile realtà.
Perché ogni stato definito, particolare, determinato, riconoscibile… ogni situazione della nostra concreta esistenza è inscritta in tale delirio; anzi, è sua indelebile espressione. Se è vero che le connessioni che ci determinano non sono mai quelle possiamo riuscire ad individuare e descrivere. Si basi bene: non che esse siano altre, piuttosto che quelle da noi indicate. Ben più semplicemente, esse non-sono quelle che ogni volta di fatto riusciamo ad indicare.
Da ciò la necessità di pensare un senso del ‘non-essere’ che nulla abbia più a che fare con l’astratta forma dell’esclusione cui ci aveva abituati la metafisica occidentale, almeno a partire dal Sofista platonico (ma forse già a partire dal Poema parmenideo). Ma che nello stesso tempo ‘non la escluda’.
La necessità di pensarlo, dunque… ma, ancor più urgentemente, di sperimentarlo, di ritrovarlo ‘vivente’ in medias res!

 

E se fosse proprio l’esperienza dell’arte l’unica in grado di indicarci tale sinora inascoltata possibilità?
Se fosse cioè proprio la stra-ordinarietà dell’esperienza estetica a suggerirci un altro modo dell’abitare, dell’essere al mondo, un modo evidentemente ancora tutto da sperimentare e articolare filosoficamente… che nulla avrebbe comunque a che fare con quel determinarsi che si limita ad escludere (polemicamente) l’altro-da-sé?
Una modalità dell’esserci che apra quindi ad un senso davvero inaudito dell’universale ed ineludibile ‘relazionarsi’ reciproco?



Massimo Donà, Novissima relatio
"XÁOS
. Giornale di confine", in speciale "spazidelcontemporaneo 2005".

 

 
   

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