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Giuseppe Pulina

La parola imprigionata. Pessoa, Jabès, Bernhard e la scrittura

 

La fine del mondo non è un’oziosa questione metafisica. Non è nemmeno, come con una certa malizia si potrebbe supporre, un rompicapo escogitato dall’ingegno postmoderno. È, più di ogni altra cosa, la risorsa estrema, forse una delle ultime carte da giocare, della filosofia occidentale. Un’istanza estrema, che si misura con l’estremo e il vertiginoso. Non una semplice ed innocente, per quanto a suo modo spinta, visione del mondo, ma un tentativo di pensare senza il mondo (qui inteso anche come l’idea kantiana finemente confutata nella Critica della Ragion pura), per stabilire che cosa mai possa dire di nuovo la sua rivelazione. Per pensare, insomma, il mondo al di là del mondo. Non un oltremondo, perciò, né un regno dei fini ritagliato su misura per l’uomo di Auschwitz, si tratti pure del sopravvissuto o del suo responsabile.
Pensare la fine del mondo è ciò che in realtà oggi si fa tutte le volte che si riflette sul senso della nostra esperienza storica, sull’attualità o meno delle filosofie della storia e su ciò che molto riduttivamente si potrebbe intendere come destino. Dopo Nietzsche, attraverso Heidegger, sino alle cosiddette “filosofie del postmoderno”, la filosofia si è qualificata come una forma di pensiero estremo che aspira in un certo senso a fare del mondo il soggetto di una rappresentazione senza cornice, l’alter ego delle metanarrazioni, come le definisce Lyotard, in cui la storia finisce con l’avere sempre uno sviluppo ordinato e dotato di senso.
Un modo per pensare la fine del mondo è, fra i tanti possibili, quello del pensiero pensante, il pensiero di pensiero che non coincide con una sterile appercezione intellettuale, quasi si trattasse di un aggiornato δαίμων socratico. Ha un po’ dello sventurato naufrago del Titanic, questo pensiero che pensa se stesso, costretto a vivere in un mondo senza orizzonte [1] , a lustrarsi senza potersi specchiare, a resistere sul ponte di maestra alla forza montante delle onde. È un pensiero che potrà non piacere, ma è il pensiero (vale a dire la caratteristica posa speculativa del soggetto postmoderno) con il quale oggi ancora si è in grado di pensare la fine, comune a filosofi, poeti, artisti, per molti dei quali l’essere obliato di cui parla Heidegger non merita di essere riscattato con la memoria.
Esemplari sotto questo profilo ci sembrano le esperienze estetiche di Fernando Pessoa, Thomas Bernhard ed Edmond Jabés, tre scrittori che oggi si tende forse un po’ arbitrariamente a considerare sub specie philosophiae. Le loro esperienze, il modo in cui hanno tradotto sotto uno stile che fa tutt’uno con il suo contenuto l’oggetto delle rispettive visioni del mondo – e qua weltanschaung non può significare ideologia – è segno che il pensiero è diventato in campo letterario l’espressione più alta della dissoluzione, la diretta sperimentazione sulla propria pelle – quella dello scrittore che non finge di raccontare se stesso – della possibilità della fine. È in parte vero che tanta scrittura letteraria sia oggi perdutamente personale e troppo coinvolta con le vicende del suo autore, ma ciò non toglie rilievo al fatto che la scrittura sia sempre più l’ambito di esercizio di quel tipo di pensiero di cui la filosofia rivendica da tempo e con urgenza un maggiore controllo. Come nascondere o spiegare altrimenti la simpatia che i filosofi dimostrano di avere per Char, Genet, Rilke, per non parlare dell’Hölderlin heideggeriano, modello di una propensione filosofica per la poesia che regge ancora il passo? Lo Juan de la Cruz tanto amato da Edith Stein non è ad esempio il santo che rivoluzionò gli schemi della religiosità carmelitana (non solo quelli, comunque), quanto, piuttosto, il poeta del Canto della notte oscura [2] ? Con ciò si vuole dire che dopo aver gettato la maschera e tirato le somme della sua rivoluzione copernicana, la filosofia si è resa debitrice di spazi, risorse e meccanismi di analisi alla letteratura, da cui attinge a piene mani e in cui si concede frequenti incursioni. Che ciò non sia poi così inverosimile lo dimostra proprio la nostra domanda di partenza (quella che, non ancora formulata, abbiamo semplicemente voluto lasciare intendere): la fine, la raccontano meglio i filosofi o gli scrittori di “professione”? possono i filosofi “raccontarla”? il racconto non tradisce forse un ritorno a forme di lettura degli eventi del mondo abbondantemente superate almeno in campo filosofico? Come si può capire, allora, prendere brevemente in esame i casi di Pessoa, Jabés e Bernhard (tre autori a noi cari) è un’operazione che non contraddice affatto il senso del nostro lavoro.

La scrittura contabile di Bernardo Soares

L’opera nella quale Fernando Pessoa si sarebbe identificato è quel Livro do Desassossego [3] che non riuscì (o che forse non avrebbe mai potuto) realmente completare. Il desassossego, l’inquietudine che si fa parola, è la condizione limite, il perno sdrucciolevole e strutturalmente instabile attorno al quale gravita l’universo pessoano, in cui una strana forma di indolenza dettata dalla “vecchiaia dell’eterno nuovo” [4] , impone l’esigenza di un radicale spossessamento, un mettersi a nudo dell’anima, per togliersi di dosso, “come un abito pesante, vicino al grande letto, lo sforzo involontario di essere” [5] . Operazione tutt’altro che facile e per niente indolore che ha gia propiziato numerosi tentativi letterari che sarebbe opportuno non confondere con quello messo in atto da Pessoa, che cerca, con la penna, di prendere congedo da sé, rinunciando volontariamente all’inalienabilità del personaggio incarnato (“spossessandosi”, appunto), malgrado l’uso di eteronomi, di cui quello di Bernardo Soares, protagonista del Livro, è la somma che li comprende tutti.
Che cosa significa “spossessarsi”? E perché poi Pessoa avrebbe trasformato la sua tecnica di scrittura in un “esercizio apocalittico”? Forse perché “Vivere è essere un altro” [6] o perché, ma in fondo è la stessa cosa, “è essere oggi il cadavere vivo di ciò che ieri è stata la vita perduta” [7] . Verrebbe da pensare ad una forma di malheur letterario, ad un’esistenza che non si eleva oltre la mediocrità malgrado lo stato di autentica angoscia, e di estrema solitudine, in cui versa. Ma non è semplice solitudine, e se lo fosse, se fosse cioè sensato chiamarla così, coinciderebbe con uno stato esistenziale ancor più esclusivo.
La mia solitudine non consiste in una ricerca di felicità, che non ho la forza di raggiungere; né di tranquillità, che si ottiene soltanto se non la si è mai perduta. Ma è una ricerca di sonno, di annullamento, di piccola rinuncia [8] .
D’altronde, il pensiero della fine del mondo attraversa tutto Pessoa. È un pensiero per così dire riflesso, sdoppiato, disingannato, follemente vigile, come quello di chi pensa che non ci sia niente di nuovo da pensare, niente di nuovo da vedere e che il detto dell’Ecclesiaste – “niente di nuovo sotto il sole” – tradisca il più beffardo degli assunti metafisici: l’inessenzialità dell’essere e la vanità del pensiero che lo riflette. Un gioco di specchi, sul quale si regge l’onirismo pessoano, il desassossego, per il quale “l’artificiosità è un modo di assaporare la naturalità” [9]. Una forma di puro e ingenuo onirismo, nient’altro che questo? Lo sarebbe potuto essere, se non fosse stato che il sogno è un accesso abusato, un luogo troppo comune per non essere anche volgare [10] . Quello che le circostanze esigerebbero è una forma di aristocratico pudore per “trattare i nostri sogni e i nostri desideri più segreti in modo altero, en grand seigneur, porre un’intima delicatezza nel non averne cura” [11] . Vale a dire che, “per poter stare a nostro agio, dobbiamo ricordarci sempre che siamo costantemente alla presenza di noi stessi, che non siamo mai soli” [12] .
Sognare, allora. O vivere come se la vita fosse sogno o “un viaggio sperimentale fatto involontariamente” [13]. Sognare, allora, senza misura, perché non è possibile alcuna moderazione. Anche perché smettere di sognare – decidere realmente di interrompere il sogno così come si smette un antico vestito – è come decidere di non vivere più e vivere nello stesso tempo o, per usare le parole che Paul Eluard riferiva comunque ad altro genere di esperienza, “vivere e non più vivere”. Non resta che sognare, allora.
Ho sempre sognato molto. Sono stanco di aver sognato, ma non sono stanco di sognare. Nessuno si stanca di sognare, perché sognare è dimenticare e il dimenticare non pesa ed è un sonno senza sogni fatto in stato di veglia. In sogno ho raggiunto tutti gli scopi. Talvolta mi sono anche risvegliato, ma cosa importa? Quanti Cesari sono stato! E i gloriosi, che meschini! Cesare, salvato dalla morte dalla generosità di un pirata, lo fa crocifiggere appena l’ha catturato dopo un’accurata ricerca. Napoleone fa il suo testamento a Sant’Elena e lascia un’eredità a un facinoroso che aveva tentato di assassinare Wellington. Oh, grandezze, pari alla grandezza d’animo della dirimpettaia strabica! Oh, grandi uomini della cuoca di un altro mondo! Quanti Cesari sono stato e sogno ancora di essere! [14]
Questo è inchiostro apocalittico. E apocalittico è l’atto della serpe che tenta invano – ma non le resta altro da fare – che mordersi la coda. Ricerca dell’estremità, di concavità inesplorabili, votata allo scacco dell’autoderisione. Ci dica il lettore se nel passo che di seguito proponiamo si consuma o no tutto il senso residuo della kantiana rivoluzione copernicana? È o non è l’atto di congedo dal mondo (e qui, su questa nozione di “mondo”, si potrebbe davvero aprire una parentesi interminabile) di un soggetto che non sa che farsene del suo dominio assoluto?
Ma che cosa? Che cosa c’è nell’aria se non l’aria alta, che non è niente? Che c’è nel cielo se non un colore che non è suo? Che cosa c’è in quegli stracci men che nuvole, di cui pur dubito, se non l’incisione di riflessi di luce di un sole già tramontato? Che cosa c’è in tutto questo se non io? Ah, ma il tedio è questo, è solo questo. In tutto questo – cielo, terra, mondo – ciò che c’è in tutto questo non è se non io! [15]

Il libro diveniente di Edmond Jabès

L’opera di Edmond Jabès, poeta ebreo e francese, segue lo sviluppo di uno spartito a spirale. È come una partitura senza cornice costituita da una gamma di variazioni tutte incentrate sulla stessa questione: il Libro. Jabès scrive libri [16] perché va alla ricerca del Libro, il grande Libro, che può far giustamente pensare al testo sacro dell’ebraismo, nel quale cova e si esaurisce l’atto di ogni autentica sovversione. In Jabès, più che in altri scrittori [17] , si può cogliere quella dimensione apocalittica della scrittura che è un tratto caratteristico del nostro tempo. Scrittura che è esercizio di morte, esperienza della fine, ricerca di nuovo e vecchio senso, subversion [18]. La scrittura o il Libro – termini difficili da distinguere in un significato appartato – hanno in comune lo stesso destino, impulso, direzione: la morte. “«Noi andiamo verso il libro, come si va con certezza alla morte. Ah, chi ci leggerà dopo di noi?», diceva Reb Stein. La razza si estingue con l’estremo vocabolo”[19].
L’esaurimento della parola equivarrebbe all’estinzione della razza, e, si badi, non solo per inciso, come questo riferimento non sia affatto innocuo in Jabès. La parola troncata coinciderebbe con il muto silenzio che non dice più niente. Insomma, la parola lambisce la morte e, non a caso, “la morte è l’apoteosi del nome” [20] .
“Nella morte, il vocabolo diventa visibile. È la legge letta. Questa rinascita del segno è il mistero che denuncia la scrittura; mistero umano che, senza il libro, nessuno potrebbe sospettare. Tutte le fasi della creazione sono nella frase. La morte è la tappa in cui la vita prende un senso, in cui la perla, al di fuori della collana, prova la sua profonda e immortale libertà” [21] .
Come dire che (e Jabès lo sostiene realmente) “per il fatto di rivelare l’oggetto nominandolo, la parola inaugura un’esistenza mortale” [22] . La parola interrompe la morte, se la morte può dirsi silenzio assoluto e se mai tale esperienza potrà raccontarsi e diventare (ma chissà come) parola. “Nel silenzio, per Jabès, siamo sempre in ascolto della morte” [23].
L’esaltazione del linguaggio (perché a questo complesso “ufficio” speculativo si riduce in fin dei conti la metapoesia di Jabès) rivelerebbe superficiali e sorprendenti affinità con l’Heidegger cultore di Hölderlin, se non fosse però per la forte connotazione religiosa, e più autenticamente lirica, in cui Jabès, ebreo scampato ad Auschwitz, immerge le proprie riflessioni. La facilità del parallelo non è sfuggita a Vitiello, che, rinvenendo “radici più profonde” nella scrittura jabèsiana, pensa, sulla scorta di quanto aveva già annotato Scholem, di scorgere una sua possibile connessione “alla concezione cabalistica della creazione come autolimitazione divina” [24] . Basterebbe prendere in esame due passaggi tratti rispettivamente dal terzo e dal secondo Libro delle interrogazioni per avere una facile conferma.
“Il destino della parola è il destino delle nostre passioni. Lo scrittore si interroga all’infinito nell’infinita solitudine di Dio di cui ha ereditato il gesto spento. Riaccendere, ogni volta, il gesto divino, questo è il nostro contributo alla luce. Siamo nel cuore della creazione, assenti nel Tutto, nel midollo o nei riflessi dell’Assenza, con il Nulla per risorsa, come mezzo per essere e sopravvivere. Di modo che, nell’atto creatore, siamo, e sino al superamento, il Nulla di fronte al Tutto rigeneratore.
Libro del libro escluso e rivendicato. La parola, di cui fui la meditazione ed il dolore, scopre che il vero luogo è il non-luogo dove Dio sta, dove risplende di non essere, di non essere mai stato. Da allora, ogni interpretazione di Elohim, ogni incontro di Adonai non può essere che personale; ogni legge che legge individuale, ogni verità che verità solitaria nel grido che ci strappa. E ciò nella trasmettibilità di una Verità riconosciuta, di una legge comune e chiusa” [25] .
“Verrà forse un giorno in cui i vocaboli perderanno per sempre i vocaboli. Verrà un giorno in cui la poesia morirà. Sarà l’era del robot e della parola imprigionata. La sventura degli Ebrei sarà universale” [26] .
La parola è gesto creatore. È λόγος. Creazione [27] . La si dica pure “Verbo”, ma tenendo conto della possibile e non esplicitamente dichiarata simpatia di Jabès per le culture religiose ebraiche ai margini della ortodossia [28] . La parola imprigionata – l’urlo strozzato di un deportato che respira l’aria di morte di un campo di sterminio – sarà la grande sventura. L’ultima parola coinciderà con il gesto irreparabile. Si capisce allora che “non è la parola scritta a cancellarci, ma la parola cancellata nella parola” [29] . Parole, solo in apparenza nuove [30] , che cancellano altre parole, in cui consiste l’humus del mondo (la ricetta della creazione, se si vuole dare corpo all’espressione impiegata) e in cui sono possibili il gioco della con-divisione e la prospettiva dell’alterità, l’essere straniero e il non essere Dio. Alla parola viene perciò delegata la più autentica forma di trascendenza. Lo ha sostenuto Lévinas in rapporto a Maurice Blanchot, nel quale si può cogliere più di una suggestione jabèsiana (e viceversa, comunque). “Il dire è Desiderio che l’approssimarsi del Desiderio esaspera, scava e dove, così, l’approssimarsi del Desiderabile si allontana. Tale è la modalità della trascendenza, di ciò che avviene veramente” [31] . Lo ha detto Lévinas – lo ripetiamo – ma poteva dichiararlo negli stessi termini anche Blanchot, così come lo stesso Jabès.

Thomas Bernhard: pensare come scrivere, scrivere come pensare

Se Jabès pratica la sovversione – modalità “non sospetta” di lettura del Libro – Bernhard è più incline a quella che lo stesso autore di Korrektur e Verstörung ha piuttosto chiamato “inversione”, ma anche “Widerdenken” (“pensare contro”) o “correzione della correzione”. Pensare contro che cosa – verrebbe da chiedersi – e quale correzione correggere? In gioco sarebbe la verità. La sua posta – non molto gradevole sotto il profilo filosofico – sarebbe la non-verità. In Korrektur si legge che “la verità è sempre un abisso. La non-verità è un lassù, un sopra, soltanto la non-verità non è la morte come verità è la morte, soltanto la non-verità non è l’abisso” [32]. Eccoci, allora, ancora una volta in presenza di una scrittura che ha scelto di misurarsi con la morte tentandole però tutte per non cadere nell’abisso. Optando, quindi, per la menzogna, la vita, la non-verità. Insomma, Bernhard avrebbe praticato un uso esorcistico della scrittura. Lo ha creduto – e, a nostro avviso, non a torto – Giorgio Gargani [33] , che ne ha ricondotto lo stile ad una forma di espressività densamente speculativa, perché quello che Bernhard racconterebbe non sarebbe il pensiero di un oggetto (di un qualsiasi oggetto), ma, e di questo rende ragione anche l’impianto a spirale di alcuni suoi romanzi, la cura affannosa e tormentata dello stesso pensiero [34].
Se “il pensiero è l’inversione di tutte le verità riconosciute” [35], pensare, per Bernhard e i suoi personaggi, significherà compiere, attraverso una serie di esercizi speculativi, una continua e salutare correzione della realtà. Il lettore di Bernhard può anche avere talvolta la sensazione che le trame si svolgano attorno ad un soggetto inconsistente e che tutto si riduca in fin dei conti ad un gioco (ma dove c’è fiction, si dovrebbe sapere, non c’è vero inganno) di pure prestazioni cerebrali. Sensazione che è forse un effetto deliberatamente ricercato dallo stesso Bernhard in A colpi d’ascia, romanzo del 1984, in cui un personaggio senza volto e senza nome, identificabile nello stesso autore, usa il pensiero come un’affilata ascia che sbriciola, senza risparmio (nemmeno di chi la impugna), tutto ciò su cui si abbatte. Holzfällen [36] è un romanzo non facile, in cui potrebbe sembrare che il vero oggetto della trama sia l’irritazione (e Eine Erregung, Una irritazione, ne è il sottotitolo), un moto d’ira contro la decadente e anacronistica Vienna della seconda metà del Novecento. Si tratta, invece, a ben guardare, di altro. E cioè di una tecnica del racconto che assume il ruolo di protagonista, di una serie di pensieri ininterrotti la cui apparente continuità è data da un puzzle di frammenti. Una vera e propria “scepsi linguistica” [37], si potrebbe dire, consistente in una saldatura di impercettibili interruzioni, malgrado l’apparente e banale contraddizione in termini. Come dire che pensiero e linguaggio – e il pensiero è per Bernhard la forma più estrema di linguaggio – non devono compromettersi con il mondo, tenendosi sempre ben distanti da questo. Altrimenti come potrebbero rifletterlo [38], raccontarlo, prenderne le misure? È disincantamento? Esilio forzato del concetto nel verbo che trattiene a stento la parola pensata? Sembra, più che altro, un’opera di resistenza contro la vanità delle cosiddette verità e l’impossibilità per la parola, che gli dovrebbe dare corpo, di stringerle e afferrarle. Movendo dalla lettura di Verstörung, Eugenio Bernardi ha osservato come la “constatazione che tutto è già stato detto e scritto non porta a un gioco con le parole e le strutture sintattiche, anzi, continua a indicare, a ogni aggressione, un margine di resistenza, una reticenza” [39]. Difficile non essere d’accordo.
La parola perde così ogni carica consolatoria, non sutura ferite, ma lenisce solo il dolore. Cioè: non è chiamata a riprodurre il senso di un mondo della cui caduta è semplice testimone. Non le resta da dire che ciò che non può assolutamente cambiare, vivendo quasi in bilico (e lo pensa Bernardi [40] ) tra dissoluzione e trascendenza, nichilismo e vitalismo. Non è dissoluzione assoluta. Se lo fosse, la parola non potrebbe raccontare nemmeno sé stessa. E non è nemmeno – se si vuole dare ragione a quel che in proposito ha scritto Claudio Magris [41] – una forma di sopravvivenza residuale al mondo che non c’è più. È una parola deteriorata, senza speranza, che si presta ad un esercizio di morte, al racconto di un’esperienza della fine verso cui si sente inadeguata, come un moto sterile che non sa esprimere ciò che lo provoca. O, se volessimo utilizzare le parole che, in Ungenach [42], il notaio Moro di Gmunden riferisce a Robert Zoiss, potremmo definire la scrittura bernhardiana come “un’enorme attività diretta contro la noia… un’insensatezza rivolta contro la mancanza di senso” [43]. Siamo o non siamo nel punto nave della meno escatologica delle apocalissi?

 



[1] Si pensi alla sentenza nietzscheana della morte di Dio e all’annuncio del folle che si chiede se esistano ancora un alto e un basso o se si stia forse vagando attraverso un infinito nulla. Un mondo senza orizzonte non potrebbe essere diverso da quello. Cfr. Nietzsche, La gaia scienza, in Opere, vol. V, tomo II, Adelphi, Milano, 1991², pp. 150-152.
[2] Cfr. Edith Stein, Scientia Crucis, Roma, OCD, 1996; in particolare, il primo capitolo, “La Croce e la Notte” (“Notte dei sensi”, pp. 61-77), in cui si coglie l’impatto del primo approccio interpretativo alla poetica del mistico spagnolo.
[3] Pubblicato per la prima volta in Portogallo nel 1982. il Libro dell’inquietudine (tr. it. Maria José de Lancastre e Antonio Tabucchi, Milano, Feltrinelli, 2000) è più di qualsiasi altra opera di Pessoa quella in cui l’autore avrebbe voluto identificarsi. Un “libro-progetto”, fa presente Tabucchi nel saggio introduttivo preposto all’edizione italiana, un “libro assoluto”, un diario dell’intimo ordinario redatto con lo stile di una “scrittura contabile”. Un libro rimasto inesorabilmente incompiuto, che, come la vita, si lascia raccontare, quando ciò è possibile, solo a mezza strada.
[4] F. Pessoa, Il libro dell’inquietudine, cit., p. 44. L’opera, oggetto di ripetute citazioni, sarà segnalata d’ora in avanti con la sigla LD.
[5] LD, p. 46.
[6] LD, p. 72.
[7] Ibid.
[8] LD, p. 73.
[9] LD, p. 76.
[10] “I sogni hanno questo di volgare: che tutti sognano. Nel buio pensa a qualcuno il garzone che durante il giorno si appisola appoggiato al lampione, nell’intervallo fra una vettura e l’altra. Io lo so che cosa pensa fra sé e sé: pensa alla stessa cosa nella quale mi inabisso fra un’addizione e l’altra nel tedio estivo dell’ufficio silenzioso” (LD, p. 79).
[11] LD, p. 207.
[12] Ibid. Nella stessa pagina del Livro si legge che “L’aristocratico è colui che non si dimentica mai di non essere mai solo; perciò la prassi e il protocollo sono appannaggio delle aristocrazie. Dobbiamo imparare l’aristocrazia interiore. Strappiamola ai saloni e ai giardini e trasferiamola nella nostra anima e nella nostra coscienza di esistere. Stiamo sempre al cospetto di noi stessi in protocolli e prassi, in gesti studiati e fatti per gli altri”.
[13] LD, p. 73.
[14] LD, p. 93.
[15] LD, pp. 144-145.
[16] “Libri, scrive, ad esempio, Jabès, il cui destino – immobile avventura – io ho sposato quando li ho decifrati, quando mi sono identificato in essi fino a diventare davvero la loro stessa scrittura. Miracolo reso possibile al prezzo del mio dissolvimento” (Il libro della sovversione non sospetta, Milano, Feltrinelli, 1984, p. 95).
[17] Non neghiamo di aver pensato al Blanchot de L’infinito intrattenimento. Scritti sull’insensato gioco di scrivere (Torino, Einaudi, 1977).
[18] “La sovversione è il movimento stesso della scrittura: il movimento della morte” (Il libro della sovversione non sospetta, cit., p. 7), “ordine virtuoso opposto ad un ordine reazionario” (p. 12), “l’arma preferita dell’inconsueto ma anche dell’ordinario” (p. 34) o forse “solo lo scarto tra la cosa creata e la cosa scritta” (p. 35).
[19] E. Jabès, Il libro delle interrogazioni. II. Il libro di Yukel, Genova, Marietti, 1988, p. 80.
[20] Il libro delle interrogazioni. III. Il ritorno al libro, cit., p. 141.
[21] Ivi, p. 147.
[22] Ivi, p. 148.
[23] Ibid, I, p. 92. E in un’altra pagina del Libro delle interrogazioni si legge: “Ho voluto, amore mio, chiamarti con un nome che sfugge alla morte, nome inviolabile, dalle catene divine. Ti ho voluto chiamare «LM». Ero il merito di questo nome privo di storia, senza età né luce. Ero, di fronte a questo nome, con te, senza te. La mia emozione non era terrena. Passavo attraverso la scrittura” (LI, 148).
[24] Vincenzo Vitiello, La scrittura del frammento. La teologia apofatica di Edmond Jabès, in “aut aut”, gennaio-febbraio 1991, n. 241, p. 42. Così, più estesamente, Vitiello: “Das Sein entzieht sich. Jabès ripete Heidegger? No, la sua scrittura ha radici più profonde. Si connette alla concezione cabalistica della creazione come autolimitazione divina (Scholem GJ, 41-73). La parola ebraica tzimtzum (contrazione) nomina l’atto originario di Dio, che per far essere le cose, il mondo, si è ritirato in sé. Da questo originario ritrarsi è sorto l’Urraum, lo spazio originario, lo ‘splendore dell’universo’, il luogo della rivelatività dell’ente, degli enti. La verità o disvelatezza, l’αλήθεια, dell’ente in generale. Die Lichtung des Seins” (p. 42).
[25] LI, p. 196.
[26] LI, p. 58.
[27] “La parola va alla parola per promuovere prima la frase, poi la pagina, ed infine il libro: per sopravvivere infatti, essa deve attivamente contribuire ad emancipare il mondo della parola, essere un elemento dinamico della sua trasformazione e della sua unità. All’ombra o a fianco del pensiero, la parola si unisce a quella che la segue logicamente nell’inflorescenza della frase, o a quella di cui presagisce la venuta. Ogni sillaba, ogni lettera di tale parola gioca la sua parte di noto e d’ignoto nella meditazione o nell’audacia. Il pensiero assiste ai segreti incontri di vocaboli che ha provocato; ne favorisce le alleanze ed il proposito sottile, poiché grazie ad essi o attraverso essi il pensiero si precisa, si prolunga, supera se stesso, s’inventa, rinuncia (LI, p. 56).
[28] Cfr. Vincenzo Vitiello, Op. cit., pp. 33-49, in cui si indica nel “nomadismo radicale” di Jabès il tramite che lo porterebbe diritto nell’“alveo del nichilismo europeo”.
[29] Jabès, Uno straniero con, sotto il braccio, un libro di piccolo formato, Milano, SE, 1991, p. 34.
[30] “Nominiamo ciò che, da sempre, possiede un nome nascosto. Gli diamo un nome che ci permetterà di nominarlo; nome della con-divisione” (Ivi, p. 56).
[31] Emmanuel Lévinas, Su Blanchot, Bari, Palomar, 1994, p. 68.
[32] Bernhard, Korrektur, Suhrkamp, Frankfurt a M., 1984, p. 361.
[33] Aldo Giorgio Gargani, La frase infinita. Thomas Bernhard e la cultura austriaca, Bari, Laterza, 1990.
[34] “Il pensiero, quale esercizio di inversione e perversione delle verità comuni e usuali, come pratica della continua correzione che ha l’effetto di mostrare che tutto è diverso, che tutto è sempre diverso attraverso la dissoluzione di qualsiasi dato, fatto e concetto, questo pensiero dunque è il pensiero che incontra quella che è poi la condizione fondamentale della vicissitudine da cui è tormentata l’esistenza umana disegnata da Bernhard, e cioè un mondo che si autodistrugge, che si scompagina attraverso lacerazioni tormentose, è la natura, che è una natura crudele, ingannevole, infame, l’amore per la quale è perversione” (Gargani, Op. cit., p. 33).
[35] Ivi, p. 31.
[36] Holzfällen. Eine Erregung (Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Maim, 1984) vale a dire A colpi d’ascia. Una irritazione (Milano, Adelphi, 1990), secondo la traduzione italiana di Agnese Greco e Renata Colorni di cui ci siamo serviti.
[37] Cfr. Gargani, Op. cit., p. 29.
[38] “L’immagine, in quanto identificazione di un’idea con il mondo, costituisce però l’arresto stesso, la paralisi mortale del pensiero; essa costituisce la sottrazione delle possibilità alternative sull’oscillazione delle quali poggia il pensiero stesso, in quanto esso esiste contro i fatti” (Ivi, p. 16).
[39] Eugenio Bernardi, Prima dell’ultimo spettacolo, postfazione critica all’edizione italiana di Verstörung (Perturbamento, Milano, Adelphi, 1981, p. 234).
[40] Ibid.
[41] Cfr. Claudio Magris, Thomas Bernhard: La geometria della tenebra, “Il Veltro”, 11, n. 5-6, sett.-dic. 1977, pp. ***.
[42] T. Bernhard, Ungenach (tr. it. di E. Bernardi), Torino, Einaudi, 1993.
[43] Ivi, p. 19

 


Giuseppe Pulina, La parola imprigionata. Pessoa, Jabès, Bernhard e la scrittura, in "XÁOS. Giornale di confine", Anno II, N.1 Marzo-Giugno 2003, URL: http://www.giornalediconfine.net/anno_2/n_1/15.htm

 

 

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